giovedì 17 marzo 2016

The revenant


 

Un film di Alejandro González Iñárritu.
Con Leonardo Di Caprio, Tom Hardy, Domhnall Gleeson, Will Poulter, Forrest Goodluck.

Titolo originale The Revenant. Avventura 
Durata 156 min. - USA 2015. - 20th Century Fox
 
 
 
The revenant è un film di grandi paesaggi, di distese incontaminate e panorami mozzafiato, ma è anche una partitura sonora complessa ed affascinante in cui convergono musiche, suoni e voci che accompagnano le azioni dei personaggi. Voci sussurrate che suggeriscono un senso altro, che indicano una presenza spirituale che è la vera costante della vicenda. Certi passaggi del film hanno chiari richiami con il cinema di Malick (The new world, La sottile linea rossa), ed ancora più a ritroso possiamo scorgervi echi di Kurosawa e Tarkovski. E proprio come in certo cinema di questi ultimi, Inarritu aspira a raccontare una storia universale che ci conduca al cuore della natura umana e dell’essenza stessa dell’umanità.

I personaggi si muovono in spazi sterminati, piccole figure che ci rimandano a certi quadri romantici, perdute in una immensità naturale che apre a spazi altri, trascendenti.
 
 
In questa immensità due corpi si abbracciano e sono quelli di un padre e di un figlio che non vogliono abbandonarsi. “E’ tutto ok figlio, tu vorresti che tutto fosse finito… Io sono qui, ma non ti arrendere, finché puoi respirare combatti, respira, continua a respirare…” queste sono le parole in voce off che scorrono su immagini di felicità e di dolore allo stesso tempo, immagini di un bambino sorridente, di una donna serena, ma anche di un villaggio in fiamme e di una piccola creatura inerte tra le braccia del padre.  


 
 
Hugh Glass, il protagonista, rivede nel passato il senso del proprio dramma (la perdita della moglie) ma anche il senso del proprio futuro, lottare fino a che c’è respiro per la sopravvivenza del proprio figlio. Il paradiso perduto del proprio villaggio e della propria famiglia (Glass, bianco, aveva vissuto con una tribù Pawnee) ritornano come motivi ossessivi dei pensieri del personaggio, quasi che a essere redivivi fossero in prima istanza proprio quei ricordi così vividi.
 
La macchina da presa lentamente si muove, galleggia in un ambiente di acqua, l’elemento predominante della vicenda. L’acqua è la vita, è lo scorrere della stessa, ma è anche il simbolo del ritorno alla natura, al liquido amniotico primordiale dopo la morte.

 
Proprio come il segno della spirale sulla borraccia di Glass allude alla ciclicità della vita, così lo scorrere dell’acqua, onnipresente, segna questi passaggi temporali fino ad accogliere i cadaveri dei personaggi nel loro riassorbimento nella materia del Tutto (il figlio di Glass, Hawk e il malvagio Fitzgerald tra gli altri).


  

Si respira un senso panteistico tanto più forte quanto più si mostra l’uomo vicino alla ferinità e alla primitività. Un uomo che è come gli animali che lo circondano che è selvaggio al pari di tutto il resto, come ci ricorda la scritta sulla tavola al collo dell’indiano impiccato dai trapper francesi (“Noi siamo tutti selvaggi”).
 
Lo stesso Glass, orribilmente dilaniato dalle unghie di un’orsa, non è molto diverso da questa: tanto l’animale quanto l’uomo combattono per difendere i propri cuccioli; Glass aveva ucciso un soldato che aveva cercato di uccidergli il figlio, l’orsa difende, per lo stesso motivo, il territorio dall’attacco del cacciatore. In entrambi i casi la difesa è strenua ma vana: Glass dovrà assistere impotente all’uccisione del figlio, l’orsa perirà lasciando i suoi cuccioli abbandonati a se stessi. Entrambi, al termine della lotta che li vede protagonisti, rotolano insieme per la stessa discesa, rimanendo avvinghiati, quasi abbracciati.


 
 
Le stesse logiche segnano l’agire all’interno della Natura che sembra assistere maestosamente indifferente. Tra le sagome degli alberi i personaggi cercano di guardare il cielo in cerca di un segno, di una presenza che li proietti oltre la pura dimensione materiale e naturale, ma non sembra esserci conflitto tra Natura e Spirito che si compenetrano in un unicum panteistico;



 
 
 il padre che abbraccia il figlio è come il tronco dell’albero, agisce come l’animale e gli animali sono presenze misteriose (vedi i continui dettagli degli occhi dei cavalli) che alludono ad altro, che rappresentano altro (come nell’emblematico racconto di Fitzgerald che parla di un uomo che vede la Grazia materializzarsi in uno scoiattolo).
 
Dio è in ogni cosa, sembra dirci Inarritu sulle orme di Giordano Bruno, è spirito dentro ogni cosa e spirito sopra ogni cosa. La cometa che scende dal cielo di fronte a Fitzgerald è quel segno di trascendenza che ci riporta alla Mens Super Omnia (lo Spirito bruniano sopra ogni creatura), il comparire dei bisonti in un’aura magica di fronte a Glass, ci riporta invece alla Mens Insita Omnibus (lo Spirito insito nel tutto).


