mercoledì 20 gennaio 2016

I nostri ragazzi

I nostri ragazzi

Un film di Ivano De Matteo
Con Alessandro Gassman (Massimo), Giovanna Mezzogiorno (Clara), Luigi Lo Cascio (Paolo), Barbora Bobulova (Sofia), Rosabell Laurenti Sellers (Benedetta)
Drammatico;  Durata 92 minuti;  Italia 2014;   01 Distribution

 

Due fratelli, uno avvocato, difende un poliziotto che si è macchiato del delitto di un uomo, l’altro, dottore, cerca di salvare il bambino figlio della vittima dello stesso poliziotto. Due famiglie che corrono parallele e si ritrovano una volta al mese in un ristorante chic di Roma. L’avvocato ha rabbia repressa che sfoga sul sacco di una palestra di boxe, una moglie annoiata e solitaria, il dottore una relazione tra alti e bassi con la moglie. 
 


Entrambi hanno un figlio, un maschio per l’avvocato e una femmina per il dottore, entrambi adolescenti che si frequentano. Ossessionati dalle nuove tecnologie, i due ragazzi passano il tempo guardando web series (matrice comune sembra essere la violenza demenziale che ricercano in serie come Next Stop o Jackass) e spippolando sui loro cellulari, vagamente estraniati dalla realtà che li circonda.

 

Questo il quadro d’insieme che presenta i protagonisti di questo dramma metropolitano, profondamente legato ai tempi che viviamo. Al centro dell’intreccio troviamo due famiglie minacciate nella loro integrità; ma se in uno dei precedenti film del regista Ivano De Matteo, La bella gente, la stessa minaccia proveniva dall’esterno, in questo essa prende corpo tra le mura domestiche portando alla deflagrazione finale attraverso un percorso che resta interno alle figure delle famiglie stesse. Se vogliamo, l’assunto è dunque ancora più amaro perché il materializzarsi del demone della disgregazione ha radici nelle dinamiche naturali e consuete del menage familiare. I piccoli screzi tra i coniugi, le piccole incomprensioni, i silenzi e i conflitti non bastano a giustificare gli eventi che colpiscono i figli delle due famiglie. Quello che è interessante è come il regista eviti facili connessioni causa effetto sulla violenza che esplode ingiustificata, ma non per questo meno barbarica e che vede protagonisti gli adolescenti Michele e Benedetta.

 

Il regista sembra altresì suggerirci che la violenza è insita e latente in una società che in qualche modo cerca di rimuoverla; la sequenza iniziale è significativa; un adulto che perde la bussola per un semaforo rosso non rispettato, un bambino che lo osserva spaventato, l’altro adulto che vistosi aggredito risponde con inaudita violenza. L’incipit ci mostra una sorta di falso indizio: lo spavento del bambino è il segno di un mondo innocente che guarda con terrore alla violenza degli adulti irresponsabili (il titolo del film si apre in dissolvenza sulla immagine del ragazzino innocente ferito a seguito dello sparo dell’automobilista). 
 




L’indizio si rivelerà fuorviante perché in realtà il film racconta esattamente la dinamica opposta, con la lenta scoperta degli adulti di un mondo di violenza che riguarda i figli. Ma, e qui sta il punto, la risposta degli adulti si dimostra inadeguata, coerente, se vogliamo, con quel mondo stesso che la violenza ha, forse involontariamente, seminato e poi raccolto.
Altro elemento interessante sta nel voluto equilibrio che il regista mostra nel suggerire colpe e difetti dei personaggi, distribuendoli con pari puntualità tra maschi, padri e femmine, madri, tra intellettuali e cinici arrivisti, tra figure di donne dinamiche ed altre passive e vagamente depresse. Le due famiglie che sono a contatto, hanno un comune background, entrambe appartengono alla medio-alta borghesia romana, vivono in appartamenti raffinati e frequentano ambienti d’elites, come il simbolico ristorante che è il luogo chiave della vicenda. 

