martedì 17 dicembre 2013

Strade perdute

Strade perdute


Titolo originale Lost Highway
Paese di produzione: USA, Francia        Anno: 1997
Durata: 135 min    Genere: thriller psicologico, drammatico
Regia: David Lynch
Soggetto: David Lynch e Barry Gifford    Sceneggiatura: David Lynch e Barry Gifford    Fotografia: Peter Deming   Montaggio: Mary Sweeney    Effetti speciali: Philip Bartko   Musiche: Angelo Badalamenti     Scenografia: Patricia Norris
Interpreti e personaggi
Bill Pullman: Fred Madison    Patricia Arquette: Renee Madison / Alice Wakefield     Balthazar Getty: Peter Raymond Dayton    Robert Loggia: Sig. Eddy / Dick Laurent    Jack Nance: Phil    Richard Pryor: Andy    Robert Blake: uomo misterioso    Michael Massee: Andy    Natasha Gregson Wagner: Sheila

Il film di Lynch è un labirinto apparentemente inestricabile, per il Mereghetti addirittura senza un vero nesso logico e volutamente criptico, una sorta di gioco che l'autore compirebbe con lo spettatore prendendolo fondamentalmente in giro; qui proveremo a renderlo meno ostico di quanto possa rivelarsi ad una prima visione. Sostanzialmente il film, a mio avviso, si rivela come l'allucinazione di un uomo, pronto alla esecuzione sulla sedia elettrica, colpevole di aver ucciso la moglie in preda ad una ossessionante e paranoica gelosia costruita sul sospetto che lei lo tradisca con due strani personaggi, Dick Laurent ed Andy.

 

La trama, pur nella sua contorsione, ha tratti comuni con La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, non fosse altro che per la protagonista che si sdoppia in una versione rossa e in una da vamp con i capelli biondi.
Fred (Bill Pullman) è sconvolto, sta fumando una sigaretta al buio. Il campanello suona e una voce dal citofono lo avverte che Dick Laurent è morto.

 

Il marito Fred (richiama il Freud a cui Lynch sicuramente si ispira) se ne va al club e la moglie, la rossa Reneè (Patricia Arquette), non lo segue e resta a casa a leggere. "Puoi svegliarmi quando torni se ne hai voglia" gli dice la moglie, ma il marito sembra consumare le sue energie sul sax (sublimazione del sesso). Eppure Fred è geloso e prova a telefonare a casa, ma nessuno gli risponde, confermando i suoi sospetti. Al suo ritorno la moglie dorme.

 

La donna trova una videocassetta di fronte alla porta, è dentro una busta anonima; insieme al marito guarda la videocassetta alla tv; le immagini contenute sono le riprese in esterno della casa; lei afferma che potrebbe essere la pubblicità di una agenzia immobiliare, la sensazione dello spettatore è che siano immagini rubate ed inviate da qualcuno che li sta spiando.

 

Fred, tormentato dal tarlo della gelosia, prova a possedere la moglie sul talamo nuziale, che è lugubremente nero, come le unghie della donna (il nero che richiama alla morte della passione?), ma  l'eccitazione svanisce e l'amplesso non si conclude. 

 

Fred racconta di un incubo e vive un incubo: facendosi strada nel buio, vede sua moglie sul letto, ma si rende conto che quella non è sua moglie ("Sembravi tu ma non eri tu" ammette Fred); è l'allusione allo sdoppiamento successivo della donna e al motivo dell'identità incerta ed indefinita.

 

Un'altra cassetta è recapitata alla coppia e le immagini sono ancora più esplicite: qualcuno ha filmato in casa loro mentre Fred e sua moglie dormivano.
Alla festa di Andy, l'uomo che Fred immagina sia l'amante di sua moglie, si materializza una sorta di fantasma (amico di Dick Laurent) che dice di essere a casa sua in quel momento (che sia la materializzazione della sua gelosia, il fantasma delle sue ossessioni che si incarna). 

 

Di ritorno a casa, Fred si perde letteralmente nel buio, in un corridoio tenebroso al termine del quale vede se stesso riflesso in uno specchio; la moglie si addentra in quel buio ma non lo trova. Fred è ormai chiuso dentro le tenebre della propria ossessione.
La terza videocassetta ci conduce nell'inferno di Fred di fronte all'omicidio che ha commesso, uccidendo la moglie. 


 

Rinchiuso in carcere, in attesa della sedia elettrica, Fred rivive i flash del delitto che ha commesso mentre un male (una emicrania che allude alla mente che produce immagini malate) inspiegabile lo attanaglia e lo tormenta. I carcerieri, al pari dei detective in precedenza (uno di loro, indagando sulla videocassetta, aveva chiesto maliziosamente a Fred se il letto che aveva mostrato loro era quello in cui dormiva insieme alla moglie, quasi sorprendendosi che ancora i due dormissero insieme) paiono figure grottesche, caricaturali, particolarmente ostili nei confronti di Fred e dunque potenzialmente frutto delle sue allucinazioni persecutorie (tutti i personaggi, in pratica, sembrano seguirlo, tormentarlo, spiarlo, deriderlo). 

 
 
 
 

In preda a profonde emicranie, Fred si trova catapultato in una dimensione parallela, in cui il tempo sembra correre alla rovescia (la casa infuocata che si spegne) e qui il sogno-incubo di una rivincita, o la rielaborazione per la rimozione del senso di colpa, si fanno più forti e presenti. E' la dimensione della strada perduta. 

 

La seconda parte è proprio letteralmente l'immersione nella dimensione di questa emicrania che produce un mondo parallelo dal quale emerge un doppio di Fred, Peter Dayton, giovane diciannovenne di Los Angeles (ladro d'auto), che si trova inspiegabilmente in cella al posto suo, quel Peter che sembra essere emerso dall'inconscio di Fred. Scopriremo lentamente che Peter è la proiezione ideale di Fred, un giovane aitante, sessualmente attivo e poco incline alla musica (spegne la radio che la trasmette perchè infastidito), proprio il contrario di Fred sensibile musicista, timido ed impotente sessualmente.


