mercoledì 25 settembre 2013

The Artist

THE ARTIST


Cast: Berenice Bejo (Peppy), Jean Dujardin (George), John Goodman (Al Zimmer), James Cromwell (Clifton), Penelope Ann Miller (Doris), Malcolm McDowell (The Butler)

Credits
Regia e sceneggiatura: Michel Azanavicius
Produttore: Thomas Langmann
Montaggio: Anne-Sophie Bion, Michel Azanavicius
Direttore della fotografia: Guillame Schiffman
Musica: Ludovic Bource


“Non parlerò”; è quanto afferma George Valentine nella sequenza di apertura del film, che in realtà è sequenza di film nel film che è proiettato in un affollato cinema teatro americano degli anni venti, per l’esattezza del 1927. Il divo è nei panni di un simil Fantomas catturato da cattivi in stile guardie di Metropolis che lo torturano per ottenere non meglio definite informazioni.


Quel “Non parlerò” è però un manifesto di intenti del protagonista del film di Azanavicius. George non vuol parlare, perché non vuole adeguarsi al nuovo mondo che si sta aprendo di fronte a lui. La parola diventa metafora di un adeguamento ad una società in evoluzione che non crede più ai vecchi eroi ma va cercandone di nuovi. E proprio questa lotta tra il muto George e il mondo che invece va “sonorizzandosi” è il tema di fondo di The artist


(geniale l’incubo sonoro in cui tutto ha suono tranne la voce del protagonista, o talune battute come quella di George che a proposito del suo cane dice: Gli manca solo la parola), tanto che alla fine, il nostro eroe, finalmente convinto della necessità di “adeguarsi” duetta ballando con la sua Peppy e sbiascica una incerta frase di circostanza (<Whis pleasure>), unico accenno sonoro uscito dalle sue labbra. George ha finalmente abdicato ma resta inevitabilmente legato al mondo che lo ha lanciato, il suo parlare è incerto come i primi passi eretti di un bambino che ha appena smesso di gattonare.
Il film di Azanavicius non è soltanto una furba operazione vintage di recupero di un mondo e di un linguaggio che sembrava perduto, quello del cinema muto, ma è una riflessione sulle mode, sul fluire del tempo, sulla inesorabile avanzata della modernità che erode con cinismo le icone che essa stessa produce. Non importa (sol)tanto il preciso riferimento storico al passaggio tra cinema muto e sonoro che avviene a cavallo tra il 1927 e il 1929, ma l’universalità del tema che sembra cucirsi perfettamente con i tempi che andiamo vivendo e che forse è all’origine del grande successo del film. Si parla di un cambiamento epocale e di un eroe che non vuole piegarsi alle nuove logiche del successo; ma sullo sfondo c’è una crisi economica di proporzioni catastrofiche (quel dettaglio della prima pagina di giornale sul crack finanziario del 1929) e c’è la predica del produttore che ricorda a George, imperterrito nel suo ostracismo verso il nuovo che avanza, come il pubblico ora vada cercando “facce che parlano, facce parlanti” e come “il pubblico abbia sempre ragione”. Facce parlanti, faces, facebook parlanti, nel bel mezzo di una crisi finanziaria (iniziata nel 2008 e chissà quando finirà…). Dall’era televisiva all’era di internet, la rivoluzione è ormai avviata e quanti eroi della vecchia generazione rimarranno per strada come “Lonely star”, solo per non aver saputo cogliere il cambiamento epocale? Ecco, il film di Azanavicius è molto meno retrò di quanto la confezione lasci presumere, è molto più attuale di tanti blockbuster iperdigitalizzati che adottano tecniche d’avanguardia per raccontare di supereroi fuori dal tempo. George è, nella sua ostinazione, colui che ha costruito la sua fama su un clichè e che ritiene che tale clichè sia eterno ed immodificabile; ecco perché alla fine risulta un personaggio quasi patetico nella sua opposizione e fondamentalmente tragico nella sua tardiva adesione.
Certo The Artist è anche, e soprattutto, un omaggio al cinema nella sua essenza e fa strano pensare che, praticamente in contemporanea, negli Stati Uniti un raffinato film maker come Scorsese omaggi l’inventore francese del cinema fantastico, George Melies, nel pluripremiato Hugo Cabret, e in Francia si renda omaggio con un film altrettanto fortunato al vecchio cinema hollywoodiano degli anni venti. Uno scambio di cortesie che ha all’origine il bisogno di ricondurre la memoria alle origini di quella settima arte che sta attraversando un periodo di riflessione profonda su quelle che saranno le sue prospettive future di sopravvivenza. Nella sua parabola di ascesa e discesa, dalle stelle alle stalle, George attraversa due modi di fare cinema, l’uno legato alle smorfie e alle esagerazioni mimiche, l’altro giocato sugli equivoci verbali e sulle storie minimali e melò, sempre più legato alla parola e meno alla componente visiva. La storia smentirà i sostenitori, come George, della effimera affermazione del sonoro (come lui basti ricordare lo stesso Fairbanks che Valentine evoca, ma anche Chaplin e Keaton), ma anche i detrattori del sonoro come vera iattura per il linguaggio cinematografico, vista l’evoluzione anche qualitativa che ha conosciuto la settima arte nei suoi passaggi ulteriori ai formati panoramici e al colore. 
Il cinema è vita, sembra ricordarci Azanavicius ad ogni inquadratura (con quei titoli dei film che segnano anche i passaggi emotivi della narrazione; e così Lagrime d’amore scendono dalle guance di Peppy quando assiste all’omonimo film di George che cammina come una Lonely star quasi schiacciato da una macchina di passaggio, non sapendo che c’è un Angelo custode che sta vegliando su di lui)