 
 

Certo Clara (Giovanna Mezzogiorno) e Paolo (Luigi Lo Cascio) hanno ambizioni diverse rispetto a Massimo (Alessandro Gassman) e la sua compagna Sofia (Barbora Bobulova); Clara, guida turistica e Paolo dottore incarnano una borghesia colta, con sfumature sinistroidi, vagamente snob, in cerca di una collocazione sociale consona alle loro aspirazioni. Il ristorante chic non fa per loro, certe sfumature del carattere di Massimo proprio non le sopportano, eppure la loro relazione non è esente da pecche; anzi, con il progredire della narrazione, ci rendiamo conto che le incomprensioni che segnano il loro rapporto sono più profonde di quelle, pur evidenti, tra Massimo e Sofia (quest’ultima, al suo primo apparire, viene presentata come una donna semplice, ma fondamentalmente sola) e il finale è figlio proprio, in parte, di quelle incomprensioni.


Sofia appare come una donna fragile, passiva, lasciata a se stessa, Carla (che cucina, mentre Sofia ha una colf che sbriga le faccende) al contrario pare una donna attiva e sicura di sé. Gli eventi del film modificheranno la percezione iniziale dello spettatore. Le stesse dinamiche narrative si ritrovano nella costruzione dei personaggi maschili. Massimo si presenta come una figura aggressiva (scarica la tensione su un sacco da boxe in palestra), scontrosa, non sincera e distaccata (la compagna lo accoglie con affetto e lui risponde con un atteggiamento insofferente), è un avvocato privo di scrupoli che difende i carnefici, si circonda di oggetti eleganti (l’arredamento della casa, l’automobile) e frequenta ambienti raffinati; Paolo sembra non guardare troppo alle apparenze e, al contrario del fratello, cura le vittime innocenti (i bambini) e sembra non inseguire i clichè di uno status simbol da esibire; il suo rapporto con la moglie pare incanalato nei canoni di una normale affinità e complicità, eppure, alla lunga le crepe più grandi nasceranno proprio in casa di Paolo.

 

Da sottolineare la rilevanza delle ambientazioni dentro cui si muovono i personaggi: la casa di Massimo ha una eleganza asettica (con quel bianco abbacinante e le linee geometriche che inglobano gli spazi) e la raffinatezza dei quadri sottolinea, per paradosso, la freddezza dell’insieme che sembra ricalcare quella delle relazioni umane che si dipanano al suo interno. Più anonima, ma proprio per questo più calda, la scenografia che descrive l’abitazione di Paolo e Clara. Dentro questi spazi formalmente ineccepibili, “ideali” (come la città del quadro che campeggia alle spalle di Paolo e Clara e che richiama, con un omaggio metacinematografico, anche il film di Lo Cascio, La città ideale) si muovono anche i figli che hanno in realtà spazi privati in cui rintanarsi di fronte a schermi digitali. 

 

Benedetta e Michele sono due “tipi qualunque” che al pari di molti coetanei si trovano ad interagire continuamente con i marchingegni elettronici coltivando una cultura parallela a quella degli adulti, fatta di web series e trasmissioni demenziali in cui la violenza è parossistica e parodistica, ma non per questo, meno evidente ed esibita (mentre Michele e Benedetta si appassionano a serie come Next stop e Jackass, Clara non si perde una puntata di Chi l’ha visto?, programma che, come sottolineato dalla stessa presentatrice offre immagini e situazioni crude non adatte ad un pubblico giovanile). Clara è l’adulto che non vede, che non sa. Quel monito a dividere le situazioni adulte da quelle adolescenziali è un avviso a lei stessa, che non a caso proprio da quella trasmissione inizierà ad aprire gli occhi, per poi clamorosamente richiuderli nell’amarissimo finale. 
 

