mercoledì 30 ottobre 2013

Mare dentro

Mare dentro

Titolo originale:  Mar adentro
Lingua originale  spagnolo
Paese di produzione  Spagna, Francia, Italia
Anno 2004      Durata 125 min
Genere:  Drammatico, biografico
Regia: Alejandro Amenábar
Soggetto  Alejandro Amenábar, Mateo Gil   Sceneggiatura  Alejandro Amenábar, Mateo Gil
Produttore  Alejandro Amenábar, Fernando Bovaira, Emiliano Otegui
Distribuzione (Italia) Lucky Red
Fotografia  Javier Aguirresarobe   Montaggio  Iván Aledo, Alejandro Amenábar     Musiche  Alejandro Amenábar         Scenografia  Benjamín Fernández
Interpreti e personaggi   Javier Bardem: Ramón Sampedro   Belén Rueda: Julia   Mabel Riveira: Manuela   Lola Dueñas: Rosa   Celso Bugallo: José   Clara Segura: Gené    Joan Dalmau: Joaquín    Alberto Jiménez: Germán   Tamar Novas: Javi   Francesc Garrido: Marc  José María Pou: Padre Francisco  Alberto Amarilla: Andrés  Andrea Occhipinti: Santiago

Abbiamo lasciato la terra e siamo saliti sulla nave! Abbiamo tagliato i ponti dietro di noi e rotta ogni strada. Ed ora, navicella, fa ben attenzione! Ai tuoi fianchi v'è l'Oceano. E' vero che esso non sempre muggisce e talvolta si distende come seta e oro sogni di bontà. Ma verranno momenti in cui riconoscerai che è infinito e che non esiste nulla di più terribile che l'infinito. Oh, povero quell'uccello che si è sentito libero, e ora batte alle pareti di questa gabbia! Guai se lo coglie la nostalgia della terra, pensando che vi fosse maggior libertà...e la <terra> non esiste più! (F. Nietzsche, La gaia scienza)
Il cristianesimo ha fatto della straordinaria tendenza al suicidio al tempo del suo sorgere, una leva della sua potenza. Esso lasciò soltanto due modi di suicidio, circondandoli di altissima dignità e di sublimi speranze, e proibì tutti gli altri con minacce terribili. Ma il martirio e la lenta annichilazione corporale degli asceti furono permessi. (F. Nietzsche, La gaia scienza)


La malattia, diceva Nietzsche, permette di guardare la realtà con occhio diverso, è addirittura occasione per raggiungere una vera e completa sanità mentale. Ramon, fermo nel suo letto calvario, immobile come un vegetale pensante, ha modo di vedere il mondo con gli occhi di un malato cronico e giudica la realtà dalla angusta prospettiva della sua camera.


Noi spettatori siamo chiamati ad immergerci in quel mondo attraverso le soggettive che Amenabar profonde in quantità e che ci conducono a vedere ciò che la mente di Ramon elabora dal suo capezzale-prigione. Il mare dentro è ciò che quella mente si porta come ricchezza di una umanità che priva del corpo acuisce ancora di più il senso della mente e dell'immaginazione che diventano una appendice dei sensi materiali. Il film di Amenabar  si apre proprio con una voce off, dolce e suadente, che invita il protagonista ad immaginare un mondo di meraviglia e bellezza. Questo mondo è in una immagine che prende forma all'interno di uno schermo cinematografico che da bianco si fa luminoso, grande, colorato. Le istantanee del sogno, dell'immaginazione diventano quelle del film che è, se vogliamo, proprio un viaggio immaginifico dentro la fantasia di Ramon-Alejandro (Amenabar).



In questo senso, Mare dentro non è una deviazione da un percorso che il regista spagnolo ha dedicato in buona parte al cinema di genere e talvolta alla specifica riflessione metacinematografica (pensiamo agli horror The others, Tesis al thriller come Apri gli occhi o allo storico Agorà), ma è un ulteriore tassello di un suo personale omaggio alla settima arte che viene ad essere oggetto della sottile metafora del film. Non si parla soltanto di eutanasia, tanto per intendersi, ma si parla anche di fantasia, immaginazione e di sogno che la macchina cinema sembra poter materializzare in forme che permettono una fuga da una realtà non sempre piacevole. Così il cinemascope dell'incipit di Mare dentro, con quel mare tropicale luminoso e solare (immagine da cartolina), diviene ben presto la finestra su una realtà piovosa e grigia che la musica di Wagner può in qualche modo accompagnare.



