venerdì 1 dicembre 2017

Incontri ravvicinati del terzo tipo

Incontri ravvicinati del terzo tipo

Titolo originale: Close Encounters of the Third Kind
USA 1977
Regia: Steven Spielberg
Genere: Fantascienza
Durata: 138'
Interpreti: Richard Dreyfuss, Francois Truffaut, Teri Garr, Melinda Dillon, Bob Balaban, Robert Blossom


Una luce abbacinante interrompe l'overture musicale sul nero, noi spettatori siamo chiamati ad adeguare il nostro sguardo alla nuova luce, alla nuova visione che il regista ci propone. E' un invito a guardare verso la luce, come faranno spesso i personaggi del film e quindi un invito a noi spettatori a vivere l'esperienza del film secondo il medesimo punto di vista dei personaggi (in particolare dei protagonisti Roy e Lacombe).


Deserto di Sonora, luogo al confine con il Messico, luogo che è battuto dal vento ed impedisce una chiara visione delle cose; qui si incontrano uomini di diverse lingue, una piccola Babele nella quale è difficile comunicare; si parla francese, inglese, spagnolo e si ritrovano aerei americani della Seconda Guerra Mondiale (questi aerei riprendono vita, come in un film e Spielberg farà vari film in cui compariranno e riprenderanno vita gli aerei della Seconda Guerra Mondiale: L’impero del sole, 1942 Attacco ad Hollywood, Salvate il soldato Ryan).


Siamo dunque in un luogo senza tempo, fuori dallo spazio e uno degli uomini, colui che sembra avere il polso della situazione, il signor Lacombe, alias Francois Truffaut, interroga un testimone e sorride prima ancora che questi possa parlare: vede in lui qualcosa, qualcosa che lo rende raggiante. Una luce è scesa nella notte e ha cantato per lui. Su questa luce possiamo fare le più disparate supposizioni simboliche: l’ispirazione, il sogno, la fantasia, Peter Pan. Che Truffaut, il regista, l’alter ego di Spielberg, capisca senza bisogno di traduzione ciò che ha visto quell’uomo è un indizio importante.


Centro di controllo di Indianapolis; questo è il luogo della tecnologia, delle macchine che visualizzano il traffico, che lo registrano, che guidano i vettori nella giusta direzione. In questo luogo l’apparizione di strane luci non viene codificata, non trova una spiegazione razionale e dunque non è degna di essere relazionata (i piloti non vogliono fare rapporto su quanto hanno visto o intravisto). Al disordine naturale del deserto risponde la notturna atmosfera di un centro di controllo in cui i meccanismi di riconoscimento vanno in tilt, si fermano. Difficoltà di comunicare nel deserto (le diverse lingue), difficoltà di riconoscere i segni nel centro aereonautico. Agli uni sembrano mancare gli strumenti, agli altri la capacità di decodificare i segni che arrivano da una nuova dimensione.


Un terzo luogo appare all’orizzonte. Una casa, un luogo privato immerso nella notte. Un bambino che dorme ed improvvisamente si sveglia e come in un sogno vede muoversi i giocattoli intorno a lui. Ha lo sguardo divertito pieno di meraviglia che solo un bambino può possedere ancora intatto.



In questo inizio c’è già il seme della grande metafora del film: Una mente creativa ed illuminata (il regista, Truffaut), la tecnologia (l’equipe, il cast, il gruppo di lavoro) e uno sguardo puro, uno sguardo bambino (quello dello spettatore, ma anche dell'autore, di Spielberg stesso, che è letteralmente rimasto bruciato da quella visione che si apre di fronte a lui) in grado di cogliere la magia del messaggio: ecco in sintesi la più grande metafora del cinema sul cinema, della meraviglia che la fantasia crea di fronte a coloro che vogliono credere e che Spielberg sta mettendo in scena.


A chiudere questa introduzione compare Roy, il protagonista, un uomo che ama giocare con i trenini, che non ha voglia di risolvere i problemi matematici del figlio, che invita tutta la famiglia ad andare al cinema a vedere Pinocchio (Un film che aiuta a crescere) e permette al figlio di vedere I dieci comandamenti in tv (sta passando proprio la sequenza del passaggio del mar Rosso) contravvenendo alle diposizioni della madre che vorrebbe vedere i figli a letto presto (I dieci comandamenti durano 4 ore!).



