lunedì 20 febbraio 2017

Class Enemy


Class Enemy


Un film di Rok Bicek.

Con Igor Samobor, Natasa Barbara Gracner, Tjasa Zeleznik, Masa Derganc, Robert Prebil.

Voranc Boh, Daša Cupevski, Doroteja


Titolo originale Razredni sovraznik. Drammatico, durata 112 min. - Slovenia 2013. – Tucker


Mi sembra importante poter parlare, attraverso l’arte cinematografica, di temi che riflettano sia la società nazionale che quella mondiale. In Class Enemy ciò traspare nel microcosmo dei ragazzi delle medie superiori: una generazione estremamente vulnerabile e, in quanto tale, propensa ad assorbire quel che le succede intorno, sia a livello conscio che inconscio. La rivolta degli studenti contro il sistema scolastico, simboleggiato dal severo professore, è l’immagine riflessa dello scontento sociale globale, che sfrutta ogni (in)giusto motivo per ribellarsi contro le norme vigenti. Nel racconto, queste situazioni estreme descrivono il baratro tra due generazioni molto diverse tra di loro: baratro che la tragedia avvenuta ha maggiormente ampliato. Si tratta di un difetto, di un’interferenza nella comunicazione. - Rok Biček



Il film si apre sul primo piano di Sabina isolata in un triste mutismo, mentre i suoi compagni di classe si scambiano battute nell’intervallo tra una lezione e l’altra. Sabina è solitaria e cupa al pari di una sua compagna seduta sul davanzale della finestra dell’aula. Sono immagini che ci restituiscono una gioventù problematica e chiusa in sé stessa.

L’arrivo dei professori introduce un elemento di confronto. Sono, già a prima vista, due modelli di adulto molto differenti. La materna professoressa Nusa che è al commiato perché in attesa di un figlio e il supplente subentrante, Robert Zupan, rigido nel suo completo gessato. Un intenso primo piano di quest’ultimo, circonfuso di una luce abbacinante, ce lo pone in contrasto con il rumore di fondo del chiacchierare degli studenti, rumore che pare stridere con la compostezza del personaggio in evidenza. Si preannuncia già la futura conflittualità. 


Robert non manca di sottolineare, di fronte a Nusa, come la classe, ad un primo approccio sia risultata disordinata, poco attenta e troppo vivace. “Sono ragazzi” sottolinea Nusa che, con i suoi modi amichevoli e materni non pare però essere, alla lunga, un valido modello di riferimento per i giovani, inconsapevolmente e benevolmente incapace di andare al fondo del malessere degli studenti che ha di fronte. Nusa ha gli occhi chiusi, sorride ma non vede perché non può vedere (percepire) cosa si nasconde dietro l’amabile affettività che gli hanno dimostrato gli studenti al momento di partire.
La musica che suona Sabina (Mozart) è profondamente malinconica perché carica di malinconia è la sua stessa vita.  La musica si interrompe bruscamente di fronte al silenzio di Luka che è a colloquio con la psicologa.
“Una grossa piovra ti sta afferrando” le dice la psicologa che prova ad aprire quel muro di silenzio. “prima o poi i tentacoli molleranno la presa…” dice la psicologa che sembra però non avere la forza di chiudere il suo tentativo di toccare Luka, di offrirgli un aiuto che si carichi anche di un valore affettivo (non riesce ad accarezzarlo come in precedenza aveva fatto Nusa).

Robert Zupan si presenta come il principio d’autorità, il principio di realtà freudiano che viene ristabilito in una classe che fatica ad interiorizzare gli insegnamenti che riceve. Così anche il semplice gesto dell’alzarsi in piedi diventa oggetto di riflessione ed approfondimento sul ruolo dei rituali, sull’idea stessa di umanità diversa dalla ferinità e sul senso dello stare al mondo (“Sono poche le cose necessarie per vivere” dice Zupan). Sabina coglie appieno la carica di contraddizioni che si celano dietro una riflessione del genere e si chiede se valga veramente la pena vivere.


Zupan ha un primo richiamo, la musica suonata da Sabina ha una attrazione irresistibile verso di lui, ma la ragazza compie l’errore di chiudere la porta e di prestarsi al malinteso del giudizio altrui (o piuttosto pregiudizio).