 

Peter esce di prigione e rientra nel proprio mondo, dove è meccanico di automobili, in preda ad amnesie sul proprio passato. Condotto da un tipo losco sulla sua Mercedes per aggiustare un guasto, si trova testimone di un pestaggio di un malcapitato automibilista che ha incrociato la loro macchina. Il tipo losco è, secondo gli agenti che pedinano Peter, Dick Laurent (da notare l'insistenza sui dettagli degli stemmi delle marche automobilistiche, Ford, Mercedes...). 

 

Peter, come Fred, si trova nel buio della propria casa di fronte ad uno specchio, la ferita sul volto è sparita.

 

La fidanzata di Peter, Sheila, ha le unghie nere come la moglie di Fred e nera è la Cadillac che si presenta in officina, guidata da Dick Laurent, su cui si trova una donna bionda, Alice, che è gemella (ideale, la donna che visse due volte) della moglie di Fred. 

 

Peter, che ha la stessa emicrania di Fred, dovrà occuparsi di questa potente macchina (nel doppio senso di automobile e di donna, tanto che un compagno di lavoro di Peter, rivedendola esclama: che carrozzeria ragazzi!). Alice è aggressiva e vorace, diretta, sensuale e attiva e consuma notti di sesso con Peter ("Quel bastardo vede più figa di una tazza del cesso", esclama uno dei detective che lo pedina) in motel di secondo ordine con stanze, la numero 9 in particolare, a dominanza rossa (la passione). 
 


 
Ma Peter ha un vuoto su un episodio chiave del suo passato, un fatto di sangue che la sua mente non riesce a mettere a fuoco (rimosso e sotterraneo come il putridume che si nascondeva sotto la terra a Lumberton in Velluto Blu). Alice racconta di sé e costruisce una immagine di donna vittima della prepotenza di Dick che Peter dovrebbe salvare e condurre via. Andy, l'organizzatore di festini (a cui già aveva partecipato anche Fred con la moglie), sarà l'uomo tramite il quale Alice verrà liberata.

 
 

Peter è chiamato da Dick e questi è in compagnia del fantasma che Fred aveva conosciuto alla festa di Andy; è una telefonata minacciosa che compone il quadro di un cinico signore feudale che tiene imprigionata una fanciulla da liberare. Peter si reca a casa di Andy nella quale trova un telo su cui è proiettata una scena pornografica che ha per protagonista Alice. 

 

Andy compare, seguito da Alice in lingerie. Peter uccide l'uomo. Sulla comodina del salotto, tra le altre, una foto ritrae Andy e Dick che sono abbracciati alle due donne del sogno-realtà, la rossa e la bionda. 

 

Quello che sta vivendo Peter sembra di nuovo un incubo, in cui Alice non è affatto vittima, ma manipolatrice astuta (lei lo minaccia con una pistola dopo che Peter ha ucciso Andy). Dove cazzo andiamo? chiede Peter ad Alice percorrendo le strade perdute e notturne del titolo e lei sibillinamente risponde: Verso il deserto (verso il nulla, il dissolvimento dove si risolvono vendette e desideri). 

 

Perchè hai scelto me? Chiede Peter ad Alice prima di possederla un'ultima volta di fronte ai fari accesi dell'automobile. Tu non mi avrai mai, sussurra Alice all'orecchio di Peter abbandonandolo nudo nel deserto.

 

Ma colui che si alza nudo, novello Adamo ripresosi dallo stordimento indotto in lui dalla tentatrice Eva, è di nuovo Fred (la targa della macchina è assonante col nome di Alice, AYS, di nuovo l'oggettivazione macchina-donna) e segue il proprio fantasma che lo invita ad entrare nella capanna in cui si è rifugiata Alice.

 

Qui Fred si trova di fronte al fantasma che lo riprende con una videocamera, lo mette ulteriormente a nudo e gli chiede chi egli veramente sia, quale sia il suo nome; anche Alice non è colei che dice di essere, ma il suo vero nome è Reneé. Di nuovo le strade a ritroso verso la verità: la moglie è con Laurent in un letto d'albergo (nell'albergo STRADE PERDUTE) e qui Fred giunge con la sua ira vendicatrice ed uccide l'uomo (l'assassinio avviene però di fronte alla capanna che si infuocherà, nello spazio onirico per antonomasia; Fred deve uccidere due volte Dick e la seconda volta riceve un coltello dal fantomatico fantasma).




 

Laurent è colui che organizzava festini, orge e rappresentazioni pornografiche cui partecipava la moglie e che poi erano proiettate nella villa di Andy, in un clima di satanismo e depravazione (a queste partecipa anche, come personaggio-attore, un riconoscibile Marilyn Manson che è autore di diverse musiche della colonna sonora).


 
Gli agenti indagano sulla morte di Andy e trovano la foto della moglie di Fred con Laurent ed Andy (di Alice nemmeno l'ombra). 

 
Fred, tornato a casa, può citofonare che Dick Laurent è morto; gli agenti lo seguono e lui fugge verso quelle strade perdute dell'incipit, strade che lo conducono alla morte sulla sedia elettrica cui le ultime urla e convulsioni del protagonista alludono. Proviamo a riavvolgere il nastro e fare ulteriore chiarimento.




Fred è inseguito dalla polizia, siamo su una delle strade perdute cui allude il titolo.  Poniamo che Fred nel finale stia bruciando sulla sedia elettrica (come sembrerebbe avvenire nell'abitacolo dell'automobile), ecco che tutta la seconda parte del film si potrebbe rivelare come una sua allucinazione (o, più realisticamente, un suo modo di rielaborare quanto ha commesso, immaginando che a compiere gli omicidi sia stato un altro e dunque operando una sorta di rimozione della colpa), simile per certi versi alle dinamiche narrative già viste in Allucinazione perversa di Adrian Lyne (nel quale però il protagonista era già morto), allucinazione, o rielaborazione, di un uomo che sta per morire (analoga struttura ha mostrato nel suo complesso, successivamente, la serie Lost). 

