lunedì 30 settembre 2013

Match Point

Match Point

Regia e sceneggiatura: Woody Allen
Durata: 124'
Produzione: Letty Aronson, Gareth Wiley; Lucy Darwin
Montaggio: Alisa Lepselter; Direttore della fotografia: Remi Adafarasin
Musiche tratte da varie opere teatrali
Cast: Jonathan Rhys Meyers (Chris); Scarlett Johansson (Nola), Emily Mortimer (Chloe), Matthew Goode (Tom), Brian Cox (Alec), James Nesbitt (Detective)

Una pallina che viaggia da una parte all’altra di una rete da tennis, mentre una voce off (quella del protagonista) che disserta sul ruolo della fortuna nella vita. L’incipit di Match Point è folgorante e ci conduce al cuore della sua filosofia. 




Chris è un giovane irlandese, di umili origini, probabilmente di famiglia cattolica, che arriva nella Londra del benessere dalla porta di servizio, come istruttore di tennis di giovani e meno giovani frequentatori di un club di grande tradizione. Come dice lui stesso non manca di talento tennistico ma probabilmente manca di quella feroce volontà che ha fatto di altri giocatori, di pari talento, dei veri fuoriclasse.
La dicotomia fortuna-volontà si presenta in tutta la sua evidenza. Chris, scoprirà suo malgrado che la prima ha una incidenza notevole nella vita degli uomini. Possiamo tranquillamente parlare con accento inglese di “fate”, destino, desumendo il termine da quella cultura classica che in passato Woody aveva dimostrato di conoscere e che talvolta riemerge anche in questo film (Chris ad un certo punto cita Sofocle che malediva l’esser stato generato).
Il tennis diventa la metafora della vita, in cui i partecipanti mescolano le loro abilità all’incidenza del caso. Non per caso, invece, Nola, la dark lady del film (nella prima parte talvolta è vestita di nero) compare per la prima volta come giocatrice (di ping pong) e la sequenza ci è offerta similarmente all’incipit (anzi potremmo dire che il confronto tra le due inquadrature sembra suggerirci una duplice posizione-opposizione come quella di due tennisti che si stanno affrontando che sono, nello specifico, Chris e Nola) , con una pallina che vola da una parte all’altra del rettangolo di gioco. Un’aria dal Trovatore di Verdi accompagna sonoramente il primo intrigante incontro tra Chris e Nola, ribadendo che “mal reggendo all’aspro assalto, ei già tocco il suolo avea...”.



Uno degli elementi chiave del film è proprio questo particolare uso della colonna sonora. Siamo di fronte ad un unicum nella filmografia di Allen (con l’eccezione di Mariti e mogli) che solitamente preferisce le partiture jazz o classiche, e che qui invece si cimenta con l’opera. Nel suo mescolare musica e libretti, l’opera si presta come contrappunto tematico alla sottolineatura di quanto sta avvenendo nello spazio diegetico del film e non semplicemente come accompagnamento emotivo o emozionale. 


Tranne nella lunga sequenza del delitto, accompagnata dal dialogo tra Otello e Iago del secondo atto dell’Otello di Verdi, dove la consonanza tra il testo dell’opera e quanto avviene nel film è puramente evocativa di un fatto di sangue che accomuna le due vicende (quella del film e quella dell’Otello), nel rimanente spazio filmico le vecchie incisioni e cantate (spesso del mitico Caruso) hanno nel proprio testo un elemento di chiarificazione e sottolineatura, talvolta di controcanto ironico, a quanto sta avvenendo (vedi la dettagliata descrizione dei motivi d’opera e del loro utilizzo nel corso del film).



Nola insomma è colei che gioca la partita con Chris (“sai che stai giocando pesante?” gli dice mentre lui affonda i primi colpi della sua azione seduttrice) ed è colei che della fortuna sarà la vittima designata, la giocatrice perdente.
Ma Chris fondamentalmente chi è? E’ un Raskolnikov moderno (il protagonista di Delitto e Castigo che Chris legge)? Un arrampicatore sociale in stile Bel Ami di Maupassant? Un cinico o semplicemente un tipo fortunato? Probabilmente è tutto questo, ma anche, scavando nella filomografia di Woody, qualcosa di più. Ma andiamo per ordine


Delitto e castigo è il sottotesto letterario del film. Troppe sono le coincidenze, al di là dell’ostentato omaggio con quel dettaglio del libro letto da Chris. Stessa dinamica del delitto che resta senza un colpevole (per quanto alla fine Raskolnikov pagherà per la propria colpa, finendo lontano dalla sua amata nelle fredde terre della Siberia a scontare una condanna a cui è giunto roso da un sempre più insostenibile sentimento di rimorso) e che vede coinvolti altri innocenti che vengono incarcerati ingiustamente per quel fatto di sangue. Se vogliamo stessa costruzione del fatto di sangue con la morte di due persone, di cui una sola era il vero bersaglio. La presenza di coinquilini che si aggirano nelle vicinanze del luogo dell’omicidio (nel caso di Dostoevski erano muratori al lavoro) che rendono l’impresa ancora più legata a circostanze ed eventi fortuiti. Il colloquio con i rappresentanti delle forze dell’ordine (il detective in Allen, il commissario in Dostoevski) che restano a metà del guado nel convincersi o meno del coinvolgimento dei “nostri eroi”.




