venerdì 1 dicembre 2017

Incontri ravvicinati del terzo tipo

Incontri ravvicinati del terzo tipo

Titolo originale: Close Encounters of the Third Kind
USA 1977
Regia: Steven Spielberg
Genere: Fantascienza
Durata: 138'
Interpreti: Richard Dreyfuss, Francois Truffaut, Teri Garr, Melinda Dillon, Bob Balaban, Robert Blossom


Una luce abbacinante interrompe l'overture musicale sul nero, noi spettatori siamo chiamati ad adeguare il nostro sguardo alla nuova luce, alla nuova visione che il regista ci propone. E' un invito a guardare verso la luce, come faranno spesso i personaggi del film e quindi un invito a noi spettatori a vivere l'esperienza del film secondo il medesimo punto di vista dei personaggi (in particolare dei protagonisti Roy e Lacombe).


Deserto di Sonora, luogo al confine con il Messico, luogo che è battuto dal vento ed impedisce una chiara visione delle cose; qui si incontrano uomini di diverse lingue, una piccola Babele nella quale è difficile comunicare; si parla francese, inglese, spagnolo e si ritrovano aerei americani della Seconda Guerra Mondiale (questi aerei riprendono vita, come in un film e Spielberg farà vari film in cui compariranno e riprenderanno vita gli aerei della Seconda Guerra Mondiale: L’impero del sole, 1942 Attacco ad Hollywood, Salvate il soldato Ryan).


Siamo dunque in un luogo senza tempo, fuori dallo spazio e uno degli uomini, colui che sembra avere il polso della situazione, il signor Lacombe, alias Francois Truffaut, interroga un testimone e sorride prima ancora che questi possa parlare: vede in lui qualcosa, qualcosa che lo rende raggiante. Una luce è scesa nella notte e ha cantato per lui. Su questa luce possiamo fare le più disparate supposizioni simboliche: l’ispirazione, il sogno, la fantasia, Peter Pan. Che Truffaut, il regista, l’alter ego di Spielberg, capisca senza bisogno di traduzione ciò che ha visto quell’uomo è un indizio importante.


Centro di controllo di Indianapolis; questo è il luogo della tecnologia, delle macchine che visualizzano il traffico, che lo registrano, che guidano i vettori nella giusta direzione. In questo luogo l’apparizione di strane luci non viene codificata, non trova una spiegazione razionale e dunque non è degna di essere relazionata (i piloti non vogliono fare rapporto su quanto hanno visto o intravisto). Al disordine naturale del deserto risponde la notturna atmosfera di un centro di controllo in cui i meccanismi di riconoscimento vanno in tilt, si fermano. Difficoltà di comunicare nel deserto (le diverse lingue), difficoltà di riconoscere i segni nel centro aereonautico. Agli uni sembrano mancare gli strumenti, agli altri la capacità di decodificare i segni che arrivano da una nuova dimensione.


Un terzo luogo appare all’orizzonte. Una casa, un luogo privato immerso nella notte. Un bambino che dorme ed improvvisamente si sveglia e come in un sogno vede muoversi i giocattoli intorno a lui. Ha lo sguardo divertito pieno di meraviglia che solo un bambino può possedere ancora intatto.



In questo inizio c’è già il seme della grande metafora del film: Una mente creativa ed illuminata (il regista, Truffaut), la tecnologia (l’equipe, il cast, il gruppo di lavoro) e uno sguardo puro, uno sguardo bambino (quello dello spettatore, ma anche dell'autore, di Spielberg stesso, che è letteralmente rimasto bruciato da quella visione che si apre di fronte a lui) in grado di cogliere la magia del messaggio: ecco in sintesi la più grande metafora del cinema sul cinema, della meraviglia che la fantasia crea di fronte a coloro che vogliono credere e che Spielberg sta mettendo in scena.


A chiudere questa introduzione compare Roy, il protagonista, un uomo che ama giocare con i trenini, che non ha voglia di risolvere i problemi matematici del figlio, che invita tutta la famiglia ad andare al cinema a vedere Pinocchio (Un film che aiuta a crescere) e permette al figlio di vedere I dieci comandamenti in tv (sta passando proprio la sequenza del passaggio del mar Rosso) contravvenendo alle diposizioni della madre che vorrebbe vedere i figli a letto presto (I dieci comandamenti durano 4 ore!).



Roy è lo spettatore adulto che ha lo sguardo del bambino e può cogliere la meraviglia della visione. Come Pinocchio, Roy ha un suo paese dei balocchi da raggiungere, in parte già costruito in casa sua (l’enorme plastico del trenino con quella montagna ai margini e se proprio dobbiamo risolvere un problema azioniamo il trenino). I dieci comandamenti ci rimandano al Charlton Heston, Mosè, che risale il monte Sinai per ricevere le tavole della Legge, quel Mosè che deve convincere il suo popolo ad attraversare il mare che si apre (vogliamo più meraviglia di questa?). La salita al monte sarà nel destino di Roy che avrà in quella ascesa il contatto con la trascendenza, con la meraviglia che è insita e si materializza nella capacità creativa dell’uomo.