 

Una ipotesi narrativa del genere scioglie alcune incongruenze che compaiono nella seconda parte della vicenda. La donna bionda, sensuale e provocante è la moglie che Fred inconsciamente desidera, di contro alla donna, Reneè che con la sua freddezza e il suo ambiguo distacco lo teneva a distanza nella prima parte. Divenuta una vera e propria macchina da sesso (probabilmente una proiezione interiore di Fred) conquista con la forza l'uomo, il nuovo Fred, ora Peter. Non è un caso che, proprio come ogni desiderio irrealizzabile, la donna, una volta posseduto l'uomo, gli confidi che lei non sarà mai sua. Il sogno, a quel punto, può finire, Fred può tornare se stesso ed abbandonare Peter, compiere l'ultima vendetta virtuale nei confronti della moglie asessuata e probabilmente fedifraga, e morire tra i tormenti della sedia elettrica.

 

L'uccisione di Laurent e del ricco viveur festaiolo, Andy, sono le vendette, oniriche, virtuali, oppure veramente realizzate ma rimosse (non a caso le compie Peter, il suo doppio che viene scarcerato dopo essere stato trovato al suo posto in cella), verso coloro che hanno avuto l'ardire di abusare dei piaceri offerti dalla moglie che rimane la vera, unica presumibile, vittima della furia assassina di Fred (nella foto del finale, una volta scomparsa la bionda sensuale, resta l'algida rossa tra i due "morituri" e la foto confermerebbe i sospetti di Fred).

 

A condurre il gioco delle vendette (virtuali) è una sorta di deus ex machina, una sorta di alter ego di Fred, un fantasma, sempre pronto a riprendere e filmare ogni momento che lo riguarda (Fred odia le videocamere). Che questo personaggio sia frutto della mente di Fred lo dimostra il colloquio alla festa (nella prima parte del film) che si svolge in un clima di surreale ubiquità di questo strano personaggio. Egli è, in definitiva, l'uomo che abita la casa del tempo (la mente di Fred) che torna indietro (la casa che brucia va pian piano spegnendosi) e non è un caso che i conti si saldino proprio lì, nel territorio inconscio per antonomasia, quello cioè che contiene la memoria del passato, del tempo che si vorrebbe riportare indietro (poco prima che Fred cambi pelle in prigione, egli sogna proprio questo luogo in cui ha inizio il suo incubo, in cui mescola memoria, pulsioni, desideri e paure, oggettivandoli nella moglie-puttana).

 

Il compiersi o il rielaborarsi di una vendetta onirica spiega la seconda parte del film nel quale le strisce gialle di una strada notturna segnano lo scandire di un tempo allucinato e allucinatorio (in questo senso l'immagine ci riporta al Seme della follia di John Carpenter). La prima parte del film, immaginifica e visivamente straordinaria, lascia invece aperte diverse porte all'interpretazione riguardo la morte di Reneè (la moglie di Fred). E' veramente il marito l'assassino, oppure Dick Laurent, amante invisibile e geloso? 

 

Sulla gelosia di Dick Laurent, Lynch costruisce tutta la seconda parte del racconto che, proiettando nella figura della bionda Alice, la rossa Reneé della prima parte, potrebbe rivelarsi anche come una ri-costruzione ipotetica ed onirica di Fred su ciò che è avvenuto prima della notte della morte della moglie (una sorta di spostamento onirico di personaggi e luoghi e la stessa gelosia di Laurent è la proiezione di quella di Fred). Se prendiamo per realistica tutta la prima parte, l'assassino potrebbe essere lo stesso Fred, pensante ed enigmatico fin dalla prima inquadratura e quindi accecato dalla gelosia nel suo folle gesto di morte. La cassetta potrebbe averla girata lui, e non l'ipotetico fantasma (suo personale mr. Hyde) che la sua mente ha creato e che lo aiuterà, oniricamente, ad eliminare anche Dick  ed Andy. La voce, che sentiamo al citofono e che afferma che Lorraine è morto, sembra, nel primo caso, quella del fantasma, mentre nel sogno è lo stesso Fred ad annunciarla (a se stesso?) quasi con enfasi e soddisfazione come se si avverasse quel desiderio di veder morire l'amante della moglie (i sospetti di Fred sono confermati da flash sui primi piani di lui che sembra quasi vedere queste ombre).


 

La mia personale scansione cronologica riordinata è:
Gelosia di Fred
Omicidio di Reneé (e, se seguiamo la direttrice più realistica, dei due uomini con cui Reneè tradiva Fred)
Incarceramento e condanna di Fred
Visioni ed allucinazioni, desiderio di morte (o rielaborazione degli avvenuti assassinii) dei suoi antagonisti, amanti di Reneè, Dick ed Andy
Morte sulla sedia elettrica

venerdì 13 dicembre 2013

L'età dell'innocenza

L'età dell'innocenza

A metà strada tra due capolavori (dal romanzo al film)

Regia: Martin Scorsese
Titolo originale The Age of Innocence
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 1993     Durata: 139 min
Genere: drammatico, sentimentale
Soggetto: Tratto dal romanzo di Edith Wharton, L'età dell'innocenza, edito nel 1920
Sceneggiatura Jay Cocks, Martin Scorsese
Produttore: Barbara De Fina, Bruce S. Pustin   Fotografia: Michael Ballhaus   Montaggio: Thelma Schoonmaker   Musiche: Elmer Bernstein, Charles Gounod, Johann Strauss   Scenografia: Dante Ferretti, Robert J. Franco, Amy Marshall   Costumi: Gabriella Pescucci
Interpreti e personaggi:   Daniel Day-Lewis: Newland Archer   Michelle Pfeiffer: Contessa Ellen Olenska   Winona Ryder: May Welland   Alexis Smith: Louisa van der Luyden   Geraldine Chaplin: Sig.ra Welland   Mary Beth Hurt: Regina Beaufort   Alec McCowen: Sillerton Jackson   Richard E. Grant: Larry Lefferts   Miriam Margolyes: Sig.ra Mingott   Robert Sean Leonard: Ted Archer   Siân Phillips: Sig.ra Archer   Jonathan Pryce: Rivière   Michael Gough: Henry van der Luyden   Stuart Wilson: Julius Beaufort   Joanne Woodward: Narratore