Ma Chris sostituisce il libro di Dostoevski con un suo compendio, il Companion del Cambridge Institute, che sembra voler aggiungere qualcos’altro. Perchè Chris ha bisogno di una lettura suppletiva? L’aria del giovanotto sembra scocciata di fronte al complesso fluire della letteratura dostoevskiana, e così sembra aver bisogno di un supporto, di una chiarificazione, di qualcosa che sia in grado di porlo a più stretto contatto con un testo che appare ostico. Ma qui sta il punto. Se ostica è la letteratura, non da meno appaiono le tele delle mostre a cui partecipa con la fidanzata Cloe, o le trame delle opere cui assiste. Il suo desiderio di essere all’altezza si scontra con un livello culturale che sembra escluderlo dal pieno coinvolgimento con quanto lo circonda dal suo ingresso nel bel mondo londinese. Ma l’arte è veramente una sorta di suppellettile elegante e raffinata per cultori che hanno altro a cui pensare (illuminante in questo senso il dialogo tra Cloe e l’amica di fronte a quadri di una mostra di arte contemporanea in cui si alternano giudizi sulle tele a pettegolezzi da bar). Non è un caso che gli incontri con Nola avvengano nei musei, ma ciò che contengono quei musei è veramente accessorio e secondario, privo di alcun fascino per ciascuno dei personaggi del dramma messo in scena da Allen. 



Se, nell’ambiente della high class londinese, è sottile snobismo la frequentazione di arte e cultura non si può biasimare Chris, di umili origini (il tennis, ammette, lo ha salvato dalla miseria), che nella sua scalata all’integrazione prenda la scorciatoia dei Companion per mettersi al passo. E allora l’opera trova una ulteriore ragione di essere. L’opera diegetica, quella per intendersi che vanno a vedere i familiari di Cloe, è spesso inspiegabilmente sciatta e incompleta (Il Trovatore iniziale offre un’aria accompagnata semplicemente al piano e dunque quasi in una atmosfera da prova generale), ma tanto basta per appagare il loro bisogno di conformismo culturale.Quella extradiegetica contrappunta ciò che avviene e, nel finale, si stacca, quasi come un mondo a parte che prende le distanze da quanto sta avvenendo. Chissà che Woody non abbia voluto sottolineare il delitto con un cotè sonoro fondamentalmente non in sincrono con quanto andava accompagnando, quasi uno straniamento, proprio a sottolineare lo stacco tra arte e vita che nel film si è andato delineando.

Ma Chris è anche un giovane della nuova generazione del nuovo millennio e Woody guarda a lui con il disincanto e la diffidenza di chi non vede un futuro migliore. Non sappiamo se Woody sia disilluso, ma certo è che Match Point diventa la risposta allo splendido finale di Crimini e Misfatti (che di fatto è il Match Point newyorchese). Una giovane ragazza appena sposata, ballava durante la propria festa di nozze con il padre, ormai quasi cieco e una voce fuori campo sottolineava la speranza che in un mondo di delitti spesso inconfessati e impuniti, rimanesse almeno la speranza in un miglioramento affidato alle nuove generazioni. Match Point, sedici anni dopo, dà l’amara risposta: le nuove generazioni non hanno meno cinismo e meno disincanto di quelle che le hanno precedute. Se il Landau di Crimini e Misfatti faceva i conti con una coscienza ingombrante che risaliva fino agli insegnamenti del padre, un ebreo di forti  convinzioni spirituali e religiose, che compariva in sogno a bacchettarlo, qui Chris si trova a fronteggiare un rimorso che è soltanto con se stesso (il padre viene liquidato in un dialogo ad una cena quando Chris ammette che il suo genitore aveva una grande fede nata allorchè aveva perso entrambe le gambe) e con le vittime del suo delitto (nella splendida sequenza del pre-finale in cui compaiono i fantasmi di Nola e della vicina, Chris si sente rinfacciare la superficialità con cui ha lasciato tracce e dunque il suo inconscio desiderio di essere scoperto). 