ed oltre questa dimensione non sembra esservi vita per i personaggi (uno dei momenti chiave del film, l’incontro sulle scale tra un George che appena mollato la casa di produzione e Peppy che sta diventando uno dei volti nuovi della casa, è significativamente nel bel mezzo di scale che hanno fatto da set a film come Gli intoccabili; Peppy sale quelle scale, simbolo del cinema stesso, mentre George, mestamente le sta scendendo, in un viavai di comparse che lentamente scompaiono dalla scena). 



George non sa ricostruirsi un’esistenza, il suo matrimonio e i suoi affari vanno a rotoli in coincidenza con il suo declino artistico. La sua casa diventa presto un ripostiglio per vecchie pellicole che non resta altro da fare che bruciare. Le proiezioni private non sembrano essere sufficienti ad appagare un narcisismo che si fa sempre più debole e disperato (geniale in questo senso l’evoluzione dell’ego di George: dallo smisurato George dello schermo cinema dell’incipit, enorme maschera che corre e vola alta, al minuscolo George che cammina sul bancone del bar accompagnato da ridicoli e patetici guerrieri africani, fino all’ombra dello stesso George che, sempre sul telo di uno schermo, abbandona definitivamente l’eroe ormai non più tale).




Chi è che sostituisce l’eroe? Un altro eroe? Non proprio, e non casualmente, ma un’eroina. Peppy è, non soltanto personaggio che rappresenta il nuovo che avanza, ma è anche immagine del femminino che prende consapevolezza di sé ed emerge, o meglio riemerge, come nuova diva.


Il cinema avrà pure rappresentato l’arte che ha fatto della donna un oggetto sensuale e di consumo, ma ha anche contribuito a costruire icone che hanno fatto delle donne dei veri “oggetti di culto”, ma anche importanti punti di riferimento ed influenti personaggi non soltanto del mondo dello spettacolo. Lo stesso personaggio di Peppy è stato costruito sulla falsariga di quella Mary Pickford che non fu soltanto una delle prime grandi dive dello Star System, ma anche un personaggio influente nel mondo cinematografico, moglie di Charlie Chaplin, ma anche co-fondatrice della United Artist e della Academy degli Oscar. The Artist racconta anche questo percorso di emancipazione e lo fa anche con una certa consapevolezza visti tutti quei quadri della de Limpitchka sparsi per i set su cui si muovono i personaggi quasi a ricordarci il processo di affermazione femminile nel campo culturale ed artistico. 


