venerdì 29 novembre 2013

Blaise Pascal

Blaise Pascal


Regia: Roberto Rossellini
Film per la televisione
Italia 1971
Produzione: Rai
Durata: 131’
Sceneggiatura: Roberto Rossellini, Luciano Scaffa, Marcello Mariani
Musica: Mario Nascimbene
Costumi: Marcella De Marchis
Scenografia: Franco Velchi
Interpreti: Giuseppe Addobbati (Etienne Pascal)
Pierre Arditi (Blaise Pascal)
Claude Baks (Cartesio)
Christian De Sica (Intendente criminale)
Rita Forzano (Jacqueline Pascal)


Blaise Pascal è un film per la televisione del 1971, uno dei migliori tra quelli realizzati da Roberto Rossellini nell’ambito del suo progetto ( iniziato anni prima con L’età del ferro, docufilm del 1964) che guardava alla televisione come ad uno strumento di comunicazione potenzialmente in grado di elevare la cultura dell’italiano medio, attraverso opere divulgative come questa. E’ un film trascurato, che potremmo definire crepuscolare, ma che è carico di significati e di spunti per una riflessione sul cinema del maestro e sulla sua visione della vita. Pensato per essere trasmesso in due puntate tv di un’ora ciascuna, vede nella prima il Pascal scienziato, nella seconda, con il filosofo sempre più malato e vicino alla morte, il Pascal uomo di fede. Una scansione che ricalca in pieno lo spirito della filosofia del pensatore francese sul filo di un tormentato equilibrio tra ragione e fede, anticipatore di tanto esistenzialismo novecentesco.


Sul film, che è la riproposizione delle vicende di vita del filosofo francese, a partire dal suo arrivo a Rouen nel 1639 al seguito del padre nominato intendente del re Luigi XIII, fino alla sua scomparsa avvenuta a Parigi nel 1662 (era nato nel 1623), aleggia un atmosfera di morte che sembra precorrere ed adombrare gli ultimi anni di vita del regista. Il protagonista, malato e sofferente, si muove lungo tutto il racconto con l’incedere malfermo di chi non può vivere a pieno l’esistenza, corroso dal male fisico e morale (spesso, al riguardo delle diagnosi espresse da pittoreschi dottori dell’epoca, si parla di umori melanconici). La sua fede vacilla, chiede continue conferme, pone domande, la ragione si ostina in un percorso di ripensamento dei limiti dell’uomo, di presa di coscienza della sua inevitabile finitezza e non si può ignorare il parallelo con il percorso politico del re Sole, al centro di uno dei capolavori di Rossellini, La presa del potere di Luigi XIV con la sua finale ammissione di impotenza di fronte ai misteri della vita.


Come avverrà in Cartesio due anni dopo, Rossellini offre lo spunto didattico didascalico per conoscere uno dei grandi filosofi del passato, nascondendo dietro l’intento educativo una visione del mondo molto personale e problematica. Il Pascal scienziato è colui che sperimenta la pressione atmosferica (confutando le tesi torricelliane), che inventa una rudimentale macchina per calcoli matematici (antesignana delle moderne calcolatrici) e cerca di dimostrare l’esistenza del vuoto come necessità anche metafisica (contravvenendo le teorie aristoteliche e rischiando l’accusa di ateismo). 


E in quale mondo, ancora pieno di contraddizioni, si muova Pascal lo chiarisce la scena del processo della strega, apparentemente una inutile appendice, che è però emblematico, nel quadro che ci vuole offrire Rossellini, dell’idea di una permanenza di elementi arcaici e medievali in una società che tramite uomini come Pascal e Cartesio, sentiva la necessità di voltare pagina, rimettere in discussione le certezze del passato ed offrire strumenti più moderni di decodificazione della realtà (vedi l’acceso confronto con un non meglio identificato denigratore delle ardite idee di Pascal). Una visione insomma complessiva di una realtà storica che probabilmente era il riflesso di una realtà, quella italiana anni Settanta in cui si muove Rossellini, fortemente  attraversata da spinte innovative e rivoluzionarie, ma ancora orientata da altre forze più reazionarie e conservatrici.