Se il Landau di Crimini e Misfatti, lavata la coscienza in un dialogo catartico con lo stesso Woody Allen, cui suggerisce la trama di un film da fare su un delitto perfetto, tornava alla vita baciando una ritrovata moglie, Chris può abbracciare il piccolo erede, che finalmente Chloe gli ha regalato, pur guardando fuori dalla finestra memore di una passione che non tornerà più (il brano da L’Elisir d’amore di Donizzetti, che ha caratterizzato la sua passione con Nola per buona parte del film, è lì a sottolinearlo).


Solo rimpianto di una passione edonistica che non c’è più e nessun rimorso morale dunque, perchè senza un Dio, e Chris è ateo (spera, nel suo delirio onirico, in una punizione perchè così ci sarebbe il barlume di una speranza che il mondo non sia soltanto frutto del Caso), nessuna morale è possibile. Lo dico io? No, guardatevi Crimini e Misfatti e scoprirete a chi, il buon Woody, ha fatto dire ciò.


Le parti dei libretti delle opere su cui si basa la colonna sonora del film

1.     Mal reggendo all'aspro assalto (Giuseppe Verdi) – da Il Trovatore; cantata da Enrico Caruso
2.     Un dì felice, eterea (Giuseppe Verdi) – da La Traviata; cantata da Enrico Caruso
3.     Mia piccirella (Antonio Carlos Gomes) – da Salvator Rosa; cantata da Enrico Caruso
4.     Gualtier Maldé... Caro nome... (Giuseppe Verdi) – da Rigoletto; cantata da mary Hegarty
5.     Mi par d'udir ancora (George Bizet) – da I pescatori di perle; cantata da Enrico Caruso
6.     Arresta (Gioacchino Rossini) – da Guglielmo Tell; cantata da Janez Lotric & Igor Morozov
7.     O figli, o figli miei! (Giuseppe Verdi) – da Macbeth; cantata da Enrico Caruso
8.     Desdemona (Giuseppe Verdi) – da Otello; cantata da Janez Lotric & Igor Morozov
9.     Una furtiva lagrima (Gaetano Donizetti) – da L'elisir d'amore; cantata da Enrico Caruso
 


Trovatore di Giuseppe Verdi II° atto
Manrico:
Mal reggendo all'aspro assalto, 
ei già tocco il suolo avea: 
balenava il colpo in alto 
che trafiggerlo, trafiggerlo dovea... 
quando arresta, quando arresta un moto arcano, 
nel discender, nel discender questa mano... 
le mie fibre acuto gelo 
fa repente abbrividir! 
mentre un grido vien dal cielo, 
mentre un grido vien dal cielo 
che mi dice: ``non ferir!''

La Traviata di Giuseppe Verdi
Atto 1°
GUGLIELMO
Ah sì, da un anno.
Un dì, felice, eterea,
Mi balenaste innante,
E da quel dì tremante
Vissi d'ignoto amor.
Di quell'amor ch'è palpito
Dell'universo intero,
Misterioso, altero,
Croce e delizia al cor.
VIOLETTA
Ah, se ciò è ver, fuggitemi
Solo amistade io v'offro:
Amar non so, né soffro
Un così eroico amor.
Io sono franca, ingenua;
Altra cercar dovete;
Non arduo troverete
Dimenticarmi allor.

Salvator Rosa di Antonio Carlos Gomes
Mia piccirella deh! vieni allo mare
Nella barchetta v’è un letto di fior
La bianca prora somiglia a un altar
L’onde e le stelle sfavillan d’amor

Oh mia piccirella, deh vien
Vieni allo mare, vieni allo mare


Rigoletto di Giuseppe Verdi 
Gualtier Maldè!...
nome di lui si amato,
Ti scolpisci nel core innamorato!
Caro nome che il mio cor...............
festi primo palpitar, le delizie dell'amor.......
mi dêi sempre rammentar!
Col pensier il mio desir a te sempre volerà, 
e fin l'ultimo sospir, caro nome, tuo sarà 
Col pensier il mio desir a te sempre volerà...
aaaaaaaa...
e fin l'ultimo mio sospir, caro nome , tuo sarà



I pescatori di perle di George Bizet (sesso e passione tra Chris e Nola)
Mi par d’udire ancora,
O scosa in mezzo ai fior,
La voce sua talora,
sospirar l’amor!
Oh notte di carezze,
gioir che non ha fin,
oh sovvenir divin!
Folli ebbrezze del sogno, sogno d’amor!
Dalle stelle del cielo,
altro menar che da lei,
la veggio d’ogni velo,
prender li per le ser!
Oh notte di carezze,
gioir che non ha fin,
oh sovvenir divin!
Folli ebbrezze del sogno, sogno d’amor!
Divin sovvenir, divin sovvenir





Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini
GUGLIELMO 
Arresta... Quali sguardi!.. 
Tu tremi innanzi a me, 
Né mi vuoi dire ond'ardi? 
Tremar, tremar perché?.. 
ARNOLDO 
(Potrò mentirgli il vero!) 
Domi da un fato austero, 
Qual cor non fremerà? 
GUGLIELMO 
Arnoldo, il ver tu celi; 
Ma forza è che tu sveli 
Il tutto all'amistà. 