L'età dell'innocenza di Martin Scorsese è tra i film più aderenti e fedeli ad un testo letterario che la storia del cinema ricordi. La assoluta fedeltà al romanzo non ha però impedito a Scorsese di innestare qua e là temi e motivi tipici del suo cinema, tanto che, per certi versi, L'età dell'innocenza è il contraltare romantico e romanzesco del suo cinema violento e sanguinario ed è la naturale appendice del suo Gangs of New York con cui conclude un ideale dittico dedicato alla città della Grande Mela del secolo diciannovesimo (le gang sono qui sostituite dalla tribù, termine che torna con ricorrenza a definire la buona società di New York) .

 

L'età dell'innocenza è probabilmente da riferirsi non ad un epoca particolare della vita di un uomo, ma, nel suo complesso, alla ingenua e giovane (in senso storico, se paragonata ad esempio alla società nobiliare europea) società newyorchese della seconda metà del Diciannovesimo secolo, una società rigida ed invalicabile, ma destinata ad essere soppiantata da una ben più aggressiva e impetuosa civiltà capitalistico borghese. L'inizio del romanzo della Wharton è in questo senso emblematico: "...Sebbene si cominciasse già a parlare dell'edificazione, in remote metropolitane lontananze "oltre la Quarantanovesima", di un nuovo Teatro dell'Opera, che avrebbe gareggiato per dispendio e splendore con quelli delle grandi capitali europee, il mondo elegante era comunque soddisfatto di riunirsi ancora ogni inverno nei frusti palchi rosso e oro dell'affabile, vecchia Academy. I conservatori le erano affezionati perché essendo piccola e scomoda teneva a distanza la "gente nuova" che New York cominciava a paventare pur continuando ad esserne attratta..."

 
Si respira l'aria di una città in cambiamento, in mutazione non solo generazionale ma anche genetica, nei modi e nei costumi, che cerca di uniformarsi alla vecchia Europa. Le vecchie famiglie di New York, che la Wharton spesso definisce come tribù, sembrano arroccate in un sistema chiuso ma destinato inesorabilmente ad essere sovrastato. La loro meschina ipocrisia, il malcelato perbenismo, lo spietato moralismo di stampo puritano (aleggia su quel mondo una atmosfera quasi mortuaria, le case sono quasi come musei dentro cui i personaggi sono fermi, immobili, ingessati, quasi si confondono con i ritratti che adornano le pareti come sottolinea, ad esempio, la voce off parlando della casa dei van der Luyden: "I van der Luyden vivevano al di sopra di tutte le altre famiglie della città in una sorta di crepuscolo ultraterreno") segnano quel mondo nel quale una sorta di straniera, o meglio di aliena, prova a reinserirsi. 
 
 

Ellen Olenska, l'aliena appunto, proviene proprio da quell'Europa che pare più emancipata, una Europa dai pericolosi e disinibiti costumi sociali di cui la contessa, separata dal marito, è l'emblema vivente (e sentita come una pericolosa avanguardia di un batterio ben più temibile, per la sua capacità di contaminazione di un mondo come quello della baia di Hudson). 
  
 

Nella New York del piccolo teatro si muovono figure come quella del banchiere Beaufort, un personaggio secondario solo in apparenza nella trama della Wharton. Egli incarna lo spirito imprenditoriale, l'audace sfrontatezza di certa borghesia che va costruendo nuove fondamenta economiche su speculazioni non sempre corrette e pulite. Ma è proprio con Beaufort che la contessa Olenska sembra avere un rapporto privilegiato ed è proprio il banchiere, che fallendo sembra uscire dal giro che conta, che nel finale mostra di aver raggiunto quella posizione e quel successo che parevano essergli stati preclusi per sempre (tanto che il figlio di Archer sposerà la figlia di Beaufort). Beaufort è l'altro germe del cambiamento (che cresce all'interno) che si annida nella buona società newyorchese: egli passava per un inglese, dalle origini misteriose e dai costumi dissoluti, dice la voce off, e la sua era l'unica sala da ballo privata di New York (in cui si ballava l'europeo valzer)...la casa era stata concepita in modo audace... vi erano quadri altrettanto audaci e tra questi un nudo che sfidava le convenzioni e il conformismo. Guardato con diffidenza ed emarginato per i suoi imperdonabili errori, rientra alla fine dalla porta di servizio.  

 

Ellen ha affinità con quell'uomo (non solo, ha anche affari e interessi economici in ballo con la sua banca), probabilmente una relazione (Newland li trova insieme a casa di Ellen e nel dialogo che segue sia Beaufort che la Olenska sottolineano la povertà culturale ed artistica di New York e l'abisso che la separa, in questo senso, dall'Europa), ma Newland Archer non sa districare la matassa (per quanto si ponga come difensore della buona reputazione della donna) e cogliere le coordinate di un mondo che per lui resta estraneo, pur affascinandolo (ammette di amare i musei europei ed è attratto dai quadri scandalosi di casa Beaufort).
 
 
Scorsese non evidenzia subito l'aspetto sociale, ma, fin dai titoli, sottolinea la dimensione esistenziale della vicenda. Quei fiori che sbocciano e brillano con i loro forti colori ( Il rosso caratterizza il dolore inespresso, la carica sentimentale di Newland verso Ellen Olenska, ma anche la passione sanguigna che lo tormenta, aggiungo io; lo specchio di tali pulsioni sono gli abiti e il colore delle pareti di casa della contessa.