Roy è lo spettatore adulto che ha lo sguardo del bambino e può cogliere la meraviglia della visione. Come Pinocchio, Roy ha un suo paese dei balocchi da raggiungere, in parte già costruito in casa sua (l’enorme plastico del trenino con quella montagna ai margini e se proprio dobbiamo risolvere un problema azioniamo il trenino). I dieci comandamenti ci rimandano al Charlton Heston, Mosè, che risale il monte Sinai per ricevere le tavole della Legge, quel Mosè che deve convincere il suo popolo ad attraversare il mare che si apre (vogliamo più meraviglia di questa?). La salita al monte sarà nel destino di Roy che avrà in quella ascesa il contatto con la trascendenza, con la meraviglia che è insita e si materializza nella capacità creativa dell’uomo.


Le luci della città si spengono, come si spengono le luci in sala al momento dell’inizio della proiezione. Se siamo disposti ad avere lo sguardo bambino di Roy si aprirà di fronte a noi il miracolo della meraviglia, del fantastico che si fa reale, che canta per noi. Gli Ufo possono finalmente comparire. Compaiono pure le scritte di due grandi multinazionali americane: sono insegne pubblicitarie, gli spot prima del film!



Roy, chiamato al lavoro, si è perso, non sa trovare la strada ha abbandonato ogni percorso sicuro, si lascia trasportare, come noi spettatori ci affidiamo al regista che ci conduce nel suo mondo e perdiamo il contatto con la nostra realtà quotidiana. Anche lui è nella nebbia, come nella sabbia portata dal vento era immerso Lacombe. Una dimensione di sospensione della realtà, di perdita delle coordinate spazio-temporali. Si accendono le luci alle spalle di Roy (il proiettore?) e l’ombra delle sue dita è proiettata su una superficie bianca (lo schermo che viene letteralmente tirato giù da Roy). Non poteva che essere lui, lo spettatore bambino, il primo a vedere il meraviglioso, l’incredibile, l’UFO.




Roy cerca disperatamente di condividere la sua visione, ma moglie e figli (che non volevano andare al cinema la domenica) non vedono ciò che lui vede. Di quella esperienza porta addirittura i segni sul volto, quelli di una scottatura.


Il contatto con questa dimensione irreale produce un linguaggio (quello della musica per i sordi), veicola un messaggio (la misteriosa attrazione per una forma piramidale che ancora non riesce a decodificare). Sono gli indiani ad aver udito il messaggio (comunità di uomini ingenui, pre capitalistici), Truffaut si fa da tramite per il mondo scientifico, ma ai convenuti sulla collina non è dato vedere niente di meraviglioso.



Roy e il bambino hanno un feeling, in compenso la moglie di Roy non vuole sentire ragioni: il marito ha perso il lavoro. La fuga nel sogno non è se non per spiriti puri, per spiriti bambini il cui stupore stride con le ragioni di un mondo che sembra confinare altrove il meraviglioso. 
Mentre gli scienziati decodificano il messaggio secondo una scansione matematica, il bambino, la madre e lo stesso Truffaut tramutano le loro emozioni in rappresentazioni, in musica e disegni. Il germe dell’ispirazione artistica ha preso possesso di loro.



Il bambino viene letteralmente rapito. Una enorme nuvola compare all’orizzonte e ricorda la nuvola che si ergeva sopra il mar Rosso nel film I dieci comandamenti. Un analogo prodigio sta per compiersi e il bambino esclama: giocattoli! Egli è rapito da un enorme Peter Pan che lo conduce lontano dalla realtà, nell’isola che non c’è che è la montagna misteriosa nel Wyoming, la Torre del Diavolo. Ma mentre Wendy e i suoi fratellini torneranno a casa per poter ritrovare la famiglia e finalmente crescere, Roy, che alla fine volerà verso l’isola che non c’è, non tornerà più deciso ad abbandonare questo mondo per la fuga nel sogno e nel meraviglioso. Il bambino si chiama Barry e ricorda tremendamente quel James Matthew Barrie autore di Peter Pan.