Quello che si apre è un vero e proprio conflitto in cui le due parti stanno su piani completamente diversi ed occupano spazi che sembrano distanti (non più inquadrature d’insieme della classe ma primi piani stretti in contrapposizione ad altri primi piani) e non conciliabili. Zupan è colui che ritiene che la conoscenza non debba aver riguardi per i fattori esterni (vedi le problematiche affettive che riguardano i ragazzi).

La relazione totalmente anaffettiva che il professore instaura con la classe lo condanna alla sconfitta comunicativa ma, dall’altra parte, gli studenti commettono un errore altrettanto importante, un errore di prospettiva che si fonda su un pregiudizio di base: la severità è vissuta come una ingiustizia e dunque il professor Zupan è, quantomeno, un deviato o un sadico, in poche parole un nazista. Nick (guardando verso destra) gli dedica alla radio scolastica, La cavalcata delle Valchirie, Zupan sembra guardare stralunato dalla parte opposta.


L’ultimo colloquio, interrogazione, interrogatorio con Sabina (che ruota attorno al concetto di fallito, di uomo inutile) scava un solco ancora maggiore tra il professore e gli studenti; la morte di Sabina è l’episodio che scatena la guerra, ma alla notizia della morte della ragazza il professore non sa cosa dire aspettandosi che siano i ragazzi a parlare (e la lavagna dietro di lui è sconsolatamente vuota) e i ragazzi, a loro volta, paiono quasi ridicoli e dunque tragicamente inadeguati, nelle loro vesti carnevalesche, a poter sostenere il peso di una tale notizia. Le loro mascherature accentuano lo sbigottimento delle loro espressioni.


Gli studenti iniziano lo stillicidio della ricerca di un responsabile e il primo capro espiatorio è proprio il professore simbolo di un sistema scolastico che pretende la luna ed uccide i deboli. Ma i ragazzi sono divisi tra loro: Primoz pensa all’interrogazione e non sa capacitarsi della debolezza di Sabina, Spela dà del nazista al professore ma poi, imbeccata da un compagno, si lascia scappare una frase razzista. Anche nel modo in cui sono inquadrati i ragazzi paiono individui divisi tra loro che ritrovano una solida compattezza solo nella loro contrapposizione al professore. Qui tornano ad essere gruppo perché hanno trovato un nemico comune.





La prima lezione dopo il suicidio mette tutti di fronte ai propri limiti: la lavagna rimane tragicamente vuota (il professore di matematica non avrà la forza di scrivere niente) e i ragazzi scoprono di non conoscere Sabina così a fondo come meritava. Zupan umilia Primoz colpevole di non mostrare umani sentimenti di pietà, ma nella sua meschinità Primoz è probabilmente più sincero di tanti suoi compagni. Le sue risposte alla fine convincono il professore e anche il tedesco non pare un ostacolo alle sue esternazioni. Nessuno è stato a casa di Sabina, nessuno ha colto le avvisaglie di quello che stava per succedere. Sabina era sola come forse tutti i suoi compagni e Primoz, coerente con quanto faceva in precedenza, non sente di dover partecipare del dolore collettivo semplicemente perché non ne sente il bisogno.

Il silenzio del professore di matematica di fronte alla lavagna di vuota è emblematico della sua incapacità di trovare una risposta, di poter essere d’aiuto agli studenti che nemmeno vengono inquadrati (una distanza abissale li separa). Lo scacco dell’insegnante la cui bonomia non lo salva dalla inettitudine.

Una classe insegnanti che non sa trovare le parole per spiegare il mondo, chiusa e arroccata dietro modalità forse stantie di comunicare ed insegnare. Gli studenti che faticano a comunicare, ad esternare il proprio dolore ed incolpano gli adulti di ciò che in realtà non riesce a loro e loro soltanto. Usano i simboli in modo sbagliato (come sottolineato da Zupan), si coalizzano in modo superficiale (non basta una maschera comune per creare una comunità). Lo scacco di una situazione in cui adulti e giovani non riescono ad incontrarsi veramente e profondamente affinchè gli uni trovino conforto ed insegnamento dagli altri e questi si sentano pronti e decisivi nel loro ruolo di educatori. Il film in buona sostanza descrive una generazione di insegnanti che sembrano aver abdicato al loro ruolo, sempre meno convinti dell’importanza del loro lavoro. Zupan, a modo proprio, non vuole abdicare, ma è tragicamente fuori tempo e fuori luogo.