 
Il giallo, specifico di Olenska, è il colore della felicità, della vivacità, della disinibizione e dell'isolamento a cui la donna sarà destinata; anche lo specchio d'acqua su cui la sua immagine risalta mentre viene osservata da Newland è dorato, inoltre pure le rose che quest'ultimo invia a casa di lei sono dorate, infine gialle sono le tende dell'appartamento parigino delle quali Archer rievocherà l'immagine di una occasione mancata.

 
Il bianco è il colore della totalità, aristocratico, dalla natura ambigua, poiché può essere definito come l'unione di tutti i colori o non-colore, è il colore di May e anche dei fiori a lei legati, i mughetti.), alludono alle passioni e ai sentimenti che la vicenda racconta, ma la trama di un merletto sembra imprigionare quelle immagini (incrociate con quelle di pagine finemente scritte e dunque allusive del mondo letterario della Warthon che in qualche modo cercano di evocare), alludendo alla rete di convenzioni e formalismi di cui proprio quei sentimenti rimangono vittima (e di Newland che compare nel palco a teatro che assiste al Faust, il primo dettaglio che vediamo è il fiore, bianco e dunque incolore, all'occhiello della giacca). 
 


 

E' in un secondo momento che Scorsese, dopo aver fatto la propria comparsa, in un breve cameo, come fotografo di May, ci offre uno sguardo sulla New York che va cambiando e va modificandosi. 

 

Se in precedenza avevamo visto la villa dei Mingott, isolata e circondata dal fango che sembrava un'isola in un territorio ancora da colonizzare e costruire (la casa con una facciata dal discutibile color crema, afferma la voce off, che nello stesso tempo sottolinea però come quella sia la dimora di colei che possiamo ritenere l'imperatrice della New York di quegli anni, la signora Mingott, la quale sembra veramente come incollata ad un trono, nella sua imponenza un po' goffa, sulla poltrona invasa dai suoi cani),


verso la fine della vicenda vedremo New York come cantiere in costruzione e Scorsese ci offrirà una sequenza apparentemente gratuita di uomini tutti uguali (caratterizzati dalla bombetta tipicamente borghese) che camminano, affollando le strade di New York, tenendo i cappelli stretti sulla testa, tutti volgendo verso la stessa direzione. E' l'allusione alla nascente società di massa che sta letteralmente invadendo quel territorio, in parte ancora vergine, e sta per spazzare via la vecchia e stantia società tribale delle grandi famiglie.
 

 

La Wharton a più riprese parla di New York come di una realtà piccola, dalla dimensione quasi provinciale nella quale le poche famiglie che contano sanno tutto le une delle altre. E' una sorta di fortino che sta per essere assediato e le donne come madame Olenska sono le avanguardie (di ritorno ma infettate dal germe della corrotta società europea), per questo temute, colpevoli del suo possibile sgretolamento (e lei sale le scale del suo primo ufficiale inserimento nei salotti bene con uno scintillante vestito rosso tra ritratti di ogni tipo che sembrano osservarla e che lei guarda con una certa diffidenza e la voce off sottolinea la sua estraneità a quel mondo: "L'occasione era solenne e la contessa Olenska arrivò con un certo ritardo denotando una negligenza della quale era del tutto inconsapevole!"

 

Non solo, ma nel salotto il suo rosso scintillante contrasta con il nero mortuario di coloro che la circondano e lei compare spesso di spalle, puro oggetto da osservare. May giunge al ricevimento in ritardo con il suo abito bianco virginale che contrasta con il passionale rosso della Olenska. In seguito la contessa, sola con Newland, ammetterà che la propria dimora, arredata in modo insolito per i gusti newyorchesi, è sicuramente meno tetra di quella dei van der Luyden).

 

Così nel capitolo 27 la Wharton parla a proposito della notizia del fallimento della banca di Beaufort: "New York era inesorabile nel condannare le irregolarità in affari. Mai vi erano state eccezioni alla tacita regola che chi infrangeva la legge della rettitudine doveva pagare; e tutti quanti sapevano che anche Beaufort e la moglie di Beaufort sarebbero stati risolutamente sacrificati a questo principio. Nondimeno essere costretti a sacrificarli sarebbe stato non soltanto penoso ma fastidioso. La scomparsa dei Beaufort avrebbe lasciato un vuoto considerevole in quella piccola ma compatta cerchia...".
Piccola cerchia, sacrificio, la Wharton ancora una volta sottolinea il carattere tribale e chiuso  di quel mondo.
 
 

La sensazione di fine di un'età si materializza in Newland in un bisogno di fuga, fuga romantica dalla realtà, ma anche fuga fisica, desiderio di viaggiare lontano verso l'ignoto. Egli che è inconsapevolmente figlio di quel mondo, ma che ha anche aspirazioni diverse, sebbene vaghe ed indefinite, aspira ad una terra che in qualche modo gli garantisca la permanenza in uno stato di ovattata innocenza; non è un caso che legga libri sul Giappone, ma sul Giappone feudale, arcaico, leggendario, un Giappone che gli offrirebbe un salutare e rassicurante ritorno al passato, alle vecchie tradizioni (dei Samurai), permettendogli il passaggio da un mondo feudale (in fondo che cos'è quella villa in mezzo al fango dei Mingott se non un castello?) ad un altro.


 

Newland è, in sostanza, un personaggio che materializza il tormento di un mondo in cambiamento in un tormento interiore e romantico; è colui che coglie sempre in ritardo le implicazioni delle proprie azioni e i significati di quelle compiute da coloro che lo circondano (nel finale, a Parigi, lo vedremo allontanarsi dalla casa della Olenska, che non aveva avuto il coraggio di incontrare, e scomparirà dietro una macchina parcheggiata, quasi stonante in questo finale così carico di poesia, che diventa presenza simbolica di un mondo modernizzato che sembra cacciare Newland e le sue illusioni in un angolo sperduto ed invisibile).
 