 

La barriera tra ciò che riguarda gli adulti e ciò che riguarda i figli si è disintegrata, i figli sono dentro a ciò che solo un adulto dovrebbe vivere, la violenza barbarica annulla la distanza con il mondo degli adulti che sono costretti ad aprire gli occhi. Chi l’ha visto? Diventa una domanda metaforica posta a Clara, che esige una risposta, ma Clara, e come lei gli adulti che la circondano, non sembrano in grado di trovare risposte adeguate ed efficaci. Clara non ha il coraggio di uccidere un astice, il figlio si. Piccoli segni si presentano alla madre ma costei non vuole vedere, le basta un sorriso per credere che il figlio è ancora un bambino innocente ed immacolato.
 

 
Clara, messa di fronte al fatto compiuto, inizia un percorso di revisione del proprio mondo che va però nella direzione della rimozione, della ripulitura dallo sporco piuttosto che nella direzione di una profonda presa di coscienza (che fondamentalmente avrà, alla fine, soltanto Massimo). Chiusa la porta della stanza del figlio bisogna iniziare a ripulire come suggerito dal montaggio che ci mostra, nella sequenza successiva, degli spazzini al lavoro. 
 



 

La madre spia Michele per cercare di ritrovare l’immagine cristallizzata del figlio, la sua icona fissa del bambino che ha cresciuto; il suo semplice sorriso basta a Clara per consolarsi e convincersi che quella immagine è ancora valida; scoprendo il delitto, viene meno, per la madre, ogni riferimento spazio temporale (di colpo il bambino è scomparso) così da perdere letteralmente l’equilibrio. Il loro dialogo è come l’inizio di una partita a carte.

 

I padri (fratelli) intanto, appoggiati ai piloni che fermano le onde, si raccontano la verità che arriva come un mare in tempesta. Anche loro hanno bisogno di sostenersi metaforicamente su quelle armature frangiflutti per salvarsi dalla tempesta interiore che sta per annientarli.
 

 

“Io lo conosco mio figlio” è il refrain che accompagna i dialoghi tra gli adulti smarriti. Perché il film racconta proprio questo: lo smarrimento di una generazione di padri e madri che stenta a capire e riconoscere i figli. Il film non mette a fuoco le ragioni della follia dei ragazzi; troppo superficiali gli indizi della loro dipendenza da una realtà virtuale in cui la violenza è gioco e viceversa. Il film si occupa degli adulti e della messa in discussione delle loro certezze. Nel confronto continuo, che caratterizza la seconda parte, tra marito e moglie, e tra compagno e compagna, il regista sottolinea la difficoltà di una convergenza materializzando queste discrasie con un gioco di inquadrature e messa in scena dei personaggi che raramente si trovano a fuoco insieme.
 


 

Non solo, ma lo stesso spettatore è, talvolta in difficoltà nel cogliere i passaggi dei dialoghi, come quando la voce innocente del piccolo figlio copre le parole che si dicono Massimo e Sofia; in una casa improvvisamente vuota Sofia si trova ad essere una intrusa negli affari che riguardano la figliastra Benedetta. 
 

 

Clara è incastonata in una immagine in cui prevale il nero alle sue spalle. Paolo vede nella madre del piccolo che ha in cura le stesse paure ed ansietà che attanagliano la moglie, ma è proprio Clara che richiama Paolo alle sue responsabilità, aprendo quella crisi di coscienza che sarà la causa scatenante della reazione finale del marito. 


Improvvisamente Paolo si scopre assente come padre di Michele, mentre Massimo va lentamente maturando una coscienza (lui vede sfuocata la foto che lo ritrae con la figlia, non ci vede più chiaro; al contrario di Clara è in grado di rimuovere la falsa immagine della figlia bambina per sostituirla con la nitida figura di Benedetta spietata killer); questa coscienza è però pericolosa ed inaccettabile, addirittura fatale (come mostrerà il finale). 
 

 

 

Paolo urla nel vuoto, invece Massimo, di fronte al palazzo di giustizia (che vediamo con veloce movimento di macchina) ammette di aver sbagliato tante volte con la figlia (un senso di giustizia lo pervade).
 