Come Ramon che è fermo nella sua forzata immobilità, così lo spettatore è immobile nella sua esperienza visiva cinematografica e le soggettive di Ramon diventano sguardo del film per noi fruitori passivi pronti al sogno e al volo della mente. I voli di Ramon, accompagnati dalle note del Nessun dorma della Turandot pucciniana, non sono, come parte della critica ha voluto sottolineare, momenti kitsch ed emozionali, di una sentimentalismo facile e scontato, sono in realtà la materializzazione del sogno cinema, di quel mare dentro Ramon-spettatore che si apre come alternativa viva e sentita al reale (e in questo senso la finestra della camera di Ramon è come uno schermo cinematografico su cui proiettare i sogni e le illusioni di una realtà altra).





Certo che non si può parlare del film senza approfondire la riflessione sulla morte e sul senso della vita che la vicenda di Ramon innesca. Il tema si dipana attraverso il confronto di Ramon con le donne che lo frequentano e lo conoscono. Il senso di una vitalità femminile si scontra con una volontà nichilista sostanzialmente maschile, che Ramon incarna. Le donne che portano la vita, che soffrono per passione che hanno uno sguardo malinconico ma non sconfitto verso l'esistenza (in particolare Julia). Ramon le affronta con il piglio di chi ha scelto una strada da percorrere e il confronto risulta dunque più ricco per le donne che per Ramon stesso a cui non resta che la dimensione del sogno e della immaginazione come forza vitale residua ma non sufficiente a farlo recedere dal proposito di morire.




Ramon dice a Julia, seduta ai bordi del suo letto, che i due metri che li separano sono un viaggio impossibile, una chimera, un sogno. La sua realtà non può che dispiegarsi in una dimensione spirituale, ma per Ramon, senza una normale dimensione della corporeità, questa non è vita. Rosa è proprio colei che si occupa di corpi (corpi animali come quelli dei tonni che taglia) e così vorrebbe prendersi cura del corpo, ma soprattutto dell'anima di Ramon come le donne del Cristo morto e Ramon proprio come un Cristo alla Mantegna viene visto da Rosa alla tv (Rosa che guarda quelle immagini stringendo a sè il figlio dormiente, inconsapevole, lei che è mamma e in questo troverà senso alla propria esistenza, cosa che mancherà a Ramon).




 Ma Rosa, che sprona Ramon ad un nuovo attaccamento alla vita e che proprio per questo viene da lui umiliata, ha pure lei ombre nere che le si addensano sopra, quelle ombre di cui parla la canzone che alla radio dedica al nuovo amico; una dissolvenza li pone l'uno di fronte all'altra, guardano in direzioni opposte, l'una così legata alla vita, l'altro che sta lottando per lasciarla (e Rosa che deve trovare una ragione per vivere ha di fronte a sè le foto dei figli inquadrate non casualmente).



Non altrettanto può dirsi per Julia, tant'è che anche lei ha ombre che la circondano (la canzone avvolge anche lei) ma il suo sguardo è perfettamente allineato con quello di Ramon e non soltanto, forse, per ragioni lavorative. Il dialogo successivo chiarisce; cos'è il futuro per te? Chiede Julia e Ramon risponde che è la morte, come del resto lo è anche per lei che ammette di pensare alla fine della vita quanto lui (<Solo che evito che sia il mio unico pensiero>, precisa Julia). Entrambi pensano alla morte più che alla vita, ecco il loro convergere degli sguardi verso un orizzonte indefinito.





I ricordi di Ramon sono come i fotogrammi di quel film che il protagonista si costruisce prima di accomiatarsi dalla vita. E' un film composto da immagini del passato (<Sto ricordando>, dice Ramon e vediamo l'acqua del mare brillare), da foto che diventano come fotogrammi di vita felice (anche le foto, come le poesie, proprio come un tesoro nascosto, sono chiuse in una scatola).



Le poesie che Julia legge sono il preambolo al volo di Ramon sulle note del Nessun dorma (...il mio mistero è chiuso in me...quando la luce splenderà). Nella poesia c'è l'interiorità di Ramon (è la tua voce, dice Julia) che si libra nel cielo finendo di fronte al mare a realizzare, come in sogno, quell'amore che l'invalidità sembra negargli. Musica, poesia e indirettamente cinema, le dimensioni attraverso cui si dispiegano le ricchezze dell'anima, quel mare dentro l'uomo e che sono il patrimonio più prezioso da lasciare.


Ma il sogno velocemente svanisce, la realtà irrompe nuovamente, Julia sviene ed ecco che l'incombenza della morte torna primaria ed ossessiva. Il dialogo con padre Francesco ruota attorno a questo, ad uno scontro tra la visione cristiana e quella atea e personale di Ramon. Se vogliamo, proprio questa parte dedicata alla riflessione sulla eutanasia è la più debole del film. Quella figura del prete (il padre gesuita don Francesco, anch'egli costretto all'infermità) è troppo scontata e programmatica per risultare credibile; il dialogo a distanza con Ramon è emblematico di quanto i due stiano su piani, posizioni e prospettive talmente diverse che anche fisicamente non si incontrano, non si vedono, non si avvicinano l'uno all'altro.