La cena d'addio ad Ellen è un piccolo capolavoro di descrizione di un mondo che si libera della potenziale untrice per salvare il fortino. L'uso di una lessico che semanticamente ci riporta ai motivi della guerra, ci dice di come quella cena sia in realtà l'ultima battaglia che le famiglie newyorchesi devono intraprendere per cacciare il nemico, l'invasore, esorcizzando il timore di una capitolazione. Scorsese non si è lasciato sfuggire un così raffinato tessuto linguistico ed ha accompagnato quelle immagini di serafica serenità con la voce off che, in contrasto, scandisce quello che poteva apparire come un bollettino di guerra: "Mentre il suo (di Archer ndr) sguardo si spostava da una placida faccia ben nutrita ad un'altra, vedeva tutta quella gente dall'aria innocua impegnata sulle anatre di May come una cricca di muti cospiratori, e se stesso e la pallida donna alla sua destra (Ellen ndr) come l'oggetto della congiura. E poi comprese, in un gran lampo fatto di frammentari barlumi, che per tutti loro lui e Madame Olenska erano amanti, amanti nel senso estremo peculiare ai vocabolari "forestieri"....capì che, con mezzi che gli erano tuttora sconosciuti, la separazione tra lui e la complice della sua colpa era stata raggiunta, e che adesso l'intera tribù si era adunata intorno alla moglie col tacito assunto che nessuno sapeva niente...Era il vecchio sistema di New York di privare della vita senza spargimento di sangue: il sistema della gente che teme più lo scandalo che la malattia, che pone la decenza sopra il coraggio...Archer si sentì come un prigioniero al centro di un accampamento in armi."

 

E Newland è la vera vittima di questo sistema. Una sorta di Madame Bovary al maschile che improvvisamente intravede lo squarcio di una avventura sentimentale forte e passionale, che intravede il barlume di un sogno romantico da realizzare, ma che rimane intrappolato dalle stesse tagliole che lui stesso ha contribuito a costruire (è lui che convince la cugina Olenska a non divorziare dal marito, è lui che chiede di accelerare il proprio matrimonio con May Welland). Se nel dipanarsi della descrizione di questo sogno impossibile da realizzare, la Wharton tesse una fitta trama di sottili analisi psicologiche e di stati d'animo dei personaggi, che spesso si evidenziano nel rossore delle guance (una sorta di topos che ritorna ciclicamente nei dialoghi tra i personaggi, composti, statuari e proprio per questo capaci soltanto di impercettibili manifestazioni di emotività), Scorsese, che fa un largo uso dei canonici campi e controcampi, specie nei dialoghi, gioca spesso sulla relazione posturale tra i protagonisti e insiste sul mostrare spesso i personaggi di spalle, rivolti verso orizzonti diversi, o incapaci di guardarsi negli occhi. 
 
 

 

In particolare è Newland che spesso vediamo volgere le spalle ad Ellen e viceversa, a partire dalla scena clou nella quale il giovane innamorato si augura che la donna, intenta a guardare l'orizzonte di fronte ad un faro sulla riva del mare, possa finalmente voltarsi verso di lui e dare quel segno che cambierebbe per sempre la loro vita (di fronte a Newland c'è l'immagine del sogno romantico con quella figura minuta, persa in un paesaggio che la sovrasta, e volta verso un indefinito orizzonte, come nella più tipica tradizione della pittura romantica).


 

Il sogno finale di Newland (ormai ultracinquantenne e vedovo) sotto la finestra di Ellen, tornata a Parigi ed ormai puro ricordo e non più presenza fisica (lui non vedrà che un maggiordomo chiudere le tende del suo appartamento, mentre il figlio andrà fisicamente a trovare la contessa), sembrerebbe finalmente sciogliere quell'impaccio che ha visto i due protagonisti darsi spesso le spalle, incapaci di convogliare lo sguardo su un'unica comune direzione.
 


 

Ma guardiamo anche all'incipit del film. Siamo al teatro dell'Accademia Musicale, si sta inscenando il Faust, nel momento cruciale del terzo atto in cui Margherita e Faust sono soli e rincorrono il loro sogno d'amore. Lei sfoglia la margherita e ripete il m'ama non m'ama di infantile derivazione (i due personaggi sul palco non si guardano negli occhi, lei dà le spalle a lui, come accadrà spesso tra Newland ed Ellen). 

 
 
Su queste note vediamo Newland nel proprio palco, con all'occhiello un fiore bianco carico di molteplici significati, seminascosto dalle figure, di due appartenenti al "clan", Lawrence Lefferts (che la Wharton descrive come "la principale autorità di New York per quanto concerneva la forma") e Sillerton Jackson (il quale "tra le strette tempie incavate, e sotto la morbida e argentea chioma, recava un registro della maggior parte degli scandali e dei misteri che si erano lentamente consumati sotto la superficie imperturbata del bel mondo newyorchese negli ultimi cinquant'anni.") che osservano col binocolo un palco lontano. 
 
 
Le tre figure che vi compaiono sembrano altrettante bambole inamidate, oggetti di sguardo e di pettegolezzo. Una in particolare emerge col suo vestito blu sgargiante; è la contessa Olenska che è oggetto di attenzione e sempre rimarrà tale senza mai divenire soggetto (se non per il breve spazio del loro amore, tanto forte quanto effimero e fuggitivo). 

 

Newland copre la distanza spaziale che lo separa da quelle figure e quando invade lo spazio dell'oggettualità si pone in modo che la contessa sia di spalle, posizione chiave che fondamentalmente manterrà in diverse situazioni del film. Sul palco Margherita sembra sfuggire a Faust e si pone di spalle rispetto a lui. La concordanza delle due situazioni è subito messa in evidenza. Quella esitazione di Newland che non bacia la mano di Ellen, sorpresa per l'apparente gesto di scortesia, ci dice che la donna ha modi che non si confanno con certe abitudini newyorchesi e dunque è fuori dai clichè e dai rituali consueti per quel mondo.