Nel ritratto che ci restituisce Rossellini, Pascal, al contrario di Socrate e similmente a Cartesio, si offre come un personaggio solitario, vagamente misantropo, lacerato da un desiderio interiore di comprendere il mondo visceralmente, coinvolgendo l’istinto e la ragione. In Pascal sembra prevalere l’istinto, la cosiddetta intuizione, che si lascia preferire alla ragione, strumento inadeguato per sondare il mistero dei misteri, ovvero il trascendente, l’infinito. Così, stretto nella morsa tra due infiniti (il sommamente grande e il sommamente piccolo) l’uomo è destinato a rimanere in un limbo di incompiutezza, ponendosi come traguardo la massima sapienza del non sapere, l’ammissione socratica della propria ignoranza. Pascal, matematico e fisico dal talento geniale trova nei suoi studi di geometria e nelle sue sfide alla logica un momentaneo sollievo al male di vivere, all’irrequietezza della sua anima che va cercando risposte più profonde. La fede salda e coerente della sorella è un contraltare doveroso ai suoi enigmi irrisolti e diventa un punto di riferimento irrinunciabile all’approssimarsi della morte.


Nella scena chiave del film Blaise è di fronte al fuoco, che invoca quasi con tono sacrale; egli, come Cristo all’approssimarsi della Passione, richiama le forze dello Spirito a sostenerlo, grida la sua rinnovata fede e con essa la fiducia nello stesso Redentore portatore di gioia e consolatore di affanni. Rossellini si sofferma sulla sagoma sofferente del filosofo con un bellissimo piano sequenza di quasi sei minuti. Sembra raccogliersi insieme al suo personaggio, poco prima inquadrato con un movimento di macchina avvolgente inginocchiato all’interno di una Chiesa e silente, per cogliere il senso della sofferenza di una vita che ora si trova a dover fare i conti con il mistero supremo. Rossellini si stringe ancor di più su Pascal fino ad un soffocante primo piano per poi riallontanarsi e muovere la mdp con un nuovo movimento avvolgente che per un attimo incastona il protagonista tra due figure, due oggetti d’arredamento certo non casuali. Pascal è al centro di un quadro come uomo dolente tra un crocifisso particolarmente drammatico nella sua composizione anatomica, con un Cristo stirato sulla croce ancor più sofferente di quanto l’iconografia cristologica classica di solito raffiguri, ed un mondo, stilizzato, pura impalcatura sferica, immagine della razionalità e delle finitezza umane.



Tra l’infinito e il mondo sta l’uomo. I fogli che contengono quelle fondamentali  parole che legge, Pascal li cuce nella tasca di un vestito, quasi a volerli stringere a sé in maniera indissolubile. Rossellini insiste sul personaggio che con fatica e lentezza cuce ciò che risulterà essere una sorta di estrema voce della sua coscienza prima del calvario finale, che si svolgerà sotto gli occhi della sorella e del fedele e superstizioso servo. Pascal, sul letto di morte, inutilmente rassicurato da tre medici ciarlatani (rappresentanti la scienza con le sue certezze) chiederà con insistenza l’estrema unzione per chiudere serenamente un’esistenza travagliata e sofferta.