Macbeth di Giuseppe Verdi (Chris getta nel fiume i gioielli)
O figli, o figli miei! Da quel tiranno  
tutti uccisi voi foste, e insiem con voi
la madre sventurata!... E fra gli artigli
di quel tigre io lasciai la madre e i figli



Otello II° atto
OTELLO 
Oh! mostuosa colpa!
IAGO 
Io non narrai che un sogno.
OTELLO 
Un sogno che rivela un fatto.
IAGO 
Un sogno che può dar forma di prova 
ad altro indizio.
OTELLO 
E qual?
IAGO 
Talor vedeste 
in mano di Desdemona un tessuto trapunto 
a fior e più sottil d'un velo?
OTELLO 
È il fazzoletto ch'io le diedi, 
pegno primo d'amor.
IAGO 
Quel fazzoletto ieri 
(certo ne son) [cupo e lento] lo vidi in man di Cassio.
OTELLO 
Ah! Mille vite gli [con forza] donassse Iddio! 
Una è povera preda al furor mio! 
Iago, ho il cor di gelo. 
Lungi da me le pietose larve! 
Tutto il mio vano amor esalo al cielo, 
guardami, ei sparve. 
Nelle sue spire d'angue l'idra m'avvince! 
Ah! sangue! SANGUE! SANGUE!
[solenne] Si, pel ciel marmoreo guiro! 
Per le attorte folgori! 
Per la Morte e per l'oscuro mar sterminator! 
D'ira e d'impeto tremendo presto fia 
che sfolgori questa man [levando le mani al cielo] ch'io levo e stendo!
IAGO [s'inginocchia anch'esso] 
Non v'alzate ancor! 
Testimon è il Sol ch'io miro, 
che m'irradia e inanima 
l'ampia terra e il vasto spiro 
del Creato inter, 
che ad [cupo] Otello io sacro ardenti, 
core, braccio ed anima 
s'anco ad opere cruenti 
s'armi il suo voler!


L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti
(Chris che cerca Nola disperatamente dentro il museo e, finalmente, la trova; il finale)
Una furtiva lagrima
Negli occhi suoi spuntò
Quelle festose giovani
Invidiar sembrò
Che più cercando io vo?
Che più cercando io vo?
M’ama, si m’ama lo vedo;
lo vedo.
Un solo istante i palpiti
Del suo bel cor sentir!
I miei sospir confondere
Per poco ai suoi sospir!
I palpiti, i palpiti sentir
Confondere i miei coi suoi sospir!
Cielo, si può morir;
di più non chiedo
non chiedo!
Cielo si può, si può morir!
di più non chiedo
non chiedo!
Si può morir!
Si può morir!
d'amore



venerdì 27 settembre 2013

Mary and Max

Mary and Max



Un film d'animazione di Adam Elliot
Produzione: Australia 2009
Voci dei personaggi: Philipp Seymour Hoffman (Max), Toni Collette (Mary), Barry Humphries (Narratore), Eric Bana (Damien)

Inedito in Italia, Mary and Max è un piccolo gioiello dell'animazione stop motion, con personaggi e scenografie realizzati in plastilina, una bella colonna sonora il tutto prodotto nella lontana Australia. La seguente e dettagliata lettura vuole essere un invito alla visione e all'approfondimento.
La vicenda che si racconta, ispirata ad una storia vera, è quella di un incontro, prima a distanza e poi sempre più ravvicinato, tra due anime sole che casualmente si ritrovano ad avviare una relazione epistolare. Mary è una adolescente ipersensibile, rinchiusa nella propria cameretta di un anonimo paesino australiano; Max un maturo signore, chiuso in un anonimo appartamento di New York, affetto dalla sindrome di Asperger. Questo è l'esile tessuto narrativo su cui si dipana la vicenda che prende l'avvio nel 1976 conducendoci nel cuore di un piccolo paesino australiano.
Una scritta ci introduce dentro questa "Città pulita", che è in realtà luogo di oggetti e non di esseri umani (scarpe su tralicci, palloni su tetti, barbecue abbandonati e una emblematica creatura spaventata, aggrappata alla cassetta della posta, quasi che temesse l'arrivo di qualche lettera). Questa iniziale galleria d'arte in plastilina offre lo squarcio su un luogo di solitudine, di chiusura e di vita che sembra essere passata; è il luogo di Mary, fotografato con una luminosità che stride con la malinconia dell'insieme (con una dominanza del colore marrone). 