 

Massimo, insomma, è l’unico che scopre fino in fondo la vera natura dei loro figli, accettandone fino in fondo le conseguenze ed includendo se stesso nel computo delle colpe che hanno contribuito a portare a quella situazione. Queste diverse consapevolezze dei protagonisti di fronte al fatto compiuto si materializza nella sequenza finale del ristorante; i quattro sono divisi e anche le inquadrature ce li mostrano a due a due o uno di fronte all’altro, ma senza mai metterli a fuoco contemporaneamente.
 





Tutti questi motivi si intrecciano con una ulteriore e fondamentale domanda: il degrado morale, l'assenza di punti fermi va imputata a una gioventù ormai lasciata in balia dei social network o ha le sue radici in un falso perbenismo incapace di reggere il confronto con la realtà? I genitori di Michele e Benedetta non sono 'cattive persone', non possono neppure imputare alla società (visto il loro status) un degrado morale ed etico a cui attribuire le malvage azioni dei propri figli. Dentro di loro alberga però (e ha messo radici) la convinzione di poter aggirare ogni ostacolo azzittendo qualsiasi sussulto di coscienza. Paolo vira repentinamente nel momento che la moglie lo pone di fronte alle sue responsabilità e ai suoi silenzi assordanti. Si sente un padre assente e dunque acqueta una colpa macchiandosene di una più grande. Massimo, al contrario, è conscio delle proprie responsabilità e dei propri errori e quando si trova di fronte al frutto di questi, non sa negare l’esigenza di correggerli aderendo alla verità e alla giustizia. Mentre le due donne restano sulle posizioni che le hanno contraddistinte fin da subito, i due fratelli sono i veri protagonisti della vicenda chiamati ad una svolta radicale nelle loro convinzioni.



 

 

 

domenica 10 gennaio 2016

In nome del popolo italiano

In nome del popolo italiano


 

Regia: Dino Risi

Attori: Ugo Tognazzi - Giudice Mariano Bonifazi, Vittorio Gassman - Lorenzo Santenocito,

Yvonne Furneaux - Lavinia Santenocito, Michele Cimarosa - Maresciallo Casciatelli,

Ely Galleani (Ely De Galleani) -Silvana Lazzorini, Pietro Tordi - Prof. Rivaroli,

Simonetta Stefanelli - 'Giugi' Santenocito, Franco Angrisano -Colombo,

Renato Baldini - Rag. Cerioni, Pietro Nuti - Avvocato di Santenocito,

Checco Durante - Pieronti, l'archivista, Maria Teresa Albani - Signora Lazzorini,

Enrico Ragusa - Riziero Santenocito, il padre, Edda Ferronao - Cameriera di Santenocito,

Soggetto: Age , Scarpelli (Furio Scarpelli)   Sce neggiatura: Age , Scarpelli (Furio Scarpelli)
Fotografia: Sandro D'Eva, Carlo Fiore - (operatore)  Musiche: Carlo Rustichelli - Le musiche sono dirette dall'autore e da Gianfranco Plenizio. La canzone "Non dovrei" di Phersu e Rizzati è cantata da Franco Morselli.
Montaggio: Alberto Gallitti  Scenografia: Luigi Scaccianoce   Arredamento: Bruno Cesari
Costumi: Enrico Sabbatini   Aiuto regia: Renato Rizzuto, Claudio Risi - (assistente)                                                                        
Abusivismo edilizio, degrado ambientale (la riva del mare che si presenta come una enorme discarica a cielo aperto), inquinamento sono i primi motivi evidenti del film di Risi. L'inquinamento e il degrado ambientale sono lo specchio del degrado e della corruzione morale di un popolo, già evocato nel titolo, in cui uomini come il pretore Bonifazi sono destinati, inesorabilmente, a cadere nella rete di pescatori senza scrupoli.