Le luci della città si spengono, come si spengono le luci in sala al momento dell’inizio della proiezione. Se siamo disposti ad avere lo sguardo bambino di Roy si aprirà di fronte a noi il miracolo della meraviglia, del fantastico che si fa reale, che canta per noi. Gli Ufo possono finalmente comparire. Compaiono pure le scritte di due grandi multinazionali americane: sono insegne pubblicitarie, gli spot prima del film!



Roy, chiamato al lavoro, si è perso, non sa trovare la strada ha abbandonato ogni percorso sicuro, si lascia trasportare, come noi spettatori ci affidiamo al regista che ci conduce nel suo mondo e perdiamo il contatto con la nostra realtà quotidiana. Anche lui è nella nebbia, come nella sabbia portata dal vento era immerso Lacombe. Una dimensione di sospensione della realtà, di perdita delle coordinate spazio-temporali. Si accendono le luci alle spalle di Roy (il proiettore?) e l’ombra delle sue dita è proiettata su una superficie bianca (lo schermo che viene letteralmente tirato giù da Roy). Non poteva che essere lui, lo spettatore bambino, il primo a vedere il meraviglioso, l’incredibile, l’UFO.




Roy cerca disperatamente di condividere la sua visione, ma moglie e figli (che non volevano andare al cinema la domenica) non vedono ciò che lui vede. Di quella esperienza porta addirittura i segni sul volto, quelli di una scottatura.


Il contatto con questa dimensione irreale produce un linguaggio (quello della musica per i sordi), veicola un messaggio (la misteriosa attrazione per una forma piramidale che ancora non riesce a decodificare). Sono gli indiani ad aver udito il messaggio (comunità di uomini ingenui, pre capitalistici), Truffaut si fa da tramite per il mondo scientifico, ma ai convenuti sulla collina non è dato vedere niente di meraviglioso.



Roy e il bambino hanno un feeling, in compenso la moglie di Roy non vuole sentire ragioni: il marito ha perso il lavoro. La fuga nel sogno non è se non per spiriti puri, per spiriti bambini il cui stupore stride con le ragioni di un mondo che sembra confinare altrove il meraviglioso. 
Mentre gli scienziati decodificano il messaggio secondo una scansione matematica, il bambino, la madre e lo stesso Truffaut tramutano le loro emozioni in rappresentazioni, in musica e disegni. Il germe dell’ispirazione artistica ha preso possesso di loro.



Il bambino viene letteralmente rapito. Una enorme nuvola compare all’orizzonte e ricorda la nuvola che si ergeva sopra il mar Rosso nel film I dieci comandamenti. Un analogo prodigio sta per compiersi e il bambino esclama: giocattoli! Egli è rapito da un enorme Peter Pan che lo conduce lontano dalla realtà, nell’isola che non c’è che è la montagna misteriosa nel Wyoming, la Torre del Diavolo. Ma mentre Wendy e i suoi fratellini torneranno a casa per poter ritrovare la famiglia e finalmente crescere, Roy, che alla fine volerà verso l’isola che non c’è, non tornerà più deciso ad abbandonare questo mondo per la fuga nel sogno e nel meraviglioso. Il bambino si chiama Barry e ricorda tremendamente quel James Matthew Barrie autore di Peter Pan.



Roy, toccato dalla Grazia della fantasia riesce a vedere la sua montagna nella schiuma da barba, nel purè, nella pagina di un giornale, metafora della capacità di creare, di dare vita a mondi e realtà, manipolando l’esistente (che è ciò che fa appunto il cinema), con anche la frenesia dell’artista (il risveglio dell’impeto creativo in Roy è seguito dalla frustrazione per la sua incapacità di riprodurre ciò che l’ispirazione suggerisce e poi dalla letterale esplosione finale, evocata con un passaggio di montaggio analogico, nel cartone animato alla tv, con cui Roy raggiunge l’obiettivo, la realizzazione del sogno creativo perfetto: la montagna nella sua forma ideale) che vede l’incompiuto, l’irrisolto.





In parallelo si muove un apparato scientifico militare che cerca di imbrigliare quella magia, di escluderla allo sguardo, di imprigionarla in un ambito rassicurante. Tornerà questo motivo nel laboratorio in cui rinchiuderanno ET. E’ il principio di realtà, di coloro che sono scettici (la moglie, i giornalisti) e di coloro che vogliono nascondere (i soldati e gli scienziati).