C’è molto di Rossellini in tutto questo, molto della sua travagliata esperienza biografica, molto del suo percorso cinematografico con il suo continuo oscillare tra la razionalità più rigorosa e scientifica (non a caso il successivo film per la televisione sarà il Cartesio, trionfo del razionalismo e della fiducia nel progresso che ha inizio proprio nel XVII secolo) e l’intuizione che è ora nell’arte (Viaggio in Italia), ora nella bellezza (Stromboli), ora nella fede (Francesco giullare di Dio, Europa 51, Paisà, specie nell’episodio dei monaci).
Pascal ha deciso di scommettere per la fede, perché è una scommessa che non lascia niente da perdere e perché è forse l’unica risposta convincente che la nostra razionalità può trovare alle sue molte domande irrisolte. Il testamento notarile del filosofo viene lasciato in sottofondo, dissolto da altre voci (quelle pedanti dei medici nella stanza accanto), ma quello più profondo è chiaro e ribadito da quell’insistente richiesta di Viatico, che lo stesso prete ha reticenza a impartire, che permette a Pascal di avvicinarsi con gioia alla morte.



Pensieri e riflessioni pascaliane estrapolati da sequenze chiave del film

Affermazione giansenista:  "Noi siamo nelle mani di Dio, che acceca gli uni illumina gli altri e soffia dove vuole..."
Risposta di Pascal: "Come se la verità fosse un oggetto che si possiede e non una cosa viva che si coltiva con la ragione e con il cuore. Io sono diffidente di tutte le certezze dei dotti"

"Il vuoto esiste anche se ripugna la mente degli Scolastici"

"Platone e Aristotele erano brava gente, e, come gli uomini qualunque, non erano pedanti ma ridevano con gli amici e quando hanno insegnato le loro teorie lo hanno fatto divertendosi...la parte più filosofica della loro vita era proprio nel loro vivere con semplicità e in tranquillità…"

In risposta a Cartesio (parlando con la sorella di fronte ad un pozzo, momento emblematico della connessione tra ragione e fede): "Il vuoto è una immagine dell'infinito (e io lo vado cercando) e il vuoto della natura è corrispondente a quello dell'uomo... quando avrò messo a nudo il vuoto della mia insensata limitatezza, della mia vanità...Dio che ho cercato con la ragione e per questo non conosco...voi amate qualcuno con la sola ragione?... Dio guarderà al posto che avrò lasciato dentro di me, un posto che non avrà la dimensione finita e miserabile della mia ragione ma quella infinita del vuoto...che Dio si mostri e io lo conoscerò...(non solo nei Vangeli vi è la parola di Dio) ma la Natura ha in sè il segno di Dio e la carità non è carità se non è illuminata dalla chiarezza della conoscenza e la sola conoscenza necessaria è di riconoscere che esiste una infinità di cose che sovrastano la ragione e questa è ben poca cosa se non si rende conto di ciò"


Discussione con un tradizionalista:
Di fronte alle nuove intuizioni scientifiche (l'affermazione del vuoto): "Rinnegare gli antichi? Io (Pascal) non li disprezzo li onoro. Gli antichi erano uomini nuovi a tutto, l'infanzia dell'umanità... noi abbiamo aggiunto alle loro conoscenze l'esperienza dei secoli che ci separano da loro...Fate uso della ragione...gli antichi erano scusabili...noi saremmo imperdonabili se rimanessimo su quelle posizioni adesso che con il telescopio abbiamo scoperto una infinità di nuove stelle…bisogna far coraggio ai timidi che non osano inventare nulla in fisica...l'incoerenza della nostra epoca la si vede da come in teologia si trovino molte opinioni nuove e sconosciute accolte con plauso...mentre le nuove opinioni in fisica sembrano invece essere convinte di falsità solo perchè urtano di poco contro le opinioni tradizionali...la ragione ci insegna il rispetto per gli antichi la ragione deve limitarlo"