Una voce fuori campo, quella di un narratore onnisciente, ci presenta i personaggi che animano questo paesaggio e ci conduce lungo i fili che compongono la trama.
Mary è incastonata tra le sbarre di una finestra come il suo vicino, vive una solitudine carica di sogni e di cioccolato; 



suo padre guarda annoiato ed alienato "in macchina" (nel corso della storia scopriremo che egli ama giocare con gli uccelli impagliati, passione che alluderà alla sua morta sessualità con una moglie ormai preda dell'alcool; e di nuovo l'allusione sessuale torna con la foto del padre che infila un dito nell'ano dell'uccello e il successivo sogno erotico della figlia la cui sessualità invece è ancora di là dall'esprimersi).



La figlia ha uno spirito creativo, una vena pulsante e vitale che è però soffocata e delimitata. Il suo mondo si presenta chiuso tra le geometrie di una finestra che è il limite alle sue aspirazioni. Altri personaggi sono chiusi dentro luoghi che nella loro fredda geometria ci dicono di un mondo fermo e stagnante (il vicino di casa dietro la finestra e i suoi cani nelle cuccie, Sonny e Cher che alludono alle due cucce umane dentro cui vivono Mary e Max). Ciò che esce da questi spazi è inconsistente; così la pallina che il vicino lancia fuori dalla finestra è legata con un filo e torna inesorabilmente indietro; ogni personaggio, dunque, è chiuso nel proprio piccolo, egoistico e contratto mondo (lo sforzo finale di Mary sarà proprio quello di uscire da questo immobilismo che condanna l'uomo alla solitudine e volerà verso Max come ultimo estremo gesto di apertura al mondo).




Mary, che ancora deve comprendere il mondo che la circonda (le domande che si pone non hanno risposta e sono frutto di malcomprese affermazioni di adulti: perchè il nonno ha bevuto ammonite, perchè lei è frutto di un incidente, perchè la mamma prende in prestito merce al supermercato...) è condotta dalla madre su un carrello, a confermare, simbolicamente, la sua mancanza di autonomia e autostima.


A corollario di tutto questo ci sono i Noblets alla tv, una serie che ricorda i Muppets, (ma anche i Peanuts di Schultz con le figure di Lucy Van Pelt psicologa e gli amici di penna) e di cui Mary è particolarmente appassionata. Proprio i Noblets sono il filo che ci conduce dall'altra parte dell'Oceano, nella grigia e verticale New York (all'orizzontalità della cittadina australiana e alla sua colorata solarità, risponde la New York dei grattacieli, umida e notturna, fotografata con un bianco e nero che non può non riportarci alle atmosfere care al cinema noir americano).. Alla calma piatta australiana risponde la violenza americana, con la mitragliata verso le parole di benvenuto di fronte alla Statua della Libertà.


Di fronte ai Noblets, nel suo appartamento ai piani alti di un grattacielo, si trova Max Horowitz, 44 anni, ebreo, ossessionato dalla simmetria che vede nella serie tv la riproposizione di una struttura sociale organizzata (sole-poesia-Mary; grigio notturno-matematica-Max). Max è come il pesce (Enri VIII) del suo aquario, chiuso in una boccia di vetro e tremendamente solo.


Le due città, così lontane iconograficamente e geograficamente, ben si prestano ad universalizzare il motivo della solitudine (in questo senso per entrambi i personaggi i pupazzi dei Noblets, simbolicamente, sostituiscono gli amici in carne ed ossa che sono esclusi dal loro orizzonte e non è un caso che, nel finale, quando i due finalmente si incontrano, i pupazzi scompaiono e gli scaffali a casa di Max si svuotano).



L'ufficio postale è il luogo che fa da cerniera tra i due mondi. Mary invia, dopo aver scelto casualmente da un elenco del telefono, una lettera a Max, chiedendo di farsi spiegare come nascono i bambini. La sua colorata curiosità irrompe nel chiaro-scuro mondo di Max che si lascia travolgere da un improvviso impeto vitale; la sua risposta scritta alla macchina da scrivere (di contro alle lettere scritte a mano da Mary, la ragione e la vena poetica a confronto) nella sua musicale ritmicità ci riconduce all'analoga scena che vedeva protagonista Jerry Lewis in Dove vai sono guai.


