lunedì 16 settembre 2013

I compagni

I COMPAGNI


Regia: Mario Monicelli
Paese di produzione: Italia, Francia, Jugoslavia
Anno: 1963
Durata: 128 min
Colore: b/n
Genere:  storico, drammatico
Soggetto: Age, Scarpelli, Mario Monicelli           Sceneggiatura:  Age, Scarpelli, Mario Monicelli
Produttore: Franco Cristaldi
Casa di produzione: Lux Film, Vides Cinematografica, Méditerranée Cinéma Production, Avala Film
Fotografia: Giuseppe Rotunno    Montaggio:Ruggero Mastroianni   Musiche: Carlo Rustichelli
Scenografia: Mario Garbuglia    Costumi: Piero Tosi
Interpreti e personaggi:   Marcello Mastroianni: Prof. Sinigaglia    Renato Salvatori: Raoul    Annie Girardot: Niobe    Gabriella Giorgelli: Adele    Folco Lulli: Pautasso    Bernard Blier: Martinetti
Raffaella Carrà: Bianca    François Perier: maestro Di Meo   Vittorio Sanipoli: cavalier Baudet
Mario Pisu: l'ingegnere    Kenneth Kove: Luigi    Franco Ciolli: Omero

IL FILM VINCE IL FESTIVAL DI ACAPULCO E FOLCO LULLI (PAUTASSO) IL NASTRO D'ARGENTO COME MIGLIORE ATTORE NON PROTAGONISTA. HA INOLTRE DUE NOMINATION ALL'OSCAR, PER IL SOGGETTO E SCENEGGIATURA ORIGINALI.


LA TRAMA

L'Italia del primo Novecento

Una serie di foto, accompagnate da canzone di fine Ottocento, ci introducono all’ambiente neo industriale del nord, che è lo scenario del film. Vediamo anche alcuni dei personaggi in rassegna, concludendo con alcune immagini di folla in piazza a protestare.

Le condizioni precarie degli operai; Omero

Torino, fine Ottocento: il risveglio del giovane Omero che all’alba se ne parte per andare a lavorare in una fabbrica tessile: nella sua casa abitano in tanti, in condizioni precarie e al freddo (l’acqua per lavarsi è gelata). La giornata in fabbrica scorre nel rumore più infernale, con una breve pausa per il pranzo. Durante il pomeriggio un operaio si ferisce ad un macchinario, perdendo una mano. I compagni, attendendolo all’uscita dell’ospedale, trovano l’occasione per confrontarsi e rivendicare, presso il padrone, un trattamento più umano (attualmente lavorano 14 ore al giorno e hanno mezz’ora di pausa).

Un tentativo maldestro di protesta

Una delegazione, guidata dall’operaio Martinetti, si reca presso la direzione per chiedere una riduzione dell’orario, senza ottenere risultato (l’ingegnere capo non si fa trovare). Si organizza una dimostrazione per la fine della giornata, anticipando l’orario d'uscita dal lavoro. Il tentativo fallisce miseramente e a pagare è l’operaio Domenico Pautasso, che si era offerto di suonare la sirena anticipatamente; questi viene sospeso per due settimane. Il Pautasso infuriato, si scaglia contro i colleghi pusillanimi. Sopraggiunge un treno da cui, clandestinamente scende un uomo (il prof. Sinigaglia).

Maestri e professori

Il maestro Di Meo, in un fatiscente edificio, tiene lezioni scolastiche per gli operai che vogliono imparare a leggere e scrivere; è qui che si presenta il professor Sinigaglia, che arriva da Genova e chiede ospitalità al maestro. Nella stessa aula, il giorno seguente si tiene un'improvvisata assemblea alla quale interviene il prof. Sinigaglia; questi infiamma la platea invitando gli operai ad organizzare uno sciopero, coordinandone le modalità. Così il professore invita gli operai a fornirsi di scorte di cibo a credito, per resistere il più a lungo possibile. In realtà anche il professore sembra essere il classico morto di fame.

Un crumiro disgraziato

Sinigaglia viene accolto nel monolocale in cui abitano diversi operai; qui si presenta un certo Mustafa, un siciliano immigrato che si dice pronto ad entrare in fabbrica il giorno successivo, quello previsto per lo sciopero. Sinigaglia e Pautasso propongono di punire il crumiro ma la loro spedizione si ritrae di fronte alla palese miseria che appare loro nell’abitazione di Mustafa.
Ha inizio lo sciopero; gli operai stazionano fuori della fabbrica; l’ingegnere commenta stizzito l’evento, quando arriva il crumiro. Il siciliano non viene accettato dai dirigenti dell’industria e si ribella, minacciandoli con un coltello; viene arrestato.