Confronto con Cartesio:
Cartesio: "Come un uomo che cammina solo e nelle tenebre...perciò presi la decisione di non prendere niente per vero che non risultasse evidente alla mia ragione...più verità nei ragionamenti della gente comune che difende i propri affari che negli studi degli uomini di lettere chiusi nel loro mondo...appresi a correggere gli errori dei nostri sensi...scrivendo in francese e non in latino per essere comprensibile ai più"
Pascal: "Io ho preso una strada diversa dalla vostra..."
"Cartesio, voi affermate di aver appreso a condurre con ordine i vostri pensieri dai problemi più semplici ai complessi: Per edificare la vostra costruzione  occorrono fondamenta senza alcun dubbio, fatta salva la vostra ragione, ma la ragione è un fondamento poco sicuro e si trova costretta tra ciò che è infinitamente grande e ciò che è infinitamente piccolo...delusa dall'incostanza delle apparenze e incerta dalla consapevolezza dei propri limiti...è un sottile intuito che ci fa intendere che ci sono diverse dimensioni nello spazio con il nostro cuore riusciamo a condividere uniti alcune certezze...e alcune dimensioni che sono nello spazio non sono misurabili con la ragione...l'universo infinito nel quale siamo sarà sempre infinito e le nostre conoscenze saranno sempre finite...Il metodo ci può dire la distanza che intercorre tra questo oggetto e un altro ma non la qualità del percorso...lo spirito geometrico che sostiene il vostro metodo non è capace di cogliere la diversità di tutto quello che ci circonda. Può forse distinguere tutti i toni delle voci?...non dobbiamo partire dagli argomenti più complessi e arrivare a quelli più semplici?...viviamo tra una infinità e un abisso di quantità...pensieri che valgono più di qualsiasi geometria...per penetrare l'infinito abbiamo bisogno di infiniti metodi e solo Dio può conoscerli"




Pascal frequenta i salotti mondani per cacciare gli umori malinconici: 
"Ma gli svaghi mondani non mi attirano, dice Pascal...non ne sono mai stato così disgustato...ho un grande desiderio di abbandonare tutto e tutti...ma mi sento abbandonato da Dio...ma è la mia ragione che mi guida ora piuttosto che un impulso che mi viene da Dio e sono caduto nell'incertezza"..."voi aspettate grandi segni, dice la sorella, ma con gli spiriti profondi Dio si serve di piccoli segni"



Il gioco dei dadi:
Obiezione di un giocatore: "I Cristiani professano una religione che non possono spiegare con la ragione"
Pascal: "Ma ciò che affermano non manca di logica. Perché Dio è assolutamente incomprensibile e capirlo con la ragione è una contraddizione in termini perché la nostra ragione è limitata…Dio esiste o non esiste? La ragione non può determinare un bel niente, è proprio come se si giocasse a testa e croce. La ragione non vi impone di puntare sull'una o sull'altra cosa ma scommettere bisogna, non è possibile farne a meno…per il fatto stesso che vivete...non scegliere nulla equivale a credere che Dio non c'é...Quale risposta scegliete, come in un gioco spinto alle ultime conseguenze dovete puntare, ma né per la ragione né per il cuore è soddisfacente scommettere sulla fine di tutto, perché se scommettete su ciò che è finito e limitato vincendo non vincete niente e perdendo perdete tutto, se invece scommettete sull'infinito vincendo vincete tutto, perdendo non perdete niente…Nel frattempo rischiamo di restare nell'incertezza ma possiamo sperare ed invece di contare unicamente sulle vostre forze e rischiare la disperazione voi sperate nel valore incarnato di una esistenza che vi è superiore e se perdete avrete condotto una onorevole lotta e sarete diventato un uomo onesto e giusto"



Si appressa la morte: 
1654 lunedì 23 novembre: "Fuoco; Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e non il Dio dei filosofi e dei sapienti; certezza, certezza, sentimento, gioia, pace, Dio di Gesù Cristo Deum meum et deum vestrum, il tuo Dio sarà il mio Dio; oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio, non si trova che per le vie insegnate nel Vangelo, grandezza dell'anima umana. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto ma io ti ho conosciuto, gioia, pianti di gioia, io me ne sono separato De reliquerunt me fontem acque vivae; mio Dio mi abbandonerete? Che io non sia mai separato da lui per l'eternità. Questa è la vita eterna che riconosce te solo e vero Dio e colui che ti ha mandato, Gesù Cristo,  Gesù Cristo, Gesù Cristo, io me ne sono separato, l'ho fuggito, rinnegato, crocifisso; che non sia mai separato da Lui. Non si conserva se non per le vie insegnate dal Vangelo, rinuncia totale e dolce, sottomissione completa a Gesù Cristo e al mio direttore. La gioia in eterno per un giorno di prova sulla Terra"