L’unica che sembra in grado di riempire quella lavagna è la psicologa cui però Luka risponde con il linguaggio formale della disciplina e dunque con distanza affettiva pari a quella che riserva agli altri adulti della scuola. Il corridoio è sempre più vuoto. Il cinese non ha tempo per la terza fase (la tristezza che precede la rassegnazione come spiegato dalla psicologa) perché deve aiutare la propria famiglia. E’ un altro emarginato del gruppo. Il colore giallo, il colore di Sabina, domina su tutto. Il funerale è rimasto nel fuori campo, nello spazio del non visto, del resto la macchina da presa non esce mai dalla scuola perché di per se stessa questa è già una sufficiente rappresentazione del mondo.



Di fronte al nemico comune, dopo un momento di smarrimento, il gruppo si compatta. Gli studenti parlano di Zupan come di un nazista senza rendersi conto che molti dei discorsi che fanno sono proprio di stampo nazista. Il sistema scuola è il vero nemico da combattere, un sistema che li giudica e li vuole irregimentare. Il rito delle candele che accolgono Zupan vorrebbe essere la loro massima dimostrazione di ostilità (una sorta di cammino delle candele per ribadire il legame di Zupan con la morte di Sabina) ma Zupan fa loro notare che ancora una volta il simbolo è stato travisato (le candele non sono un simbolo di morte ma di vita e rappresentano l’anima del defunto che si spera rimanga viva, accesa come la fiammella, dopo la morte).


Gli studenti allora passano dalla dimostrazione di dissenso, alla disobbedienza, alla provocazione (il registratore che riproduce la musica di Mozart). Zupan è sempre più isolato, anche la preside sembra non approvarlo, e non gli resta che ribadire con cociuta determinazione la sua fede nei suoi metodi e così tornando a scrivere alla lavagna interrompe letteralmente il flusso della musica di Mozart che a quel punto si era fatta extra diegetica.

Forse il suo messaggio è solo per Primoz (per di più travisato, perché Primoz vede in lui solo il sostenitore di un sistema in cui il ragazzo primeggia e non anche un educatore come Zupan stesso aspirerebbe a sentirsi), ma tanto basta per andare avanti. Lo Zupan educatore emerge proprio nella sequenza della scritta alla lavagna: La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive (citazione di Thomas Mann e con questo forse risponde anche alla domanda posta a Primoz nella lezione successiva al suicidio di Sabina: perché Thomas Mann non partecipò al funerale del figlio che si era suicidato?).

L’apice dello scontro si raggiunge con il “colpo di stato” ordito dagli studenti, chiusi nel loro bunker trasparente che non permette gli adulti di entrare. E’ uno spazio inaccessibile che certifica la distanza tra i due mondi. La musica di Mozart (che è la musica della malinconia di Sabina, usata quasi come un'arma nella lotta dei ragazzi contro il sistema) accompagna la scena in un crescendo che conduce al sacrificio finale del capro, Robert Zupan che corre sconfitto a rinchiudersi nella sua aula.


La vittima sacrificale dell’orda, il padre da uccidere. Ma la preside madre riporta all’ordine, alla necessità di un ordine, riconduce i ragazzi sulla via dell’obbedienza, unica via percorribile affinchè il percorso di crescita abbia un senso, un significato compiuto. La madre, ora severa come uno Zupan al femminile, riconduce i figli nell’ambito dei loro obblighi riconducendoli in classe in aula, nel luogo da cui sono sembrati fuggire come da una prigione.

La ragazza che si scusa lo fa adottando la lingua del padre, il tedesco, mentre i ribelli continuano a parlare la propria lingua. E’ chiaro che stanno letteralmente parlando due lingue diverse. Il ritorno della mamma pre edipica è dunque un impossibile ritorno ad una situazione che non c’è più e che non è possibile ripristinare. La professoressa mamma non ritrova i suoi bambini ma una tribù ostile.
Tribù che si compatta fino alla composizione di un gruppo di tutti uguali, di tutte Sabina, impersonali maschere senza possibilità di espressione perché il gruppo ha in mano la dittatura dei sentimenti e delle emozioni. Tutti devono essere Sabina, quella che nessuno conosceva a fondo e di cui resta soltanto una foto in bianco e nero con cui coprirsi e farsi forza. Mojca, la migliore amica di Sabina (o presunta tale) rompe questa forzata coesione con la sua lettera che ribalta il punto di vista del gruppo e, non a caso, è scritta in tedesco (la lingua del padre severo). Il suo pianto è soffocato dalla maschera che è diventata divisa omologante ed impersonale, quasi disumana. Zupan la indossa perché sa di poter giocare la carta della lettera di Mojca che scompaginerà i piani dei ragazzi la cui compattezza è solo frutto di un impeto emozionale che li ha uniti temporaneamente.