 

Il pretore Bonifazi (Tognazzi), integerrimo ed onesto, è promosso giudice istruttore, ed è, a sua insaputa, come preso in una rete da cui non può liberarsi. Bonifazi è come il gabbiano dal cui verso è richiamato: si getta sulla preda con decisione, ma la preda è malata, inquinata e ne resterà anch’esso infetto fino alla morte (nel suo caso alla morte morale e al tradimento delle sue convinzioni). 
 

 

Il suo contraltare è l’ingegner Santenocito, imprenditore senza scrupoli e remore etiche, salvo sputare sentenze contro i giovani fricchettoni dei camping e dei centri sociali, cui occasionalmente dà passaggi in macchina.

 

Bonifazi ha l’Unità e il Manifesto sul letto, è il giudice di sinistra, Santenocito è l’uomo di destra che l’autostoppista apostrofa come fascista. 

 

Le due anime dell’Italia sono subito presentate nell’incipit del film in un alternarsi di punti di vista che sono come contrappuntati dall’alternarsi del colore e del bianco e nero. Gli stessi titoli iniziali scorrono su immagini in bianco e nero di luoghi simbolo della giustizia italiana (il palazzo di giustizia a Roma), un bianco e nero che nel film è utilizzato per definire le sequenze in flash back ambientate nel passato, quasi a voler sottolineare l’anacronistica presenza di una simbologia retorica, direttamente proveniente da un passato carico di aspettative, che stride con la realtà dei fatti e dell’Italia della modernità.
 


Il giudice Bonifazi si mette a lavorare sul caso dell’omicidio di una giovane ragazza, Silvana L. Gli interrogatori che sostiene con i genitori della ragazza e la domestica della stessa sono condotti sul filo di un linguaggio surreale, fatto di idiomi inesistenti, errori grammaticali, termini desueti ed “aulici” che rendono i colloqui grotteschi. E’ un linguaggio che mescola il lessico tipicamente burocratico ad uno popolaresco e colorito. Le evidenti forzature nelle espressioni gergali, la ricercatezza dei termini che non si sposa con la dimensione colloquiale, accentuano il tono di forzata deferenza nei confronti del giudice e ci richiamano, più in generale, ad una idea di falsità ed ipocrisia che permea le relazioni umane (queste alcune delle espressioni usate dai genitor della giovane vittima: …persona di cui ignoriamo l’entità…; invitammo la vedova Casciotti che fece onore al desinare…; …la filiale sollecitudine della nostra bambina…; la nostra piccoletta interruppe presto gli studi inserendosi nel gran calderone…;…ci sarebbe un episodio che lumeggia assai il carattere della nostra pupetta…; e così tralasciò il suo esplicarsi interrompendo il suo percepire e il suo darci…). La mostruosità del lessico va di pari passo con quella dei tipi umani che incrocia il Bonifazi, non ultimi questi genitori sciagurati che non possono (per eccesso di ingenuità) o non vogliono (per eccesso di eogismo e stupidità) cogliere il dramma della figlia (che si prostituiva).


Il dottore cui Bonifazi si rivolge per effettuare le analisi sul gabbiano morto nei pressi delle industrie Santenocito, pare uomo cinico e disincantato, che ha il modo romanesco di parlare, anche con tono proverbiale, e sputa una sentenza che sembra esprimere la profonda essenza del film: Io dei cittadini me ne infischio, perché ogni cittadino aspira a diventare industriale ed avvelenatore del prossimo. Voi magistrati non l’avete ancora capito che questo popolo italiano nel nome del quale sentenziate non merita un cacchio, Continuate, continuate a difenderlo…).

 

L’immagine ripetuta della salma della ragazza uccisa, avvolta in bianchi lenzuoli, bionda e giovane, sfruttata dai genitori, vittima di uomini senza scrupoli come Santenocito, diventa l’emblema di una purezza perduta, di una innocenza macchiata (si pensi al flashback in cui vediamo la ragazza indossare un impermeabile bianco, sotto la pioggia battente e inzuppata d’acqua che, come una bambina, invoca il papà e la mamma, di fatto i suoi “protettori”), cui Bonifazi, forse, guarda con malcelata nostalgia. Silvana L. (fra l'altro quasi sempre vestita di un bianco candido, lei già bionda ed innocente come un angelo caduto dal cielo) è proprio l’Italia vituperata ed oltraggiata, morta moralmente ed eticamente.