lunedì 25 novembre 2013

La passione di Giovanna d'Arco

La passione di Giovanna d'Arco


Regia: Carl Theodor Dreyer
Titolo originale La passion de Jeanne d'Arc
Paese di produzione: Francia
Anno: 1928
Durata: 110 min (versione originale restaurata del 1985);  85 min (versione del 1952)
Colore B/N          Audio: muto
Genere drammatico, storico
Regia: Carl Theodor Dreyer    Soggetto: Joseph Delteil   Fotografia: Rudolph Maté   Montaggio: Marguerite Beaugé, Carl Theodor Dreyer   Musiche:  Richard Einhorn, Ole Schmidt   Scenografia: Hermann Warm, Jean Hugo    Costumi: Valentine Hugo
Interpreti e personaggi:   Renée Falconetti: Giovanna d'Arco   Eugène Silvain: Pierre Cauchon, vescovo di Beauvais   Maurice Schutz: Nicolas Loyseleur, giudice   Antonin Artaud: Jean Massieu   André Berley: Jean d'Estivet, pubblico accusatore   Jean d'Yd: Guillaume Evrard   Louis Ravet: Jean Beaupère   Michel Simon: Jean Lemaitre

Uno dei capolavori assoluti della storia del cinema, merita un approfondimento particolare; 
Il film fu realizzato nel 1927 e non ebbe un gran successo commerciale, venendo poi rivalutato con il tempo. Il negativo originale andò distrutto in un incendio dei laboratori  in cui era custodito, nel 1928, tanto che da allora iniziarono a circolare diverse versioni del film più o meno fedeli all'originale. Una versione di G.M. Lo Duca, del 1952, si componeva addirittura di una nuova colonna sonora molto poco fedele allo spirito dell'originale. Una copia del negativo andato distrutto fu ritrovata nel 1981 in un manicomio norvegese e ciò ha permesso di rimettere mano al film realizzando una versione che è quella che è poi circolata in vhs e dvd.


Carl Theodor Dreyer lavorò per più di un anno alla realizzazione del film basandosi sui documenti del processo della santa (ricevendo la collaborazione alla sceneggiatura di Joseph Delteil che aveva lavorato alla biografia di Giovanna), ma ritoccandone profondamente la scansione temporale. Il processo, nella sua realtà storica, si svolse nell'arco di un anno nella città di Rouen, capitale dei possessi inglesi in Francia, articolandosi in 29 interrogatori; Dreyer concentra la vicenda in un solo giorno, l'ultimo del processo reale, ovvero il 30 maggio 1431, mostrandoci un'unica udienza che precede di poco l'esecuzione della giovane. In questo modo il regista danese ci offre una narrazione di tipo quasi teatrale con una adesione pressoché totale alle unità aristoteliche di tempo e spazio. Mancano del tutto i flashback che ci riconducono alle radici e alle ragioni del processo, per far si che la vicenda si svolga come un'unico, intenso conflitto psicologico tra carcerieri e vittima, carico di sensazioni ed emozioni.


L'uso intensivo dei primi piani, secondo un canone estetico all'epoca rivoluzionario, aveva molteplici implicazioni: in primo luogo si esalta la componente psicologica dei personaggi, in secondo luogo si accentua la partecipazione emotiva dello spettatore. Potente diventa il contrasto tra il cinismo dei giudici cospiranti, dietro l'ipocrita compassione di facciata, e l'innocenza solitaria della giovane ragazza. La scenografia mescola componenti moderne ad altre più storicamente giustificate, ma l'ossessivo uso del primo piano contribuisce a destoricizzare la vicenda proiettandola in una dimensione metafisica e senza tempo.