Miseria e nobiltà

Omero porta il denaro, raccolto con una colletta, alla famiglia del crumiro siciliano, in evidente difficoltà; nel frattempo l’ingegnere e i suoi collaboratori vanno a fare visita al padrone della fabbrica, che è nella sua lussuosa villa, nel bel mezzo di una festa di ragazzi; questi consiglia di tagliare le vie assistenziali agli operai in sciopero, così da vincerli per sfinimento. Omero conduce la giovane figlia del crumiro a raccogliere il carbone lanciato dagli operai da un treno fermo sulle rotaie. Il professor Sinigaglia intrattiene il ferroviere di guardia, cercando di conquistarlo alle proprie idee. Una mensa militare, improvvisata, viene chiusa; Bianca, la sorella di Omero, riesce ad ottenere un pasto caldo, grazie all’aiuto di un militare innamorato di lei.

Guerra tra poveri

I padroni sembrano voler trattare e Sinigaglia detta, al comitato, le condizioni da presentare ai dirigenti. La timida rappresentanza del comitato (Martinetti, Borro, Pautasso, Cesarina) si presenta in direzione senza ottenere niente di sostanziale; l’ingegnere minaccia di chiamare, al loro posto, i disoccupati di un’altra azienda tessile, cosa che puntualmente avviene. Gli operai si ritrovano allora alla stazione per parlamentare con i crumiri giunti da lontano (da Saluzzo); il professore cerca di negoziare, ma lo scontro è inevitabile. Pautasso muore investito da un treno in corsa che sopraggiunge da un binario parallelo.

Soli contro tutti

Al capezzale dell’operaio morto Bianca esterna le proprie preoccupazioni per l’operato del professore, che sopraggiunge euforico per la notizia che i crumiri sono stati allontanati dal prefetto. Il professore ha una discussione con Raul Bertone, che abita con lui: emerge l’immagine di un’idealista solitario, forse un po’ folle. Il maestro Di Meo ha una discussione con il preside che requisisce i soldi della colletta raccolta tra gli alunni, per l’operaio morto; Omero oggi non ha niente da portare ai propri compagni; quindi picchia il fratellino che sembra non volerne sapere di studiare.

L’odissea del professor Sinigaglia

Il padrone, preoccupato per le sorti dell’azienda, suggerisce, infuriato, ai propri subalterni: “O si ferma il professore o si calano le brache”; questi, suonando un flauto, elemosina del denaro in un lussuoso ristorante; qui incontra la figlia di uno degli operai che rivendica un diverso destino, da quello preparatogli dal padre, che voleva inserirla in fabbrica (in realtà fa la prostituta). Il maestro Di Meo viene trasferito; un ultimo saluto tra i due pazzi idealisti. Sinigaglia sfugge poi all’arresto da parte di due uomini della prefettura e trova rifugio presso la casa della giovane prostituta dove passa la notte; lei gli confida che i padroni sono ormai sul punto di cedere.

Lo scontro

Martinetti viene chiamato dal vice ingegnere per sistemare la stufa di casa che si è guastata; questa è in realtà l’occasione per discutere della situazione pesante in cui si trovano ormai gli operai e l’ingegnere bluffa, confidando che i padroni possono resistere per anni in quella situazione. Martinetti riunisce il comitato ed invita al rientro al lavoro; si scontra pesantemente con Raul, ormai convinto delle idee del professore. Raul manda a chiamare Sinigaglia per convincere gli operai a non rientrare al lavoro. Il professore con un discorso emozionante infiamma gli operai che invita ad occupare la fabbrica, la loro fabbrica per cui versano sudore e sangue ogni giorno. Viene chiamato l’esercito a presidiare lo stabilimento, mentre il corteo degli operai sta sopraggiungendo. I soldati sparano sul corteo e Omero rimane ucciso; Bianca  si scaglia contro Sinigaglia, a suo avviso il vero colpevole della morte del fratello; il professore viene poi condotto via dalle guardie.

Un nuovo idealista

Raul, nascosto, braccato dalla polizia, mentre il professore è agli arresti, decide di andarsene con il primo treno che passa; gli operai tornano al lavoro; un ragazzino, che sostituisce Omero, entra per ultimo.



Aspetti cinematografici rilevanti


Il film vede scorrere i propri titoli di testa su immagini d’epoca alternate a foto di scena tratte dai set. L’intento del regista è chiaro fin da subito: il quadro d’epoca che ci vuole fornire è il più realistico possibile, al punto da poter accostare amabilmente foto originali ad immagini prese dai set ricostruiti. Su questa vocazione realistica il regista innesta i toni della commedia all’italiana, per virare poi in un finale tragico.