“Benvenuto nel ventunesimo secolo” dice la preside a Zupan che difende le proprie posizioni.

Mojca intento è nella stessa posizione di luce isolante in cui si trova perennemente il professore, lei che ha fatto fallire il piano del gruppo ed ora è colpevole del suo disgregamento.

I genitori non si dimostrano migliori dei loro figli, anzi ne sono uno specchio fedele, mettendo sotto torchio il sistema scolastico colpevole di tutte le malefatte che coinvolgono i loro figli. Ogni genitore è perfettamente sovrapponibile al figlio che sembra esserne una semplice appendice. Si va dal padre giustificazionista ("la ribellione è una forma di espressione giovanile"), a quello che investe di una critica totale il sistema, alla madre cghe difende strenuamente il figlio, fino ai cinesi indifferenti alle sorti del gruppo e al genitore forcaioloche chiede una maggiore ed intransigente severità (che dovrebbe compensarne evidentemente l’assenza in seno alla famiglia). La preside chiude il discorso accennando all’uso delle punizioni educative, una sorta di compromesso moderno che mette in discussione certo buonismo anni Novanta senza un deciso ritorno al passato.


La finale reazione nervosa di Tadei, dopo un colloquio chiarificatorio con la preside, ci richiama alla fragilità di questi ragazzi incapaci di trovare una bussola convincente e definitiva per le loro azioni.

Luka nel finale, con un laconico "grazie" fa un passo decisivo verso la distensione attraversando il confine rigido delimitato dalla stanza del professor Zupan. Entra nel luogo proibito nella direzione del nemico, nemico che prenderà a parlare la lingua degli studenti, anche questo nel segno della distensione. Ma Zupan rimane solo nella sua luce soffusa che lo circonda tanto in sala insegnanti, quanto nell’aula con gli studenti. Una sconfitta, la sua?

Il vademecum delle accuse a Zupan, nel primo vero dialogo tra studenti e professore: Lei non ha saputo ascoltarci - E’ stato cattivo - Ha minacciato di bocciarci - Non ha dato voti equilibrati - La morte di Sabina è stata per lei un esempio educativo e non una tragedia

Il discorso finale di Zupan è un invito alla riflessione personale, alla presa di coscienza che ogni esperienza educativa, vera dovrebbe porre come punto di arrivo. Robert, forse anche autoincolpandosi, avverte i ragazzi che hanno perso un’occasione di ascoltare la voce interiore, presi com’erano dalla loro utopistica lotta al sistema, un sistema che non ha ceduto, che ha funzionato come sempre, nella sua matematica freddezza. Essere rocce bagnate dalla corrente e non naufraghi che si aggrappano ai tronchi è la speranza che Zupan regala ai suoi uditori, mai così veramente attenti.

Il richiamo finale di Mozart è anche per lui, chiuso di nuovo nella sua stanza solitario e triste come all’inizio, mentre la lavagna è rimasta desolatamente vuota di contenuti. Forse anche Zupan è tornato al punto di partenza, alla revisione del suo mondo e dei suoi convincimenti, all’autocoscienza di essere forse fuori luogo e fuori tempo, comunque maledettamente solo.

Sabina ha fatto la sua scelta e Sabina cammina con il suo maglioncino giallo tra gli studenti in gita, finalmente fuori dalle mura scolastiche, finalmente sollevati e sereni, pronti ad affrontare il mare della vita; Sabina ha scelto di non scegliere, ella è ormai veramente soltanto un fantasma, destinato a perdersi nella scia lasciata dalla barca in corsa, il cui rumore chiude il film interrompendo pure la musica mozartiana, il suono della musica di Sabina sovrastato dal rumore della vita.



Thomas Mann aleggia, come Sabina, su tutto il film e i riferimenti più frequenti, nelle interrogazioni del professor Zupan, sono a quel Tonio Kroger che ha diversi punti di contatto con il film. Anche il romanzo dello scrittore tedesco racconta infatti una storia di formazione e il suo protagonista, Tonio, sembra essere il controcanto maschile di Sabina, un ragazzo sensibile e solitario che ha una vena artistica che lo caratterizza (al pari di Sabina pianista provetta).