Due sono le situazioni chiave attorno a cui ruota la vicenda: la confessione di eresia, dettata dalla paura e la successiva abiura, volta alla salvezza dell'anima, che porterà l'eroina al rogo. 
Il titolo allude al tema portante della vicenda, ovvero della necessità della sofferenza come un passaggio decisivo per la liberazione dell'individuo, liberazione spirituale, non certo materiale, che proietta la vicenda di Giovanna in una sorta di riproposizione moderna della passione del Cristo. 


Ma se desacralizziamo la figura della protagonista, abbiamo di fronte un personaggio profondamente tormentato, la cui fede e vicinanza con Dio risultano incomunicabili e distanti da coloro che la circondano, facendone una vittima innocente dello spietato cinismo dei giudici, "umani troppo umani", che ha di fronte, simbolo di una oppressione delle istituzioni, in questo caso ecclesiastiche, ma non solo, nei confronti dell'individuo (le uniformi inglesi risultano sinistramente simili a quelle fasciste; non solo, ma la croce di Lorena, regione di provenienza di Giovanna, verrà usata dai francesi come simbolo di resistenza contro l'oppressore nazista).


Straordinaria l'interpretazione di Reneè Falconetti che si prestò ad un vero e proprio tour de force attoriale che la mise a dura prova psicologicamente.

Questo nel dettaglio il dipanarsi del film in una delle versioni successive al ritrovamento del negativo del 1981:
Aula del tribunale: Pierre Cauchon e Lemaitre, i più accaniti accusatori della giovane eroina, sono di fronte a Giovanna la cui fragilità è accentuata dal suo essere senza corazza militare. La carrellata dietro le sagome dei frati inquisitori introduce lo spettatore tra gli spettatori diegetici (interni allo spazio filmico). 


Il dettaglio delle catene (ai piedi, sulla Bibbia, attorno alla veste del soldato) sottolineano l'atmosfera di costrizione ed oppressione che circonda la protagonista. 



Assiste alla scena il rappresentante di sua maestà inglese, lord Warwick, figura imponente e ulteriormente minacciosa. 


L'interrogatorio si svolge come un susseguirsi drammatico ed incalzante di domande poste dai giudici, che appaiono singolarmente perché sicuri di sé, supportati da una procedura consolidata cui la solitaria Giovanna deve far fronte e rispondere. E' uno scontro tra individui, ma presto la grandezza di Giovanna farà si che lei rimanga come personaggio-individuo, mentre gli aguzzini diventeranno sempre più congrega e compagnia di morte e persecuzione. 



Il rifiuto di recitare il Padre Nostro stride con le smorfie di scherno dei giudici nei confronti di Giovanna inquadrata con un intenso primo piano (pp) dal basso. E' subito evidente il dissolvimento della composizione spaziale della scena; ad esempio ancora non sappiamo la posizione di Giovanna all'interno dell'aula del tribunale che rimane così un luogo astratto ed indefinito. Le dimensioni delle figure sono innaturali; Giovanna pare avere la stessa presenza fisica dei soldati, ma in realtà tale accostamento evidenzia una sua grandezza spirituale più che corporea. Lo sguardo di Giovanna è fermo, solido e saldo (certo non scevro di paura) come la sua dirittura morale, mentre gli sguardi dei suoi giudici non riescono ad essere altrettanto fermi, si incrociano, si cercano segnalando una turpe complicità. 




Un frate parla, ma non compaiono didascalie, il suo è un ciarlare vuoto, scontato, senza anima, le sue formule di rito pronunciate secondo un clichè prestabilito. Così, se è vero che un frate riconosce Giovanna come santa, nel loro insieme i giudici si rivelano spietate macchine e nel momento di decidere sono semplici mani senza volto che approvano all'unanimità senza alcuna coscienza individuale (sono letteralmente ombre, non uomini in carne ed ossa, confermandosi come carnefici la cui libertà di decisione è pressoché nulla).