 



Il film prende, talvolta, la via della metafora visiva, come quando Bonifazi discute animatamente con un pubblico ministero accusato di “strabismo legislativo” (lui evidentemente strabico fisicamente) all’ombra di una enorme statua della giustizia che crolla a terra immediatamente dopo al dialogo incriminato. 

 

Sulla parola Iustitia campeggia un segnale di pericolo con evidente allusione al sistema giudiziario italiano nel suo complesso. Gli operai che provvedono a rimuovere la testa della dea coprono con le mani gli occhi della stessa quasi ad impedirle di vedere lo sfacelo che si sta consumando di fronte a lei. 
 

 

La Giustizia sta crollando e gli italiani festeggiano, mascherandosi come gli antichi romani; tra questi il commendator Santenocito che, in qualche modo, ne incarna i vizi peggiori. 

 

La sagoma nera del carabiniere (simbolo di un’Italia che faticosamente cerca di difendere la legalità e la giustizia) che si muove tra i finti romani risulta ancora più isolata nel complesso delle tuniche bianche predominanti. La musica leggera sovrasta la scena della convocazione giudiziaria di Santenocito. Mentre l’imprenditore viene condotto via, la festa prosegue e noi la vediamo incastonata tra due colonne, quasi i limiti di un palcoscenico su cui va in scena la frivolezza e la leggerezza (non innocenti) italiane.
 

 

Nella sede provvisoria del palazzo di giustizia Santenocito è condotto con il suo vestito da centurione romano mentre un usciere va declamando alcuni versi della poesia “Lo specchio der governo” di Gioacchino Belli.

Lo specchio der governo (poesia integrale e, in neretto, i versi declamati dall’usciere)

Cuanno se vede ch’er Governo nostro

cammina senza gamme, e ttira via:

cuanno se vede che mmanco Cajjostro 

saprebbe indovinà cche ccosa sia:



cuanno er Zommo Pontescife cià mmostro 

che cqualunque malanno che sse dia

s’abbi d’arimedià co un po’ d’inchiostro,

co un po’ d’incenzo e cquattro avemmaria:



cuanno se vede che lo Stato sbuzzica, 

e cch’er ladro se succhia tutto er grasso,

e ’r Governo lo guarda e nnu lo stuzzica;



tu allora che lo vedi de sto passo,

di’ cch’er Governo è ssimil’a una ruzzica,

che ccurre cure sin che ttrova er zasso.


Anche Santenocito si presenta di fronte al giudice Bonifazi pronunciando frasi composte di un lessico inusuale, artificioso, stucchevole (Gli abusi autoritaristici in paesi a conduzione totalitaria sono deprecazionabili, il prevaricazionismo implicante il maggior indice di repressività è quello fruente del massimo libito demandatogli dalla designazione collettiva, caro signore…), ancora più grottesco tenuto conto del mascheramento dell’imprenditore. La sua capacità oratoria va di pari passo con l’ipocrisia e la cialtroneria evidenti.


La signorilità e l’eleganza, diremmo quasi antiquaria, del palazzo in cui vive la famiglia di Santenocito (le colonne, i baldacchini, i ritratti di cardinali e uomini di potere del passato), stride con la bassezza morale che contraddistingue il personaggio. Le enormi stanze (riprese talvolta con il grandangolo proprio per esasperarne le dimensioni) in cui si muovono i componenti della famiglia (l’isterica moglie Lavinia e la disillusa figlia) accentua la distanza affettiva che li separa, frutto dell’egoismo e del cinismo del capofamiglia che esplode in tutta la sua evidenza allorquando questi fa condurre il vecchio padre (isolato in un’ala del palazzo dove sente il dolce suono di un violino provenire da un altrove indefinito) in manicomio per difendere l’alibi costruitosi (la sera dell’omicidio della ragazza avrebbe giocato a scopetta con il padre che però pericolosamente non ricorda).
 