Roy, toccato dalla Grazia della fantasia riesce a vedere la sua montagna nella schiuma da barba, nel purè, nella pagina di un giornale, metafora della capacità di creare, di dare vita a mondi e realtà, manipolando l’esistente (che è ciò che fa appunto il cinema), con anche la frenesia dell’artista (il risveglio dell’impeto creativo in Roy è seguito dalla frustrazione per la sua incapacità di riprodurre ciò che l’ispirazione suggerisce e poi dalla letterale esplosione finale, evocata con un passaggio di montaggio analogico, nel cartone animato alla tv, con cui Roy raggiunge l’obiettivo, la realizzazione del sogno creativo perfetto: la montagna nella sua forma ideale) che vede l’incompiuto, l’irrisolto.





In parallelo si muove un apparato scientifico militare che cerca di imbrigliare quella magia, di escluderla allo sguardo, di imprigionarla in un ambito rassicurante. Tornerà questo motivo nel laboratorio in cui rinchiuderanno ET. E’ il principio di realtà, di coloro che sono scettici (la moglie, i giornalisti) e di coloro che vogliono nascondere (i soldati e gli scienziati).


Una volta consumatasi la divina frenesia creativa di Roy (folle e deciso nella sua composizione del plastico della Devils Tower), il modello coincide con l’ideale, la vera Devils Tower che compare su uno schermo tv, in una sequenza che magistralmente sfrutta la profondità di campo, per condurci al cuore della rivelazione decisiva del film. Roy ha raggiunto ciò che agli altri è precluso, può dirigersi verso la zona proibita dove il sogno diventa realtà. Può anch’egli volare verso l’isola che non c’è. Ma è la direzione sbagliata per molti; Roy è letteralmente contromano, controcorrente, un animale strano. La folla non può e non vuole vedere perché non crede alla visione, o meglio crede ad altro che viene dispensato (la paura di un veleno tossico). Roy e la madre di Barry devono rompere molti steccati per raggiungere la meta.






<Perché siete qui>, chiede Lacombe-Truffaut a Roy: <sei forse un artista, un pittore?> Lacombe capisce Roy e sorride quando lo vede fuggire dalle grinfie dei soldati. Lui ha più diritto di noi di stare qua, dice ad un collega, Lacombe sa, coloro che vogliono credere sono più importanti di coloro che vogliono capire (che gli scienziati siano i critici, i semiologi, gli studiosi che vogliono razionalizzare l’evento della visione? E Lacombe, ad un certo punto, usa proprio il termine visione!). Lacombe, Roy e i 12 (come gli apostoli, a sottolineare la sacralità dell’evento) giunti da ogni parte condividono lo stesso sguardo.



I soldati vogliono anestetizzare coloro che salgono sul monte, come i critici vogliono anestetizzare il senso della meraviglia della visione, come la ragione volesse imbrigliare lo stupore, ma è troppa la forza dell’Eros che fa ascendere i personaggi verso la vetta. In fondo, questa seconda parte del film, può essere anche letta come la riproposizione dl mito platonico di Eros, della forza del cavallo nero (le passioni terrene) che frena l’impeto del cavallo bianco (l’aspirazione celeste); solo pochi riescono a liberarsi e librarsi verso l’amore celeste, in questo caso l’amore per il meraviglioso che è in noi, il fanciullino nascosto che emerge con forza.




Le luci che illuminano la vetta paiono quelle che segnalano le sale cinematografiche americane quando si preparano ad un evento, le stesse che si alzano sulla sigla della Paramount.


Quello che si apre, poi, di fronte agli occhi di Roy e Lorraine è veramente lo spazio di un set cinematografico, con luci e operai che si muovono per allestire la messa in scena. Le prove microfono, la voce da un altoparlante che richiama i figuranti al loro posto. Le luci si abbassano, c’è l’invito a guardare verso il cielo, si sollevano appalusi in lontananza, sembra veramente l’inizio di uno spettacolo. A coordinare il tutto è il “regista” Truffaut che può finalmente disvelare la propria identità. Il set è pieno di apparati di riproduzione, di registrazione e di rilevamento (si scorgono macchine da presa ovunque).



La musica diventa il tramite comunicativo tra le entità ultraterrene e gli uomini, il ponte di questi ultimi verso l’altra dimensione. Nel set può avvenire qualsiasi cosa, come l’arrivo di un’astronave madre che come una novella arca restituisce al mondo uomini e donne scomparsi e provenienti da altri tempi. Truffaut allora fa una domanda fondamentale a Roy: <Cosa ci fa lei qui?> E la risposta non potrebbe essere più chiara: <Voglio vedere se tutto ciò sta accadendo realmente>. Roy crede ed è immerso in quella realtà ed in fondo ogni spettatore dallo sguardo puro vuole andare al cinema perché vuole credere in quello che vede, sospendendo ogni diffidenza e mollando gli ormeggi verso il mondo della fantasia.