Nella seconda parte del film, il personaggio Julia, sempre più vicino a quello di Ramon, ora anche nella sua evidente menomazione fisica, diventa il deciso contraltare al nichilismo del protagonista. E qui emerge il femminino, lo spirito vitale che vacilla di fronte al progredire della malattia degenerativa che patisce Julia. Quest'ultima ha un fremito autodistruttivo (quella medicina che maneggia è probabilmente un veleno) ma la forza vitale che è letteralmente in lei la tengono a galla, le impongono di sopravvivere.


E allora il viaggio di Ramon verso il tribunale, vero e proprio patibolo che lui stesso si è costruito, è un viaggio attraverso la vita che Ramon ha vissuto e che ora lo vede passivo spettatore (una madre e un figlio, due cani che si accoppiano, un crocefisso...la volontà di vivere esposta nella sua globalità).




Quella vita non gli ha regalato una ragione per continuare a lottare (il figlio che le donne intorno a lui hanno; pensiamo alla sequenza della nascita del figlio di Genè con quest'ultima che guarda sofferente ma felice la propria creatura e il corrispondente sguardo di Ramon che guarda nella stessa direzione di Genè ma ha di fronte a sè solo la prospettiva dell'annientamento)




ed ecco che inevitabile incombe la morte come unica soluzione al nulla che circonda l'esistenza (Ramon nel suo disperato grido di dolore in cui si chiede perchè non è come gli altri, maledice non soltanto la singolare particolarità della sua condizione fisica, ma anche la sua assoluta mancanza di volontà di vivere, che sarà propria invece di Julia). Il nipote che legge la poesia di Ramon intitolata "A mio figlio" chiarisce ulteriormente questo passaggio.

A mio figlio
Perdonami figlio per non essere nato
non è stata colpa mia il lasciarti indietro
sono state le rose ad avere paura
perdonami per non aver potuto giocare con te
non so se sarai nato quando sarò lontano
ricorda sempre che ti voglio bene
dai un bacio a tua madre da parte mia
non mi serbare rancore, odiare non bisogna



Rosa lava il corpo del novello Cristo pronto a prendere la propria croce, ma Ramon è la voce di uno spirito laico che rivendica il diritto e non l'obbligo alla vita. Rosa, la credente, che aiuta il protagonista nel suo ultimo viaggio, non rinnega se stessa ma comprende che quel gesto diventa un estremo gesto di amore, amore in cui lei ha sempre creduto, tanto quando l'ha delusa, quanto nella sua espressione più bella che è nei suoi figli (lei che ribadisce il suo credere in un Dio che invece Ramon nega).



Come uno stoico che non ritiene più degna la vita non libera, così Ramon dalla sua prigione rivendica il diritto al suicidio come bene ultimo da conservare per garantire la dignità di una vita che possa ancora definirsi umana. La confessione in videotape di Ramon diventa un messaggio che, per assurdo, è un richiamo ancora più forte alla vita, una leopardiana ammissione di inadeguatezza ad una volontà di vivere che è comunque sovrana e giudice della felicità degli uomini (la videocamera testimone e tramite di quella amara verità).


Il duplice binario dell'annullamento nichilista (che è però, nello stesso tempo, affermazione di volontà consapevole e libera) e del tesoro interiore che Ramon lascia a chi lo circonda viene a convergere nella sequenza finale nella quale Genè sorride e gioca, di fronte al mare, con il figlio che ha dato senso alla sua esistenza (ma Julia non comprende, è assente, è un'altra prigioniera di un corpo che impedisce all'anima di dispiegarsi e di vivere appieno la vita). La famiglia sulla spiaggia e il volo della mdp sulla superficie del mare (l'anima di Ramon?) sono le due dimensioni della vita che si compenetrano (anima e corpo, amore e passione).




La vita è come una forza, energia che è spirito in azione tanto nel corpo (che per Ramon è ciò che di più prezioso aveva) quanto nell'anima (ciò che l'uomo crea grazie all'immaginazione e alla fantasia e che Ramon ha prodotto sottovalutandone l'importanza, tanto da veder chiuse in una scatola le poesie scritte).

Mare dentro, mare dentro
senza peso nel fondo dove si avvera il sogno
due volontà fanno avere un desiderio nell'incontro
il tuo sguardo, il mio sguardo
come un'eco che ripete senza parole
più dentro, più dentro fino al di là del tutto
attraverso il sangue e il midollo
però sempre mi sveglio
e sempre voglio essere morto
per restare con la mia bocca
sempre preso nella rete dei tuoi capelli





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