    


Il professor Senigaglia giunge su un treno merci, proprio mentre gli operai stanno discutendo animatamente in seguito al fallito tentativo di sabotaggio della giornata lavorativa. Il professore, proveniente da Genova, trova dunque gli operai divisi e in una situazione di impaccio, desiderosi di far sentire le proprie ragioni, ma, al tempo stesso, incapaci di imbastire forme di protesta efficaci e risolute; il suo arrivo avviene, cinematograficamente,  con riprese in campo lungo a macchina fissa, mentre gli operai della filanda sono in aperto contrasto tra  di loro. Nel finale Raul Bertone sale su un treno in corsa, abbandonando affetti e certezze. Egli diventa l’allievo di Senigaglia, a cui toccherà proseguire la lotta idealistica tracciata dal “maestro” (del Senigaglia arrestato sappiamo che si presenterà alle elezioni nella speranza di ottenere un seggio in Parlamento e dunque la libertà). Le immagini fisse dell’inizio sono contrappuntate dal finale movimento di macchina (la cui posizione coincide con una semi soggettiva di Raul). Qualcosa si sta muovendo, sembra suggerirci il regista, la realtà statica ed immobile dell’inizio è stata scossa dai fatti narrati nel corso del film. Il movimento di macchina è dinamico come la realtà che si va evolvendo dopo i fatti narrati. Il finale vero e proprio, però, contraddirà questa impostazione.





     

L’arrivo al lavoro dell’operaio meridionale, che ottiene il permesso di svolgere regolarmente la propria giornata dai compagni del comitato, è sottolineato figurativamente da una inquadratura in cui la profondità di campo suggerisce un’idea non soltanto narrativa: i due amministratori dell’industria, dall’alto, osservano il crumiro avvicinarsi alla fabbrica. La figura del povero disgraziato è come schiacciata tra quelle dei due “padroni” in primo piano. Una sorta di trittico pittorico al cui centro sta la minuta icona del povero lavoratore, deriso dai capitalisti. Le proporzioni delle figure indicano un rapporto di forze (di classe sociale e psicologico) piuttosto evidente.


                                            

In diversi momenti del film il regista filma le situazioni con lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa si muove tra i personaggi, con ristrette panoramiche che colgono simultaneamente la realtà temporale del fatto descritto (unità di luogo e tempo aristoteliche), ma esprimono anche, tematicamente, il senso di comunione e appartenenza degli operai, confermando il significato più profondo del titolo del film.
Tre sono i piani sequenza più significativi e lunghi:
 Scena in ospedale: gli operai sono in attesa di avere notizie sul collega ferito; una infermiera li caccia via in malo modo. Mentre gli operai se ne vanno, il meridionale si attarda, attratto dal profumo del cibo che un’infermiera sta portando ai degenti. L’uomo segue il carrello ma resta rinchiuso fuori, all’ingresso principale dell’ospedale. Una sequenza esemplare. La mdp, partendo dall’alto inquadra la suora che invita gli operai ad andarsene quindi scende su questi ultimi che si allontanano; l’abile sceneggiatore rende movimentata l’uscita inserendo la gag di Raoul che corteggia la giovane collega. A quel punto la mdp sposta lo sguardo sull’operaio meridionale e ne segue il tragicomico viaggio all’inseguimento del agognato cibo. La scena evidenzia la condizione di subordinazione e scarsa considerazione sociale di cui soffrono i “compagni”. Ribadisce, altresì, il ricorrente motivo della fame, vero tormentone che accompagna le vicende principali dei protagonisti. La fame degli operai, le porte che si chiudono, l’assistenza e la carità cristiane non sembrano avere spazio anche per loro.
                                                                                            



     

 Scena in fabbrica: si deve scegliere che farà suonare la sirena mezz’ora prima del previsto. Il ragazzo passa tra i colleghi chiedendo di riempire un foglio in cui ciascuno  dovrà scrivere il proprio nome.  La stretta panoramica sui personaggi ci racconta delle esitazioni e delle incertezze degli stessi, per chiudersi con l’amara constatazione dell’analfabetismo degli operai
 Scena a casa di Pautasso: la veglia funebre a casa dell’operaio morto schiacciato da un treno. I movimenti di macchina e le ripetute panoramiche ci accompagnano in un virtuosistico piano sequenza di oltre tre minuti. Di nuovo la scelta stilistica sembra volerci suggerire il comune pensare e “sentire” dei personaggi, interrotto soltanto dal dialogo tra i due ragazzi (fra cui una giovanissima Raffaella Carrà) che sembrano incarnare una più decisa volontà di cambiamento (che Omero chiarirà nella reprimenda al fratello svogliato a scuola; l’educazione dunque come strumento di liberazione) ed esprimono una rabbia che va oltre lo scoramento dei “compagni” adulti (in particolare la ragazza ce l’ha con il professore, reo di aver gettato nei guai l’intera comunità degli operai, e tale rabbia sarà confermata nello sfogo del finale dopo la morte di Omero; la donna che guarda al contingente e all’essenziale necessità di sopravvivere).