La lettera di Max è il tramite attraverso cui entriamo nel suo mondo; nato in un kibbutz, Max non comprende il linguaggio verbale, odia i rumori, ha un amico immaginario che si chiama mr. Ravioli (strana commistione tra un cercatore d'oro e un intellettuale silenzioso quanto il Max che l'ha creato), è ateo e legge Asimov, tanto che fa parte di un circolo di fan della fantascienza. I suoi vicini non sono certo più espansivi di quelli di Mary: uno è omofobo, l'altra è praticamente cieca. Alla freak, disadattata australiana (la sua stessa figura pallida e corvina non può non ricondurci ai tipici personaggi del cinema di Tim Burton, fra l'altro maestro nell'uso della plastilina) fa eco il nerd, autistico americano. Il pon pon rosso che Mary invia è un nuovo getto di colore nel mondo di Max, un colore che anticipa il tema della passione che la lettera successiva affronta e che manda in crisi il povero Max.
Le domande sull'amore, sull'amicizia e sui ricordi, che Mary sollecita, conducono l'uomo ad un attacco di panico perchè toccano confini della sua mente che travalicano la stretta osservanza razionale della sua vita. Dai ricordi di Max emerge la sua breve comparsata nella Storia, quella con la S maiuscola, con la partecipazione alla battaglia di Guadalcanal che resta come foto sbiadita. I due personaggi sono entrambi fuori dalla Storia, la loro solitudine sembra condannarli all'emarginazione e alla esclusione dal flusso vitale. La scritta che compare alle spalle di Max, ricoverato in una clinca psichiatrica a seguito del suo attacco di panico, è in questo senso emblematica: Niente per bocca (una sorta di epitaffio che scolpisce su carta il carattere del protagonista maschile che mai vedremo parlare).


La vincita alla lotteria apre la seconda parte del film nella quale i due personaggi sembrano uscire dalla loro inerzia. Il denaro permette a Max di realizzare due dei suoi tre sogni nel cassetto (una fornitura di cioccolato e la collezione completa dei Noblets), Mary icnontrerà un uomo che diverrà presto suo marito.
Nel frattempo però il film si carica di significati e di richiami. Veniamo a scoprire che Max è affetto dalla cosiddetta sindrome di Asperger (uno dei sintomi è dato dal suo prendere alla lettera quanto gli viene comunicato), mentre la madre di Mary muore distrutta dall'alcool (la sequenza della sua morte si svolge in atmosfere hitchcockiane con tanto di uccelli impagliati e ombre minacciose alla Psycho).



Mary, ormai affrancatasi dalle grinfie materne, se ne va all'università dove conosce il suo futuro marito che si presenta con una equivoca maglietta dedicata a Boy George che, sottilmente, preluderà alla sua futura scoperta omosessualità. Mary legge Oliver Sacks ("L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello"), il padre della romantic science, ovvero di una scienza a misura d'uomo che studia le patologie neurologiche incurabili, a cui certamente il film si ispira. Ma non è questo il primo riferimento letterario. Poco prima, descrivendo la morte della vicina di casa di Max, Ivy, passiamo, con un rapido movimento di macchina e una cut di montaggio, dal dettaglio della tomba della donna alla targa di una clinica privata a cui la stessa aveva donato parte dell'eredità. Nella tomba vicina a quella di Ivy è sepolto un certo Adam Elliot (quello delle lapidi è un motivo ricorrente nel film; pensiamo al geniale epitaffio sulla tomba della madre: Always merry killed by sherry), mentre la clinica è intitolata a Thomas S. Eliot. Il primo è il regista stesso che simpaticamente si deidica una lapide; il secondo è il grande scrittore cui certo il film qualche ispirazione la deve. L'autore di Terra desolata, infatti, ci richiama da una parte agli eventi della sua vita, vicini a quelli di Max, nei quali vide ricoverare in manicomio la moglie, dall'altra offre, letterariamente, un modello affine a quello utilizzato da Elliot nel suo stile cinematografico, ovverosia il procedimento del correlativo oggettivo che si esplica nel correlare le emozioni agli oggetti. Il film in questo senso (pensiamo soltanto alla carrellata iniziale di oggetti) offre diversi esempi di una poetica degli oggetti correlati alle emozioni dei personaggi (il padre di Mary, morto in uno tsunami, che si ritrova rappresentato nell'oggetto sepolto; la lettera M inviata come segno di rottura del legame epistolare...).