Monsieur Neary, io la invidio. Truffaut capisce la meraviglia negli occhi di Roy e la invidia come si invidia l’ingenua innocenza di un bambino che ha voglia di volare via. Truffaut è colui che ha costruito quel microcosmo per permettere l’incontro tra gli spettatori e il meraviglioso, ma la luce invade totalmente Roy che è letteralmente rapito da quella visione, nell’estasi della piena simbiosi tra l’umano e il trascendente. Altri, benedetti da Dio, sono i fortunati che intraprendono questo straordinario viaggio e bordo dell’astronave, ma è Roy che è letteralmente rapito (allarga le braccia simulando il gesto dell’alieno che era sceso per primo dall’astronave), circondato da alieni bambini e il cui ultimo sguardo, felice, va a cercare quello di Barry.




E’ il momento chiave del film: Roy, completamente trasfigurato ritrova pienamente e definitivamente il suo sguardo bambino e Spielberg, genialmente, introduce nel tessuto musicale, nel momento che Roy guarda Barry, l’accenno sonoro alla sigla della Disney, vero mondo di sogni che ha rapito intere generazioni di spettatori bambini. Proprio Barry, salutando l’astronave con un addio, chiude di fatto il film, il suo è l’ultimo sguardo umano che compare sullo schermo, lo sguardo bambino che accompagna la partenza degli alieni.





martedì 28 novembre 2017

Furore

Furore


Titolo originale: The grapes of wrath
Produzione: Stati Uniti 1940
Regia: John Ford
Interpreti principali: Henry Fonda (Tom Joad); Jane Darwell (mamma Joad), John Carradine (Casey)
Sceneggiatura: Nunnally Johnson; tratta dall'omonimo romanzo di John Steinbeck
Fotografia: Greg Toland
Durata 129'



John Ford, partendo dall’omonimo romanzo di John Steinbeck, racconta di una apocalisse che ha colpito il suo popolo (del resto The grapes of wrath, il titolo originale del romanzo, richiama ad un verso biblico proprio dell’Apocalisse di Giovanni 14:19 - L'angelo lanciò la sua falce sulla terra e vendemmiò la vigna della terra e gettò l'uva nel grande tino dell'ira di Dio.), una sorta di giudizio universale che ha minacciato l’integrità di un popolo e ha minato l’istituzione familiare sull’orlo della disintegrazione.
Nel romanzo di Steinbeck la frase, il cui significato letterale è l'uva dell'ira, è posta nel contesto della descrizione della rabbia montante per la distruzione della frutta che avveniva per mantenere alti i prezzi delle derrate alimentari e favorire dunque i profitti dei capitalisti. Questa distruzione avvenne sulle spalle e sul sangue dei poveri contadini, vittime di questa assurda politica. Essi sono, agli occhi di Steinbeck, i grapes of wrath, i grappoli d'uva strizzati per farne vino e il vino è evidentemente il sangue che versano per una causa ingiusta. L'ira cui allude l'autore potrebbe far pensare anche ad una sentimento di rivolta che cova sotto la cenere della rabbia e della frustrazione ben incarnata nella figura di Tom Joad. Ecco il testo originale del romanzo da cui si trae il titolo.

“There is a crime here that goes beyond denunciation. There is a sorrow here that weeping cannot symbolize. There is a failure here that topples all our success. The fertile earth, the straight tree rows, the sturdy trunks, and the ripe fruit. And children dying of pellagra must die because a profit cannot be taken from an orange. And coroners must fill in the certificate—died of malnutrition—because the food must rot, must be forced to rot.
The people come with nets to fish for potatoes in the river, and the guards hold them back; they come in rattling cars to get the dumped oranges, but the kerosene is sprayed. And they stand still and watch the potatoes float by, listen to the screaming pigs being killed in a ditch and covered with quick-lime, watch the mountains of oranges slop down to a putrefying ooze; and in the eyes of the people there is the failure; and in the eyes of the hungry there is a growing wrath. In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.” (Chapter 25)

E' forse la seconda grande presa di coscienza collettiva (dopo la guerra di Secessione e che precede l'esperienza della Seconda Guerra Mondiale e della guerra del Vietnam) cui il popolo americano è stato chiamato, una sorta di trauma che ha lasciato profondi segni nella società americana. Una famiglia (cuore pulsante e simbolo di questa società) come quella dei Joad è al centro di questa storia e Tom è l’eroe, il cavaliere che ritorna alla sua patria per mettere in salvo i suoi cari e ripartirà alla fine della vicenda verso una destinazione ignota.