Una volta consumatasi la divina frenesia creativa di Roy (folle e deciso nella sua composizione del plastico della Devils Tower), il modello coincide con l’ideale, la vera Devils Tower che compare su uno schermo tv, in una sequenza che magistralmente sfrutta la profondità di campo, per condurci al cuore della rivelazione decisiva del film. Roy ha raggiunto ciò che agli altri è precluso, può dirigersi verso la zona proibita dove il sogno diventa realtà. Può anch’egli volare verso l’isola che non c’è. Ma è la direzione sbagliata per molti; Roy è letteralmente contromano, controcorrente, un animale strano. La folla non può e non vuole vedere perché non crede alla visione, o meglio crede ad altro che viene dispensato (la paura di un veleno tossico). Roy e la madre di Barry devono rompere molti steccati per raggiungere la meta.






<Perché siete qui>, chiede Lacombe-Truffaut a Roy: <sei forse un artista, un pittore?> Lacombe capisce Roy e sorride quando lo vede fuggire dalle grinfie dei soldati. Lui ha più diritto di noi di stare qua, dice ad un collega, Lacombe sa, coloro che vogliono credere sono più importanti di coloro che vogliono capire (che gli scienziati siano i critici, i semiologi, gli studiosi che vogliono razionalizzare l’evento della visione? E Lacombe, ad un certo punto, usa proprio il termine visione!). Lacombe, Roy e i 12 (come gli apostoli, a sottolineare la sacralità dell’evento) giunti da ogni parte condividono lo stesso sguardo.



I soldati vogliono anestetizzare coloro che salgono sul monte, come i critici vogliono anestetizzare il senso della meraviglia della visione, come la ragione volesse imbrigliare lo stupore, ma è troppa la forza dell’Eros che fa ascendere i personaggi verso la vetta. In fondo, questa seconda parte del film, può essere anche letta come la riproposizione dl mito platonico di Eros, della forza del cavallo nero (le passioni terrene) che frena l’impeto del cavallo bianco (l’aspirazione celeste); solo pochi riescono a liberarsi e librarsi verso l’amore celeste, in questo caso l’amore per il meraviglioso che è in noi, il fanciullino nascosto che emerge con forza.




Le luci che illuminano la vetta paiono quelle che segnalano le sale cinematografiche americane quando si preparano ad un evento, le stesse che si alzano sulla sigla della Paramount.


Quello che si apre, poi, di fronte agli occhi di Roy e Lorraine è veramente lo spazio di un set cinematografico, con luci e operai che si muovono per allestire la messa in scena. Le prove microfono, la voce da un altoparlante che richiama i figuranti al loro posto. Le luci si abbassano, c’è l’invito a guardare verso il cielo, si sollevano appalusi in lontananza, sembra veramente l’inizio di uno spettacolo. A coordinare il tutto è il “regista” Truffaut che può finalmente disvelare la propria identità. Il set è pieno di apparati di riproduzione, di registrazione e di rilevamento (si scorgono macchine da presa ovunque).



La musica diventa il tramite comunicativo tra le entità ultraterrene e gli uomini, il ponte di questi ultimi verso l’altra dimensione. Nel set può avvenire qualsiasi cosa, come l’arrivo di un’astronave madre che come una novella arca restituisce al mondo uomini e donne scomparsi e provenienti da altri tempi. Truffaut allora fa una domanda fondamentale a Roy: <Cosa ci fa lei qui?> E la risposta non potrebbe essere più chiara: <Voglio vedere se tutto ciò sta accadendo realmente>. Roy crede ed è immerso in quella realtà ed in fondo ogni spettatore dallo sguardo puro vuole andare al cinema perché vuole credere in quello che vede, sospendendo ogni diffidenza e mollando gli ormeggi verso il mondo della fantasia.



Monsieur Neary, io la invidio. Truffaut capisce la meraviglia negli occhi di Roy e la invidia come si invidia l’ingenua innocenza di un bambino che ha voglia di volare via. Truffaut è colui che ha costruito quel microcosmo per permettere l’incontro tra gli spettatori e il meraviglioso, ma la luce invade totalmente Roy che è letteralmente rapito da quella visione, nell’estasi della piena simbiosi tra l’umano e il trascendente. Altri, benedetti da Dio, sono i fortunati che intraprendono questo straordinario viaggio e bordo dell’astronave, ma è Roy che è letteralmente rapito (allarga le braccia simulando il gesto dell’alieno che era sceso per primo dall’astronave), circondato da alieni bambini e il cui ultimo sguardo, felice, va a cercare quello di Barry.




E’ il momento chiave del film: Roy, completamente trasfigurato ritrova pienamente e definitivamente il suo sguardo bambino e Spielberg, genialmente, introduce nel tessuto musicale, nel momento che Roy guarda Barry, l’accenno sonoro alla sigla della Disney, vero mondo di sogni che ha rapito intere generazioni di spettatori bambini. Proprio Barry, salutando l’astronave con un addio, chiude di fatto il film, il suo è l’ultimo sguardo umano che compare sullo schermo, lo sguardo bambino che accompagna la partenza degli alieni.