 
 
 

La voce fuori campo intanto sottolinea l'immobilità di quel mondo descrivendo la fuga della signora Beaufort (simbolicamente la prima ad abbandonare quell'ambiente come avverrà di fatto nel corso della vicenda per lei e il marito abbandonati al loro destino una volta che la loro banca fallirà) che lasciava  il palco del teatro prima della fine per andare a preparare il successivo ricevimento in casa sua: "La scena si ripeteva sempre identica, dice la narratrice, come del resto tutto a quel tempo" (ed un pizzico di nostalgia emerge da tali parole che pure descrivono ipocrisia e conformismo). 

 
 

Non dimentichiamo  che la storia di Ellen e Newland si chiuderà idealmente di nuovo di fronte al Faust, nuova rappresentazione teatrale in un ciclo che sottolinea la chiusura ritualistica di quel mondo, cui questa volta non partecipa la contessa, lasciando malinconicamente vuoto quel palco che all'inizio aveva riempito della sua particolare presenza.

 
 
 

Il sogno romantico di Archer rimane tale, invischiato nelle trame ciniche e spietate di coloro che lo circondano, a partire dall'apparentemente ingenua moglie; ma rimane tale anche perché Ellen non diventa mai soggetto, non è mai profondamente conosciuta e capita. Tutto il romanzo è narrato da un narratore onniscente che vede però gli avvenimenti dal punto di vista di Newland. Ellen è oggetto di sguardo e di sogno, è oggetto di desiderio e di proiezione romantica, ma non diventa mai persona, soggetto; ed è così che, certo in modo più chiaro nel romanzo che non nel film, viene il sospetto che Ellen non avrebbe mai potuto essere la donna giusta per Newland, troppo ancorato, ingenuamente ed innocentemente, ad un mondo che la contessa aveva non casualmente abbandonato (e in fondo che Ellen sappia muoversi con scaltrezza sulla sottile linea che definisce i confini tra simulazione, sincerità ed ipocrisia, lo si capisce nella bella e centrale sequenza del teatro, in cui si rappresentava The Shaughraun, allorché nel dialogo con Newland, sospeso in un silenzio irreale con i due protagonisti isolati da un effetto da film muto,

 

in cui fa capire di aver apprezzato l'omaggio floreale che questi gli aveva fatto recapitare, ella accortasi di aver oltrepassato i limiti di una comune decenza, ritorna nei propri ranghi e recita la parte formale ed ipocrita, ringraziando Newland di averle fatto cambiare idea sul divorzio;  recita confermata dal fatto che improvvisamente le luci del palco la illuminano come se fosse attrice tra gli altri attori; 

 
 

recita in seguito alla quale la donna imbraccia il binocolo e si mette ad osservare il palco come in precedenza avevano fatto gli uomini della "tribù" con lei, entrando dunque in sintonia piena con quel mondo ipocrita e perbenista. 
 
 

Fra l'altro ciò che va in scena è un'opera irlandese, The Shaughraun, il cui momento clou vede i due protagonisti darsi l'addio e sono anch'essi l'uno di spalle all'altro, e Newland si lascia prendere dalla commozione proiettando su quel momento parte dei suoi tormenti d'amore ancora inconsci. La Wharton volendo sottolineare la concordanza tra ciò che avveniva sul palco e quanto stava soprattutto nel cuore di Newland così scrive: "...In che cosa, allora, consisteva la rassomiglianza che faceva battere il cuore del giovane con una sorta di eccitazione retrospettiva? Era forse riposta nella misteriosa facoltà di Madame Olenska di suscitare possibilità tragiche e commoventi al di fuori del corso quotidiano dell'esperienza. Non gli aveva mai detto una parola in grado di produrre questa impressione, che però faceva parte di lei, fosse una proiezione dei suoi misteriosi ed esotici trascorsi o fosse qualcosa di drammatico, appassionato e insolito che le apparteneva"). 
 

 

La bella vita di Parigi non era stata probabilmente una prigione dorata, ma aveva visto la donna protagonista e padrona di sé, al punto che un personaggio come lo scrittore francese che arriva a New York per difendere gli interessi del conte, sia, sì pronto a suggerire il definitivo distacco di Ellen dal mondo precedente, ma non sappia sciogliere i dubbi di Newland sulla integrità del passato della donna (che dunque frequenterebbe Beaufort ed abiterebbe nel quartiere dei bohemiennes newyorchesi non perché vittima delle circostanze, ma perché perfettamente a suo agio solo e soltanto in quel contesto). Così la prima visita di Newland alla casa di Ellen è una sorta di scoperta di un mondo, che mai l'uomo comprenderà fino in fondo, un mondo che Ellen pone in contrasto con quello che lei ritiene lugubre e ingessato dei salotti di New York (pensiamo al primo approccio di Newland nella casa di Ellen e alla curiosità che suscitano in lui le opere, i quadri e gli oggetti che sono in esso contenuti; e pensiamo al museo in cui i due si troveranno in seguito, un museo inadeguato, provinciale, composto di opere la cui provenienza è addirittura sconosciuta, come nel caso di un oggetto ripreso emblematicamente in dettaglio, povero rispetto alla profonda soggezione che trasmettevano le opere portate dalla contessa dall'Europa, da quello che lei definisce il suo naufragio) . 
 



 

Scorsese sceglie di offrire di Ellen una visione il più aderente possibile alle proiezioni romantiche di Newland (a partire dalla scelta della rassicurante e docile bionda Pfeiffer che contravviene alla descrizione della Wharton che immaginava la donna come bruna: "una giovane donna snella, poco più bassa di May Welland, coi capelli bruni disposti in fitti riccioli sulle tempie e tenuti a posto da un sottile nastro di diamanti" così la descrive nella sua prima apparizione a teatro) limando talune ambiguità del romanzo che offrivano della contessa sfumature meno dolci e concilianti.
La comparsa di Scorsese segna uno spartiacque narrativo (circa la metà del film) sottolineato con raffinatezza da colui che imprime su pellicola le immagini (così si presenta a noi il regista come personaggio del film): il sogno di May si avvera, ella si sposa con Newland e così il loro destino sembra finalmente prendere corpo e "fissarsi" come la fotografia sulla lastra o l'immagine delle mani plasmate dallo scultore, o ancora gli oggetti che compongono l'insieme dei regali per le nozze. 