Il passaggio narrativo e scenografico dall'aula alla cella avviene con movimenti di macchina ed inquadrature che per la prima volta inseriscono Giovanna nel contesto, ne fanno personaggio tra personaggi e non più figura solitaria ed isolata.


Cella di detenzione: Mentre Giovanna, all'ombra di una croce che sembra dare un senso a quella sofferenza, piange disperatamente, i giudici ordiscono una trama losca ed illecita falsificando la firma del re. 



L'ombra di un frate inquisitore copre minacciosamente quella della croce anticipando la scoperta dell'ingannevole lettera (anche in questo caso i giudici scambiano tra loro sguardi di intesa, formando un insieme di individui senza una propria coscienza individuale). La cella ha la stessa consistenza scenografica dell'aula di tribunale, rimane luogo senza anima e senza tempo. I primi piani di Giovanna si alternano ai campi medi e alle carrellate che inquadrano i suoi giudici aguzzini. Compare in tutta la sua evidenza il tema del confronto tra l'individuo e la spietata macchina del potere. 




I giudici che come gli aguzzini di Cristo si prendono gioco della ragazza contro cui rigettano con disprezzo le affermazioni che lei stessa aveva sempre pronunciato (la accusano di essersi definita figlia di Dio, in missione per conto di Dio e piena dello stato di grazia che pervade i santi). L'incoronazione di Giovanna da parte di mostruosi carcerieri come ultimo gesto di scherno è l'ennesimo momento che simbolicamente ci rimanda alla passione del Cristo.




Stanza della tortura: Con una analoga carrellata a quella che aveva inquadrato i giudici (i giudici sono come altrettanti strumenti di tortura), vediamo, illuminati da una luce innaturale, scorrere di fronte a noi gli strumenti di tortura che attendono Giovanna nel suo martirio. Quest'ultima continua ad essere ripresa singolarmente mentre i suoi giudici sono sempre un gruppo, raramente individui (lo sfondo su cui si staglia la figura della giovane è sempre neutro, indefinito, metafisico).



Tornano le catene e gli strumenti di tortura si mettono in moto in una sequenza surreale, in cui il vorticoso girare della ruota è l'equivalente della vertigine che coglie la mente della martire che resiste alla minaccia delle torture e non abiura.




Cella di Giovanna: I giudici, ed in particolare Warwick a nome del re Enrico d'Inghilterra, sono presi dalla preoccupazione che la giovane possa morire per le conseguenze delle torture e dunque grottescamente si preoccupano della sua salute in quanto l'esecuzione, inevitabile, si deve svolgere ad ogni costo come monito e carica di un significato politico ed emotivo nel contesto della guerra in corso. Il dettaglio del salasso e del sangue che esce dal corpo di Giovanna alludono all'imminente martirio, mentre la giovane conferma di avere paura. 



Dal letto di Giovanna vediamo in soggettiva i carcerieri che celebrano la messa e offrono alla ragazza l'ennesima opportunità di redimere la propria anima. Ma la fanciulla esita, sa che la salvezza non può passare attraverso un formale percorso tracciato dalla istituzione, ma è puramente interiore e personale. La soggettiva prosegue con movimenti circolari, Giovanna è letteralmente circondata e sotto assedio




Esterno, luogo dell'esecuzione: Con prospettive insolite, angolazioni oblique che accentuano il pathos drammatico della sequenza ci troviamo catapultati all'esterno anche se il fondale su cui si stagliano i primi piani di Giovanna resta neutro, uguale a se stesso. Scheletri emergono da una fossa e  Giovanna li vede come immagine della sua paura di morire; un giudice si staglia con la sua figura minacciosa accentuata dall'inquadratura dal basso. Gli strumenti del martirio incombono minacciosi, e angolazioni d'inquadratura alla Eisenstein, accentuano la lugubre messa in scena. 