 

Il moralismo ostentato con la figlia, condito di consigli bonari ed esistenziali, cozza con il livore e l’odio che prova per la moglie e questa sua doppiezza si materializza nella sequenza in cui l’uomo si guarda sconsolatamente allo specchio sussurrando a se stesso l’idea che la pietà non può accordarsi con il potere. La moglie è complice della situazione e capisce che è meglio un suocero in manicomio che un marito in carcere. 
 

 

L’arrivo del giudice Bonifazi nella villa coincide con la partenza del nonno (se ne va un’ambulanza ed entra un’auto delle forze dell’ordine) ed è introdotta, significativamente, dalla presenza di una cameriera che sta cercando di pulire il disordine provocato dal “sequestro” del nonno (Bonifazi vede lo sporco ed è inutile nasconderlo…). 


Il giudice continua a muoversi con il suo motorino tra il traffico di un mondo in cui compaiono starlette disposte a tutto pur di raggiungere la notorietà ed imprenditori corrotti e senza scrupoli. La sua integrità (forse è un po' stereotipata l’idea del giudice di sinistra, idealista ed integerrimo, lontano da certe logiche) è messa a dura prova e nel dialogo con Santenocito sulla spiaggia (un dialogo che avviene sotto la pioggia e tra i rifiuti, dunque nel mezzo di un ambiente degradato e degradante) emerge la stanchezza di chi è stufo di essere il difensore di leggi che proteggono una società che fa schifo…composta da uomini vili e volgari come il suo interlocutore. 
 
 

Ma la fragilità della posizione di Bonifazi è tutta in quel suo caracollare con il motorino tra auto in fila e crepe e frane al bordo della strada la cui manutenzione è affidata a personaggi come Santenocito. 


Noi siamo sempre complicizzati, in mancanza di meglio, da una strizzatina d’occhio” è la frase con cui Santenocito cerca di smorzare la forza delle argomentazioni di Bonifazi che sta cercando di incriminarlo. In realtà tra i due quello assediato, letteralmente, pare proprio il giudice, circondato da testimonianze che vanno nella direzione opposta ai suoi principi e continuamente blandito dalle affermazioni dell’imprenditore che, nella loro sfrontatezza, colgono, purtroppo, spesso nel segno. E’ Bonifazi, solo nella sua missione, il vero indagato del film, è lui sotto assedio tanto che il suo ufficio è dentro ad una caserma presidiata dai soldati proprio come se necessitasse di essere difeso da attacchi esterni. 


E’ straordinaria comunque l’attualità dei temi e dei motivi con cui viene inquadrata l’Italia degli anni Settanta e che ha tante, troppe somiglianze con quella attuale. L’intreccio di corruzione, malaffare, cialtroneria, disonestà, la collusione tra poteri che si incarnano in Santenocito, figura che si moltiplica nel finale del film negli italiani di ogni ordine e grado che festeggiano la vittoria della nazionale. 

Mentre la voce dello speaker di un notiziario televisivo commenta i premi ricevuti da imprenditori come Santenocito e parla di sviluppo del paese e piena occupazione, vediamo un padiglione industriale vuoto e desolato. Quei personaggi che guidano l’economia del paese non hanno alcun vero interesse per il benessere del paese, ma soltanto per il proprio (la denuncia di Risi non potrebbe essere più decisa). 
 


La soluzione del caso avviene quando di nuovo Bonifazi è tornato al palazzo di giustizia, ancora un cantiere in verità; un ritorno simbolico che sembra garantire le buona riuscita dell’operazione ( per quanto, quando interroga il maggiordomo dell’imprenditore Del Tommaso, colluso con Santenocito, che sta finalmente raccontando la verità, la voce di questi sia disturbata dai rumori che provengono dall’esterno; la verità fatica ad emergere, il rumore sta per sovrastarla, Bonifazi deve chiudere con forza la finestra). 
 