 
Uomini abbrutiti che sembrano usciti dalle tele di Bruegel (vedi in particolare le scene nella locanda del forte) si muovono in questa dimensione aggrappandosi agli affetti (Glass), all’ordine (il capitano), al sogno (Fitzgerald); e tutti, chi più chi meno, sono destinati a fallire, a veder crollare le proprie speranze a non veder realizzato ciò per cui combattono;
 
peggio ancora, vedono rivelarsi di fronte a loro (è il caso di Glass) l’insensatezza, la vacuità e l’evanescenza dei propri progetti che, una volta realizzati (la vendetta finale) non conducono a niente che possa minimamente regalare una consolazione o un barlume di felicità (Glass, cui Fitzgerald morente ricorda la magra consolazione della vendetta: “Hai fatto tutta questa strada solo per la tua vendetta, dice Fitzgerald moribondo, allora goditela perchè non c’è niente che può renderti tuo figlio…”, una volta compiuto il proprio percorso vede ricomparire l’immagine della moglie che lo guarda, ma è una apparizione breve e sfuggente che lascia l’uomo di nuovo solo con se stesso, smarrito ed incredulo, pronto a guardarci negli occhi a chiedere comprensione e pietà).
 



 

 Inarritu, insomma, in questo mondo hobbesiano di un uomo ferino allo stato di natura, abbraccia il pessimismo del grande filosofo inglese, rendendolo ancora più cupo e senza uscita. Ciò che è stato non torna, ciò che esiste nel presente è precario (ogni riposo, ogni sogno di Glass è bruscamente risvegliato da una realtà che lo richiama alla pura lotta per la sopravvivenza) ciò che si intravede nel futuro è chimerico ed evanescente.
 
 
Saremmo tentati di parlare di un film apocalittico, in cui l’angelo della vendetta non sana i peccati degli uomini; i compagni di Glass salgono verso un monte nominato Arcangelo Gabriele, mentre questi lotta per continuare a sopravvivere, fino a che non è proprio lui ad incarnare l’idea della vendetta e della giustizia vetero testamentaria, di un Dio che punisce gli uomini per le loro colpe. Anche l’angelo buono che Glass incontra perisce per mano umana (l’indiano che lo aiuta con un senso angelico di carità e solidarietà) e nel bel mezzo di tutto, compare una chiesa semidistrutta, un luogo violato in cui una campana si muove ma non suona (anche se sovente nel tessuto sonoro del film sentiamo l’echeggiare di suoni che ci rimandano a quelli di campane, campane del giudizio);
 




 
qui l’angelo indiano e poi Glass hanno di fronte un Cristo crocifisso ma anche un Lucifero che mangia gli uomini, come di fronte ad un giudizio universale che inchioda gli uomini alle loro colpe. L’illusione di potersi salvare abbracciando gli affetti più cari, svanisce e si scioglie come il ghiaccio a primavera, Glass si ritrova ad abbracciare un tronco di albero secco, arido che non dà frutto.  




 
 
E’ una umanità dolente, affranta, senza illusioni e senza scampo quella che anima i gelidi paesaggi di The revenant. Glass risorge dalla tomba (quella mano che esce dalla terra ha echi romeriani, e Glass è un vero zombie vendicatore)

 
e striscia sofferente verso la salma inerme del figlio, raccoglie una manciata di terra e poi abbraccia il figlio quasi soffiando su di lui il proprio alito vitale; Glass per un attimo è immagine di Dio, il Dio della Genesi che dona il soffio vitale all’uomo (Dio poi formò l'uomo con la polvere della terra e soffiò sul suo volto un soffio vitale, e l'uomo divenne un essere vivente), ma la sua è una breve illusione perché il figlio non può tornare a vivere, il figlio non può rigenerarsi; e allora Glass è in quel momento profondamente umano nella sua impotenza e fragilità, nel suo essere imperfetto e limitato.
 





 
 
Beffardamente, quasi allo stesso tempo, Fitzgerald arringa il giovane Bridge dicendogli: “Io sono Dio per te perché ti ho salvato due volte”. Salvare e rimettere al mondo avvicina a Dio, ma non colma la distanza (e il film di Inarritu sembra quasi voler fermamente ricordare i limiti dell’uomo in un periodo storico in cui la scienza sta aprendo orizzonti inaspettati che conducono l’uomo verso nuove frontiere e prospettive).
 
 
Proprio Fitzgerald si pone come l’uomo che di fronte al silenzio di Dio reagisce con il cinismo e la rabbia di chi non ha niente da perdere (così si esprime nel raccontare di un avventuriero:  “E si dà il caso che Dio è uno scoiattolo, una grasso scoiattolo…e quando pensavo di aver trovato la grazia, ho sparato a quel figlio di puttana e me lo sono mangiato.” ) e diventa l’inevitabile capro espiatorio del sacrificio finale, dell’olocausto offerto da Glass a Dio (“Solo di Dio è la vendetta”; riecheggiano le parole dell’indiano incontrato in precedenza).