Tom, vera figura epica del racconto, si trova al centro di una ideale croce che lo riporta a casa, quel luogo natio che pare abbandonato da dio.


Tom chiede un passaggio ad un camionista che sul momento non vuole saperne di aiutare uno sconosciuto. Una targhetta apposta sul parabrezza dichiara esplicitamente che nessun estraneo è gradito a bordo, ma Tom insiste affermando che starebbe fresco se dovesse seguire tutte le indicazioni delle targhette esistenti.


E’ un cenno ,ma significativo, all’idea che l’insieme delle regole, anche statali, impedisca un clima di solidarietà tra le persone. Siamo già ad un primo incrocio tematico che vedremo sviluppato nel corso del film: il sistema americano e capitalistico in generale impediscono, per loro natura, l’adesione a dinamiche di apertura solidale, incentivando, invece, la concorrenza e la chiusura egoistica. I Joad, che provengono da un mondo contadino e comunitario si trovano, loro malgrado, catapultati in una realtà che li trova impreparati ed indifesi. 


Nelle lande deserte di casa sua Tom incontra Casey, il reverendo in crisi di identità e di fede in un contesto ambientale tenebroso, tempestoso, in un luogo delimitato dal filo spinato che porta con evidenza i segni della morte, la morte di un mondo quello della famiglia contadina che conduce i poderi a mezzadria da più di un secolo.



E gli uomini si muovono tra quelle lande come ombre, fantasmi (“Io non sono che un fantasma senza pace” dirà Tom Joad) destinati a scomparire, che si avvicinano ad un luogo tombale.



Uomini senza volto impongono lo sfratto alle vittime di un sistema che li sta stritolando e che si incarnerà nelle macchine infernali, nei mostri trattori che provvederanno alla distruzione della proprietà.



Il vento spazza quella terra avvolta da una tenebrosa atmosfera apocalittica che è perfettamente riprodotta grazie alla fotografia di Greg Toland, ispirata all’espressionismo e alle soluzioni visive care ad Eizenstein.



Soltanto nell’ultima riunione della famiglia Joad attorno al focolare domestico vi è uno spiraglio di luce. La famiglia è veramente una luce nelle tenebre e la madre ringrazia dio per il ritorno del figlio; si ricorda ancora di dio in quella terra abbandonata dalla trascendenza.


Dodici persone salgono sul camion della speranza diretto alla California, terra promessa e prima di partire la madre raccoglie gli ultimi ricordi legati al suo mondo, alla sua casa. Tra questi, la foto della Statua della Libertà che significativamente la donna brucia: il sogno americano è messo seriamente in discussione. Per la madre, guida morale di una famiglia che vede all'improvviso perdere casa, terra e lavoro, è una vera e propria crisi di identità che si materializza nella sua immagine riflessa nello specchio offuscato.




La partenza dei Joad si connota con i toni allegri e trionfalistici di una avventura che prende il via sulla route 66, mitica, e altrettanto miticamente pare riproporre l’epopea della conquista del West. La California come terra promessa è la meta del viaggio. Lo spirito americano dell’uomo che non si arrende e riparte accompagna i primi momenti del viaggio dei Joad. Ford dunque mantiene i toni del climax western per poi abbandonarli strada facendo di fronte al chiudersi del mito della frontiera soffocato dalle nuove logiche della civiltà capitalistica del Novecento.



Il nonno e la madre paiono introdurre i primi elementi di malinconica inquietudine (il nonno muore abbrancando una manciata di terra e Tom scrive un epitaffio carico di errori ed incertezze lessicali). Tutto ciò che vive è sacro, recita l’ex reverendo nella improvvisata benedizione sulla salma del nonno.