 

La vita sembra cristallizzarsi letteralmente, rimane come imbalsamata per sempre in immagini fisse (vedi l'insistenza sui quadri che accompagna il racconto della luna di miele in Europa; quadri che evocano una atmosfera d'epoca, ma che sono immagini fisse di un mondo, statiche e dunque innocue, e soprattutto fermano su tela la vorticosa vitalità di quell'Europa che la buona società newyorchese sembra emulare ma, allo stesso tempo, temere), 
 

 

la stessa May con l'abito da sposa è ferma, immobile, statuaria, chiusa nell'obiettivo della macchina fotografica. 

 

La stessa insistenza sulle immagini capovolte non fa altro che sottolineare la duplicità di quegli eventi che paiono felici, ma nascondono un risvolto della medaglia che resta imprigionato nel riflesso di un laghetto, come il cottage in campagna donato dai van der Luyden e che era stato luogo di felicità per Ellen e di speranza ed illusione per Newland ed ora dei novelli sposi 
 

 

(del matrimonio, che pure nelle pagine della Wharton occupa un intero capitolo, il diciannovesimo, nel film si hanno dei flash sui regali e le foto preparative, ma la cerimonia è completamente elusa; la voce fuori campo accompagna immagini di oggetti e luoghi; tra i regali da sottolineare un antico e prezioso merletto donato da madame Olenska, che evoca quel merletto che imprigiona i fiori dei titoli iniziali). Vittoria degli oggetti che vengono inquadrati con insistenza nel circolare movimento di macchina che racconta, in ellissi, 30 anni della vita di Newland, seguiti alla partenza della contessa, consumati tra le pareti di una casa-prigione (e di una stanza, in particolare, dove sono avvenuti i fatti concreti della vita di Newland), perfettamente arredata.

 

Nella cena finale madame Olenska è vestita perfettamente in tono con il resto degli invitati. Il rosso sgargiante della sua presentazione in società è divenuto il nero, quasi vedovile, ma coerente con gli abiti degli altri convitati. La donna è ormai vinta da quel mondo e, proprio per questo, pronta a lasciarlo. Per l'ultima volta Ellen volge le spalle a Newland, che la veste e la saluta. Nella carrozza la donna guarda davanti a sé non ricambiando lo sguardo di Newland; è questa l'ultima immagine reale che l'uomo avrà della donna amata. L'ultimo volgersi di Ellen verso di lui sarà semplicemente nell'illusorio, e pieno di rimpianto, sogno finale del protagonista.
 




 
 
Testo della scena dell'opera Faust (tratto dal libretto originale) che dà l'avvio al film e che ritroviamo rappresentata, una seconda volta, nel momento che l'amore tra i due protagonisti del film sta per chiudersi definitivamente.

Faust Terzo Atto



Margherita: Si è fatto tardi.Addio!
Faust (trattenendola): Come!T’imploro invano!Aspetta!Lascia
che la tua man dimentichi se stessa nella mia!
(inginocchiandosi dinanzi a Margherita)
Lascia,lascia ch’io contempli il tuo viso
sotto il pallido chiarore
con cui l’astro notturno, come attraverso
[una nube,
la tua beltà accarezza!
Margherita: Silenzio! felicità! ineffabile mistero!
Inebriante languore!
Ascolto e intendo questa voce solitaria
che canta nel mio cuore!
Lasciatemi un istante, vi prego!
(Si china e coglie una margherita.)
Faust: Che cos’è?
Margherita: Soltanto un gioco.
Scusate…un momento!
(Sfoglia la margherita.)
Faust: Che dice la tua bocca sottovoce?
Margherita: M’ama…Non m’ama…
M’ama...nonm’ama...M’ama...nonm’ama!...
M’ama!
Faust: Sì! credi a questo fiore dischiuso sotto i tuoi
[passi!
Sia esso per il tuo cuore l’oracolo del cielo!
T’ama! Comprendi questa sublime,dolce
[parola?
(prendendo tra le braccia Margherita)
Amare! portare in noi
un ardore che sempre si rinnova!
Senza fine inebriarci in una gioia eterna!
Faust,Margherita: Eterna!
Faust: Notte d’amore! cielo radioso!
dolci fiamme!
Muta felicità
riversa i cieli
nelle nostre due anime!
Margherita: Ti voglio amare con tutta l’anima!
Parla ancora!
Ti appartengo! Ti adoro!
Per te vorrei morire!
Faust: Margherita!
Margherita: (sottraendosi alle braccia di Faust)
Ah! Andate!
Faust: Crudele!
Margherita: Sono stordita, confusa!
Faust: Separarmi da te! crudele!
Margherita: Lasciatemi!
Andate! sì,presto, andate via!
Io tremo! ahimè! Ho paura!
Non spezzate il cuore di Margherita!
Faust: Vuoi che ti lasci!
Non vedi,dunque,quanto mi fai male?
Margherita! Margherita!
Mi spezzi il cuore!
Pietà!
Margherita: Se mi volete bene…
Faust: Margherita!
Margherita: Per il vostro amore,per ciò che ho confessato
e avrei dovuto tacere,
esaudite la mia preghiera!
Esaudite i miei desideri!
(Si getta ai piedi di Faust.)
Andate ecc.
Faust: Vuoi ecc.
(sollevandola dolcemente)
Divina purezza!
Casta innocenza
la cui potenza
trionfa sul mio volere!
Ubbidisco!...Ma domani…
Margherita: Sì, domani! dal sorger dell’aurora!
Domani!...sempre!
Faust: Ancora una parola!
Ripetimi questa dolce confessione!
Tu m’ami!
Margherita: (fugge via, corre sino alla casetta,siferma
sulla soglia e manda un bacio a Faust)
Addio!
(Entra nella casetta.)