Proprio la paura della morte conduce Giovanna all'abiura; la ragione di stato sembra prevalere, "lei serve al re" è quanto emerge dalle parole dei giudici e Giovanna firma il proprio pentimento. Un bambino gioca sul luogo dell'esecuzione, come i giudici sembrano giocare con la condannata e lei con loro secondo il parere di Warwick, ma questa è anche una immagine di festa del popolo che intorno ai saltimbanchi e ai giocolieri si stordisce e dimentica il destino di Giovanna che nel frattempo si prepara al carcere a vita.



Cella di Giovanna: La ragazza subisce il taglio dei capelli che è la metafora di una parte di lei che se ne va. E' quella parte spirituale che la giovane preservava dalla minaccia del peccato e del male e che ha abdicato per paura. 


Giovanna vacilla e la faticosa ed artificiosa costruzione dei giudici (come allude, in una sorta di montaggio analogico, l'immagine delle pietre portate dai soldati) è ormai sul punto di crollare. "Ho solo confessato la mia paura di morire" ammette Giovanna che torna sui suoi passi ed annulla l'abiura.


I giudici, inquadrati ad uno ad uno, finalmente coscienze individuali e non semplici macchine del potere, piangono e comprendono la grandezza della fanciulla che hanno di fronte. La grande vittoria è il martirio, necessario, inevitabile, ma è una vittoria sulla inumana spietatezza dei giudici (che come singoli sembrano avvolti dal fascino della martire).



Esterno, luogo dell'esecuzione:  Il dramma di Giovanna diventa esempio vivente per la collettività che accorre alla condanna (montaggio alternato del popolo che corre verso il castello). Una anziana donna porge da bere a Giovanna nel ricordo del gesto di compassione di Simone di Cirene verso Cristo; 


sul palo compare una scritta, "Idolatra, spergiura" che non può non richiamare alla analoga scritta sulla croce del Cristo. Mentre Giovanna, che stringe a sé la propria croce, compie il proprio destino di morte, le molte Madonne ai piedi del suo calvario piangono e un bimbo innocente ed inconsapevole, succhia il latte dalle mammelle della madre; 



è la vita che prosegue, inesorabile, indifferente, ma cristologicamente è la natura che dà un ulteriore segnale di una presenza trascendente in quel contesto; mentre Giovanna sta esalando gli ultimi respiri, alcune colombe volano verso il cielo. 


Il fumo prodotto avvolge la folla e costringe anche i più duri ad un pianto, indotto o meno; non è possibile l'indifferenza, il sacrificio si è compiuto. Come il terremoto accompagna la morte del Cristo, così il castello sembra oscillare per quella di Giovanna. E' un effetto cinematografico, ma è la partecipazione dell'autore che vuole scuotere anche coloro che assistono al dramma (dentro e fuori lo spazio filmico, personaggi e spettatori).


Ma la realtà è lì pronta ad interrompere il flusso emotivo; i soldati irrompono sulla scena per disperdere il popolo accorso nella piazza del castello. In soggettiva vediamo un cannone sparare sulla folla con la stessa spietata disumanità delle armi dei soldati contro i cittadini inermi nei film di Eisenstein. 


E' un ultimo accesso di violenza, il montaggio alterna la sagoma di Giovanna che brucia sul rogo, all'esplodere della violenza dei soldati. Una donna corre via con un agnello tra le braccia, un uomo tiene la croce, mentre i soldati si accaniscono sulla folla dei contadini alcuni bambini piangono disperati. 



La folla è cacciata via, il ponte levatoio può chiudersi e lasciare i resti di Giovanna nelle mani dei suoi aguzzini, mentre il popolo, sconfitto e umiliato rimane fuori dal castello del potere. Le fiamme si volgono verso il cielo, l'anima di Giovanna ascende, protetta nel suo viaggio da una croce che tra il fumo si erge con il suo candido biancore. E' la speranza cristiana di resurrezione, la speranza di una vittima del potere e della malvagità umana.