Il primo campeggio in cui si fermano i Joad diventa la prima tappa dell’apertura della famiglia alla più grande realtà sociale del Paese. Usciti dal guscio dell’Oklahoma e della loro terra felice, i Joad sono costretti a fare i conti con una realtà che non si presenta rosea come si aspettavano. Sicuri del sogno americano non possono credere di essere abbandonati alla sorte senza speranza.



Tracce di solidarietà nella sosta al grill dove un paio di camionisti offrono alla cassiera la cifra che questa aveva perso vendendo sotto costo del cibo ai Joad. La cameriera è sorpresa da quel gesto di carità compiuto da due “conducenti”.


I Joad proseguono il loro viaggio verso l’ignoto con quel cielo che, ogni volta, pare inghiottire la loro sovraccarica camionetta.



Alla frontiera con l’Arizona una guardia fa capire che non sono graditi in quello stato e che si sbrighino ad attraversarlo. Di fronte ad un ponte la famiglia Joad contempla le terre della California che si aprono dall’altra parte del fiume (sono sagome di spalle che rischiano di veder svanire la propria identità, o molto semplicemente l’immagine di tanti americani che, come loro, hanno compiuto quel viaggio della speranza).


E’ la terra dell’abbondanza, è la terra promessa, è l’America nell’America (una delle tante carovane fordiane che raggiungono la terra della rinascita). Cenni di riserve indiane lungo la strada, ma l’epopea della conquista del West è lontana. Un bagno ristoratore che diventa rito purificatorio all’ingresso della terra promessa.




Il contrasto con le bianche divise di due distributori è anche un confronto per inquadrare la condizione della famiglia Joad: “Sono bestie, un uomo non potrebbe vivere in quelle condizioni di miseria. Sono abituati”. Questi sono i commenti dei due “borghesi” invasi da quella branca di straccioni che si fatica ad identificare come umani. Sub umani, under mensch che cercano di sopravvivere nell’approssimarsi (inconsapevole e apparentemente distante) dell’avvento dell’uber mensch tedesco.


La famiglia deve attraversare il deserto, dice la figlia alla nonna moribonda. Quella traversata notturna è un altro passaggio obbligato per le terre della morte. Altre guardie si preoccupano che i Joad non abbiano piante o sementi con loro; i Joad non devono seminare, non devono e non possono mettere radici in quella terra solo apparentemente ospitale. Le torce che li illuminano, come fuggiaschi colpevoli che vengono raggiunti dalle guardie, sono un motivo costante nel dipanarsi delle vicende dei Joad e che accentua il senso di precarietà della loro condizione. 




La terra promessa si rivela ben presto per quello che è: un paesaggio bellissimo che nasconde una realtà drammatica, con baraccopoli che accolgono disperati da tutta l’America. Questo contrasto, di una terra fertile e bella e della miseria delle baracche, offre lo spunto per una riflessione morale che inchioda l'uomo, in particolare l'uomo novecentesco del capitale, alle proprie responsabilità: egli è l'unico colpevole delle sofferenze e delle miserie che produce. I Joad sono letteralmente assediati da bambini affamati, nel mezzo di un ammasso di tende, baracche e rifiuti. La madre difende l’idea di un senso di solidarietà che non si deve perdere.





L’arrivo dei procacciatori di lavoro dei proprietari terrieri e poi della polizia pone i poveri, come i Joad, di fronte al ricatto di un lavoro senza diritti, di opportunità senza futuro, di una giustizia che è prevaricazione e prepotenza del più forte. Tom, mentre la famiglia fugge dal campo, si sfoga con la madre: "la vita rende cattivi". Ma la madre lo invita a resistere perché ne va della sopravvivenza della famiglia. E’ un dilemma etico quello che vive il protagonista fordiano: l’adesione ad una visione utilitaristica della vita che passa per l’accettazione dell’esistenza come lotta per la sopravvivenza in cui i fini giustificano i mezzi, e la coerenza di una adesione a valori più alti ai quali non si può mai rinunciare. Tom ha un passato in carcere, è già un fuorilegge, ma la legge che lo ha condannato non pare difendere la giustizia, quanto piuttosto le ragioni dei più forti. La sua vena ribelle si fa ancora più forte.