La corruzione è l’unico iter per sveltire le procedure, dice Santenocito presentando il suo nuovo progetto di lottizzazione di un terreno adiacente al mare. La sua voce è contrappuntata dalle immagini dei carabinieri che stanno arrivando per arrestarlo;
 

 

all’orizzonte si sta profilando la partita Italia Inghilterra la cui eco accompagnerà le scene finali del film. La giustizia ha compiuto il suo corso ma qualcos’altro distrae gli italiani, qualcos’altro sta stordendone la coscienza: la partita di calcio. Tanti Santencito si muovono deliranti a festeggiare; Santenocito rappresenta tutti gli italiani… 

 

Bonifazi che vagava sempre più isolato tra le strade deserte della capitale, ed era un uomo solo che sembrava condurre una battaglia isolata si trova nuovamente circondato ed assediato, ma anche lui non è più lo stesso di prima; quello che compie nel finale, un vero atto di ingiustizia (la distruzione delle prove che scagionerebbero il Santencito), ne corrompe la purezza: pure lui ha capitolato, è venuto meno ai propri principi, si confonde tra la folla che festeggia e, a quel punto, non è poi così migliore di quelli che lo circondano. La cinica logica del dottore, che invitava il giudice a non ostinarsi a difendere cittadini che non meritavano tale trattamento, ha avuto la meglio, il giustizialismo ha prevalso sulla giustizia e sulla legge.

 
 
In un mondo dai contorni morali ed etici corrotti e ribaltati, l’ingiustizia di Bonifazi diventa giustizia, con l’amaro retrogusto di una sconfitta o quantomeno di un atto fondamentalmente inutile e fine a se stesso. Dando ragione alle remore morali esposte da Cartesio nella sua “Morale provvisoria”[1], potremmo dire che Bonifazi non ha cambiato il mondo, ma il mondo ha cambiato Bonifazi. Un mondo che è uguale a se stesso se è vero che alle immagini di degrado che hanno aperto il film si contrappongono quelle altrettanto degradanti del finale con la sporcizia che invade le strade di Roma e alcune beffarde scritte (come quella di un cartellone pubblicitario il cui slogan è: Roma è anche tua, aiutaci a tenerla pulita…di una attualità disarmante) che rendono ancora più amaro l’insieme.

 

Nel contesto sempre uguale la situazione si ribalta, Santenocito è la voce della verità che riecheggia come un tarlo nella mente di Bonifazi (Lei è prevenuto verso persone come me…Se fossi della sua stessa idea politica troverebbe il modo di scagionarmi…); gli italiani per cui Bonifazi dovrebbe riabilitare la figura di Santenocito non meritano niente, proprio come diceva il dottore, perché anche loro sono tanti Santenocito e allora, alla fin fine, nessuno ha vinto e giustizia non è fatta.
 


A chiudere le frasi che la bionda ed ingenua fanciulla traduceva dall’inglese (quell’Inghilterra che battiamo nel calcio ma certo non nella civiltà sembrerebbe dirci Risi quando ci mostra i tifosi che distruggono una macchina inglese sulle cui fiamme Bonifazi farà bruciare la verità), che Bonifazi legge dal suo diario e che segnano un ulteriore contrappunto morale alla vicenda.

L’allegra cicala ha passato l’estate cantando; Si raccoglie ciò che si semina; Tutto è bene quel che finisce bene.




 


[1] La morale provvisoria cartesiana si compone di principi fondamentalmente legati alla razionalità e al buon senso. Ogni uomo dovrebbe, primieramente, seguire le leggi e i costumi dello stato in cui vive, quindi, perseverare con risoluzione nella decisione presa, sebbene essa possa sembrare dubitabile nel corso dell'esecuzione,  cercare di dominare se stessi piuttosto che la fortuna e di cambiare i propri desideri piuttosto che l' ordine esterno delle cose e infine dedicare tutta la vita allo sviluppo della ragione e alla ricerca della verità .