Se George diventa un lillipuzziano, troglodita tra trogloditi, Peppy campeggia enorme con il suo volto sorridente che pubblicizza i nuovi film del sonoro e la mente non può non andare alla gigantesca Ekberg felliniana che campeggiava, con ben altra prosperità e allusione materna, sui giganteschi manifesti pubblicitari de Le tentazioni del giovane Antonio.
Se Fellini entra forzatamente dalla finestra, molti altri grandi nomi del cinema sono invece nel film in carne ed ossa ed ogni appassionato cinefilo può divertirsi  a scoprirne la più o meno invisibile scoperta: dalle musiche hitchcockiane de La donna che visse due volte (allusivamente usate per raccontare la doppia vita dei due protagonisti, entrambi  duplici nel loro salto dall’anonimato al successo e viceversa; who’s that girl?...), a quelle più banalmente in tema de Il viale del tramonto, per passare ai film di Fred Niblo e agli Zorro con Fairbanks che compaiono nelle sequenze che George si proietta privatamente dove Zorro è lui, nei primi piani ricostruiti e ai film che facevano uso degli effetti di rimpicciolimento dei personaggi, qui adottati nella sequenza del bar.
(Peppy che abbraccia se stessa feticisticamente carezzando le vesti di George è una citazione da una analoga scena in Settimo Cielo di Frank Borzage)


E già che siamo in tema di citazioni più o meno volontarie e di parallelismi, non può mancare un’ultima considerazione sul grande protagonista del film, il cane. Vero alter ego di George, e qualcuno potrebbe vedervi una scherzosa allusione al suo recitar da cane, Piggy diventa protagonista quando deve salvare il padrone dal suo duplice tentativo di suicidio (involontario il primo con le pellicole bruciate, più consapevole il secondo con la pistola) come il mitico Flick che si rifiutava di morire tra le braccia di Umberto D. nel capolavoro omonimo di De Sica. 


Piccola taglia, grande cuore e voce istintuale di un conatus a sopravvivere che resta soffocato talvolta da voci troppo rumorose di una civiltà tecnologica che crea con troppa facilità solitudini e disperazioni. Ecco che dietro l’apparente bonarietà del film di Azanavicius si nascondono ombre ben più grandi di quelle che lo schermo ha lasciato intravedere nel suo spettacolare bianco e nero.
Ultima riflessione sul titolo; The artist è riferito allo status di artista che George sente legittimamente di possedere e che diventa ancora più fortemente difeso nel momento che la sua stella va discendendo. E’ consuetudine, quasi banale, ritenere, specie in un contesto artistico e culturale in grande fermento e cambiamento, che il passato sia stato migliore e che le opere della nuova generazione siano inferiori alle precedenti. E’ una forma di difesa specie dal sopravvenire dell’angoscia per i nuovi orizzonti che si sono andati schiudendo. George sente che i nuovi prodotti del cinema sonoro sono ridicoli (il suo ridere dell’attrice parlante è una citazione da Cantando sotto la pioggia, in cui, in analoga situazione, la voce dell’attrice, particolarmente ridicola, si prestava a più di un commento perplesso) e il confronto è con i lavori del “suo” cinema muto, di alto valore estetico. In realtà i film di Valentine (George alias Rodolfo) erano non meno dozzinali di quelli della Pepper (patetico il finale di Lagrime d’amore) e non certo paragonabili alle vere e proprie opere d’arte di certo cinema europeo coevo che però in questo film non vengono minimamente evocati. Ma qui sta il punto. E’ vero che il film di Azanavicius è muto, ma, e anche quest’ultima riflessione ne è una conferma, il suo non vuole essere un semplice elogio dei bei tempi che furono, ma una discorso più ampio e complesso che in qualche modo abbiamo cercato di sviscerare.

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