Mary ha, nel frattempo, ritrovato la parola. La perdita della macchia sul viso è una iniezione di autostima che si traduce in una rinnovata voglia di comunicare che però viene ben presto soffocata dalle vicende della "realtà": Max che interrompe la relazione epistolare quando lei gli comunica che sta occupandosi scientificamente della sua malattia, il marito che la lascia svelando finalmente la propria omosessualità. Mary discende pericolosamente in una china autodistruttiva (letteralmente svegliata dal canto di un gallo nella scoperta del marito, come già un gallo aveva salvato una delle lettere di Max che la madre di Mary voleva occultare) dalla quale si salva miracolosamente preservando, inconsapevolmente, la vita che porta dentro il grembo. 
Il finale vede l'eroina saltare il grande fossato che la divideva dall'unico amico che era riuscita a trovare, ma il suo arrivo a New York è tardivo perchè Max ha ormai lasciato questo mondo. Sulle note de il Coro a bocca chiusa della Butterfly di Puccini Mary scopre la realtà di Max che guarda verso il cielo lastricato, non di stelle, ma del loro equivalente, ovvero delle lettere che i due solitari amici si sono scambiati nel corso del tempo. "Non possiamo scegliere i nostri difetti ma i nostri amici" ci riporta alla didascalia finale: "Dio ci ha dato i parenti, grazie a Dio possiamo scegliere gli amici" che offre una sorta di morale universale alla favola appena narrata.



Mary che voleva curare le malattie e "pulire il mondo con una crema", Max che voleva pulire il mondo dalla spazzatura sono le due facce di una stessa medaglia; sono due personaggi idealisti, ognuno a proprio modo, incapaci di capire e vivere il mondo (si pensi alla fatica con cui entrambi accettano il proprio corpo, quasi fosse un nemico da combattere nella bruttezza di Mary e nell'obesità di Max) e, proprio per questo, proiettati nella utopica illusione di poterlo cambiare. Falliti questi obiettivi si trovano a scoprire un tesoro inaspettato che si rivela nell'amicizia, forse solo consolante, certo unico appiglio al male di vivere. Come direbbe Cartesio con la sua Morale Provvisoria: E' più facile cambiare le proprie idee che il mondo circostante.


Mary e Max che senza dirsi una parola si ritrovano e guardano verso la stessa direzione non può non ricordare il finale di Una storia vera (A straight story), di David Lynch, nel quale i due fratelli ricongiunti si siedono vicini e silenziosamente guardano verso le stelle e la mdp si muove verso il cielo notturno.


Max si è rivelato un vero e proprio alieno, l'uomo nudo sulla Luna (nudità che richiama anche alla purezza e, se vogliamo, all'orgoglio Aspies, dei malati della sindrome di Asperger, che non sentono il bisogno della veste dell'ipocrita accettazione sociale) che è caduto dal cielo e che al cielo vuole tornare (quello sguardo finale verso l'alto); la sua passione per la fantascienza, le sue movenze da robot allorchè lavora come netturbino, la sua incapacità di comprendere il vero senso del linguaggio umano ne fanno un novello E.T. che aspira al ritorno a casa (le stelle che Max guarda a più riprese).


Vi è anche una possibile lettura filosofica: Mary incarna una volontà attiva, ostacolata nelle sue aspirazioni da un corpo che non accetta (l'ossessione reiterata per la chirurgia plastica) e mette in moto una volontà passiva, quella di Max, che è prigioniera di una mente chiusa come una fortezza inespugnabile.
Un'ultima notazione; parecchie sono le citazioni hitchcockiane disseminate lungo tutto il film: dalla canzone Que serà serà che accompagna la sequenza del tentato suicidio di Mary che giunge da L'uomo che sapeva troppo (fra l'altro, nel film in questione, Doris Day cantava la canzone per ritrovare il figlio perduto, qui la musica accompagna un altro salvataggio di un bambino, nascituro, che sta per perdersi con la madre), all'incipit della mdp che a volo di uccello si avvicina alla finestra della protagonista che cita l'analogo incipit di Psyco, citato anche nella morte della madre e nel richiamo al nome del detective Arbogast che troviamo riecheggiato in quello della maestra di Mary, la signora Pendergast, non dimenticando l'assalto dell'uccello a Max che ci rimanda al capolavoro Gli uccelli.
Per chi avesse amato questo film indichiamo un'altra opera di Elliot, il corto Harvie Krumpet, vincitore dell'Oscar 2004 come miglior corto d'animazione e in cui ritroviamo in nuce i temi e i motivi che il regista ripropone più compiutamente in Mary and Max.

giovedì 26 settembre 2013

Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano


Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano

Titolo originale: Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano           Anno: 1969    Nazione: Italia    Durata: 104 min     Regia: Luigi Comencini     Sceneggiatura: Suso Cecchi D'Amico      Cast: Leonard Whiting (Casanova adulto), Lionel Stander (prete), Maria Grazia Buccella (madre di Casanova), Senta Berger, Silvia Dionisio, Tina Aumont, Claudio De Kunert, Cristina Comencini, Raoul Grassilli