Ma ecco improvvisamente il lavoro materializzarsi tra sceriffi armati fino ai denti, lavoratori sul piede di guerra, ranch sotto assedio e uomini (ombre sulle sagome dei Joad) che silenziosamente si incamminano per la raccolta delle pesche. L’ennesimo campo recintato, bambini spauriti che guardano attraverso le sbarre, in qualche modo si sta prefigurando quello che sarebbe avvenuto di lì a poco anche in Europa. Lo scatenarsi della società di massa pone problemi nuovi e drammatici alla comunità umana che reagisce innalzando barriere, perseguitando, selezionando, imprigionando (la logica dei campi di concentramento). E come reclusi vivono i Joad circondati da uomini in divisa muniti di manganello. Ci sono motivi che sinistramente ritornano nelle immagini che ci riportano agli anni che fecero seguito alla grande crisi del 1929.





L’incontro con il reverendo chiarifica ancora una volta il dramma etico che coinvolge Tom: è difficile sapere che cosa sia giusto in questa situazione ed è per questo che ho smesso di fare il pastore, perché un pastore deve sapere che cosa è giusto. Nelle parole di Casy tutte le contraddizioni di una società che costringe l’individuo a scelte che mettono in crisi i suoi principi e le sue convinzioni morali più profonde. La tentazione dell’agire machiavellico ed hobbesiano sono sempre dietro l’angolo. La fotografia contrastata con cui è inquadrato Casy conferma il dissidio interiore che turba i personaggi. Tom uccide per reazione e torna nel campo lager in cui calano le tenebre nel latrare sinistro di un cane (anche questa è una immagine evocativa di un’epoca).




In quel contesto la madre con dolore mette a fuoco la situazione: la famiglia si sta sfasciando, si stanno perdendo le certezze (la casa, il rispetto tra le generazioni) è in corso la dissoluzione di un mondo che la nuova società sta mettendo in crisi. E’ una sorta di piccola apocalisse in cui i pastori perdono la fede, i padri perdono il rispetto dei figli, le nuove generazioni crescono come animali senza principi e le relazioni interpersonali si dissolvono (la madre prega Tom di non lasciarla). I volti continuamente illuminati dalle torce confermano come i personaggi siano in una perenne condizione di fuga in un contesto ostile (i Joad vengono etichettati come vagabondi, profughi, disperati).




Improvvisamente i toni cromatici del film virano al bianco; i Joad sono arrivati in un campo governativo che pare una sorta di Eden, con acqua corrente, bagni puliti e una gestione democratica della struttura, ma è un Eden di breve durata perché la comunità locale si sta mobilitando contro questi profughi indesiderati. E’ una prefigurazione del welfare roosveltiano, quella scritta dipartimento dell’agricoltura in bella evidenza; sembra una buona (e banale) idea ma Tom avanza una domanda lapalissiana: perché ce ne sono poche di strutture così? E la domanda non trova risposta.




Uno non ha un’anima per se solo ma un pezzetto di una grande anima che comprende tutta l’umanità. Tom riprende le parole di Casy e ne fa un insegnamento da cui ripartire; l’abbandono della famiglia, vaticinato dalla madre, può essere l’occasione di una nuova esistenza aperta al mondo, alla lotta per una società più giusta. Tom diventerà un paladino della giustizia, un cavaliere che è tornato per poi ripartire, un cavaliere solitario nel solco della tradizione western tanto cara a Ford. Tom abbandona la famiglia e si incammina in un orizzonte indefinito con un campo lunghissimo che accentua la minutezza della sua sagoma spersa per il mondo.




Nel controfinale i Joad lasciano il campo in cerca di un nuovo lavoro e la madre rinfranca il marito sulla forza di affrontare la vita che non deve mai venire meno, in un afflato di ottimismo molto fordiano (in linea con il rinnovato entusiasmo portato dal New Deal) e distante dallo straziante finale del romanzo di Steinbeck che si chiudeva con la figlia che aveva perso il bambino che portava in grembo e che allattava un disgraziato (come i Joad) trovato morente all’interno di una baracca.



Furore rappresenta, al meglio, il senso di profondo turbamento che la crisi del 1929 indusse nel sistema sociale occidentale, la prima vera presa di coscienza dei limiti del sistema stesso e delle conseguenze nefaste potenzialmente insite negli ingranaggi del capitalismo.
Immagine che ha ispirato il finale tragico di Steinbeck, finale che propone una logica della carità e della solidarietà, frutto dell'iniziativa personale e che va contro la logica dominante del mondo descritto nel suo romanzo.