Il film di Comencini si struttura come un percorso di formazione che rientra nel tipico solco di altri lavori del regista spesso votato al racconto ad altezza di bambino (Pinocchio, Un ragazzo di Calabria, Incompreso…). La vicenda del Casanova bambino si prende la prima parte del film, la migliore, e centra i temi cari al regista: la distanza bambini – adulti, la ricerca solitaria di una identità, le prove da superare nel cammino della crescita, l’incapacità (o non volontà) degli adulti di comunicare con i più piccoli e comprendere profondamente le istanze dell’infanzia. La figura della madre di Giacomo (una sensuale Maria Grazia Buccella) è in questo senso paradigmatica. Il suo ingresso in scena è quello di una prima donna, venerata ed ammirata dagli uomini, la sua predisposizione alla seduzione è talmente naturale che è oggetto sensuale per lo stesso Giacomo che batte nel mortaio, di fronte a lei seminuda, con un procedere evidentemente masturbatorio. Il bambino metabolizza l’idea di una donna oggetto di conquista, frivola e leggera e ben presto vede sparire dal proprio orizzonte ogni barlume di figura maschile credibile, a partire dal padre che goffamente cade nei canali e muore al termine di una operazione chirurgica grottesca e disperata allo stesso tempo (nelle immagini che seguono vediamo alcuni fotogrammi della sequenza dell'operazione che sono ispirati, come del resto buona parte del film, agli ambienti evocati nei quadri del pittore settecentesco veneziano Longhi)






Sempre nella sua ostinata osservazione dei comportamenti degli adulti, Giacomo si rende conto che esistono privilegi che possono favorire la conquista dell’oggetto desiderato, come quello di essere prete confessore di una giovane fanciulla, ma ha ben chiaro che proprio questa lotta senza quartiere cinica e spietata è la logica che governa il mondo (lui stesso assedia la camera di una giovane di cui si è infatuato rimanendo fuori dall’uscio come sconfitto). La seconda parte, quella in cui Casanova diventa protagonista e non più solo spettatore, è la inevitabile ascesa o discesa nel paradiso-inferno delle passioni che non si possono frenare. Il rinoceronte segna il risveglio sessuale con quel corno gigante che allude alle potenzialità virili del protagonista. Sullo sfondo della bestia una sensuale nobildonna veneziana (una splendida Senta Berger) si propone come colei che promette di dischiudere le porte del paradiso dei sensi (sarà con lei che il nostro perderà la propria verginità).




I ruoli si ribaltano, ora è Casanova oggetto di conquista, fortino assediato e concupito dalle donne veneziane che ne fanno un oggetto di desiderio fin dalle sue apparizioni sul pulpito (in questo la vicenda ricorda quella del Jean Sorel de Il rosso e il nero di stendhaliana memoria, anch’egli abatino alle prese con il richiamo dei sensi ed oggetto di ammirazione pubblica da parte del gentil sesso). Nemmeno la prospettiva di una ascesa sociale con un matrimonio di convenienza (che è al centro dell’intrigo finale del film) frena la divorante passione di Casanova per il piacere in quanto tale, per il possesso e il godimento dell’oggetto femminile. Nessuna parvenza di sentimento, ma solo puro e semplice gioco di seduzione e attrazione che ben viene rappresentato nel budoir della contessa in cui il corpo della stessa è strumento comunicativo più di qualsiasi parola (Casanova, escluso dall’orgia, vede dalle fessure, corpi senza volto, corpi con la maschera e del resto proprio la maschera, che non casualmente ha indossato anche la madre, è uno dei motivi dominanti del film: è il simbolo del carnaio, carnevalesco veneziano, ma anche della perdita di identità dei personaggi offuscati, Casanova in primis, da uno sfrenato ed irresistibile edonismo). Il tono leggero del film nasconde, quindi, un pessimismo di fondo che il “calvinista” Comencini non poteva non rivelare. L’uomo è figlio dei sensi, condannato al desiderio e al piacere in un carnevale (carnem valere) senza fine, in cui ognuno indossa una maschera che non è segno di distinzione o camuffamento, ma finisce per rappresentare una inconsapevole omologazione (proprio le maschere veneziane, con il loro biancore, sono l’immagine di personaggi anonimi ed indistinguibili gli uni dagli altri).


Di seguito alcune sequenze con le corrispettive tele pittoriche (Longhi e pittori fiamminghi) da cui si è tratta ispirazione per le scenografie

Il dentista





La confessione




La visita al convento





Scorci di vita domestica




Il concerto