                                              

2) Omero consegna la colletta, fatta dagli operai, alla famiglia di Arrò. Qui scopre la realtà misera e disperata in cui vivono i figli e la moglie dell’immigrato (ed è lo sguardo puro di Omero a scoprire lo “scandalo”). Il regista, impietosamente, con uno stacco di montaggio dal valore puramente tematico, associa la figura intera del piccolo Arrò al campo medio dei giovani rampolli torinesi intenti in un infantile gioco di società. La miseria e la ricchezza a confronto diretto. I giovani borghesi sono come bambini inconsapevoli e ciechi (la ragazza bendata), il bambino proletario è la vittima altrettanto inconsapevole del sistema cinico e crudele in cui sta vivendo. In letteratura un tale accostamento di immagini potremmo definirlo come un ossimoro (qui potremmo parlare di montaggio analogico o delle differenze).

     






L’uso della profondità di campo, in senso ironico:
l’arrivo del professor Senigaglia nella fatiscente scuola improvvisata per gli operai. Il maestro sta spiegando la grammatica italiana e, sullo sfondo, vediamo comparire la sagoma del professore, fuori dall’azione, fuori dalla storia. La mdp, uscendo dalla stanza, ci conduce all’esterno e qui vediamo il professore presentarsi al maestro. Sullo sfondo un operaio ha scritto sulla lavagna: “A morte il re”. Il professore è sfinito e si addormenta sul posto, mentre il maestro indottrina i suoi allievi sull’importanza dell’educazione. Il sonno di Senigaglia è emblematico di un atteggiamento ambiguo di quest’ultimo, atteggiamento che rimarrà coerente per tutto il film e che ci suggerisce, forse, il pensiero, al riguardo, dello stesso regista; il professore sembra non credere all’educazione del popolo (tanto è vero che non si impegna in prima persona nell’educazione degli operai), ma punta all’azione, alla prassi, allo scardinamento delle posizioni padronali attraverso una condotta risoluta e combattiva. In questo, Monicelli sembra confermare la distanza esistente tra gli intellettuali e i proletari che rimangono come pedine di scambio all’interno di un gioco di forze più grande di loro (è con l’arresto del pericoloso professore che i padroni pensano di aver chiuso la questione e sono gli stessi ingegneri che dissuadono gli operai dal seguire le orme del Senigaglia, braccato dalla polizia, come il vero colpevole dell’intera faccenda; mentre sappiamo che le rivendicazioni degli operai partono da più lontano e trovano in Senigaglia, semplicemente, un coordinatore più raffinato e preparato).
                                  
                                 


Il finale, in questo senso, è leggibile in due sensi: la partenza di Raul e la notizia della candidatura di Senigaglia alle elezioni, aprono alla speranza; il rientro in fabbrica, composto e dimesso degli operai, induce a leggervi una resa dei compagni in lotta, alle ragioni della fame e dei bisogni materiali, il tutto reso ancora più amaro dall’ingresso in fabbrica del piccolo fratellino del giovane morto, il simbolo del fallimento degli ideali del maestro (“l’educazione ci libererà”). Gli operai, tornati a lavorare saranno rinchiusi nella loro prigione quotidiana e il cancello chiuso è proprio l’ultima sconsolata immagine del film (in questo senso il canto fraterno dei lavoratori suona ancora più beffardo ed impotente).




     

Che la posizione di Monicelli sia tutt’altro che netta, nell’enfatizzare la volontà di cambiamento degli operai, lo si evince anche dalla figura della giovane Niobe che si vende ai signori per condurre una vita più agiata di quella garantitagli dal padre lavoratore. La sincera partecipazione alla solitudine del professore……


Spunti storici:
Il film di Monicelli parla essenzialmente di contrasti di classe; non soltanto gli operai contro i padroni, ma anche un confronto tra le idee progressiste degli intellettuali di formazione borghese e i bisogni materiali di un proletariato sfruttato e indigente; a questo si aggiunga lo scontro, letteralmente fisico, tra forze dell’ordine e gli scioperanti. L’affresco di Monicelli ha i contorni ben definiti dell’Italia dell’ultimo decennio del XIX secolo, quell’Italia in cui si costruiva il futuro socialismo e prendeva corpo quella coscienza di classe cui contribuirono figure di intellettuali come Turati, Bissolati e Prampolini; richiama altresì alla situazione contemporanea all’uscita del film (1963) in cui si stava evolvendo il primo tentativo di governo di coalizione aperto alle forze della sinistra (il partito Socialista).
La condizione operaia di fine Ottocento in Italia; la lotta per una riduzione di orario che, come nella vicenda narrata, era di 16 ore; la vita delle famiglie degli operai in case anguste, ambienti malsani e sovraffollati; il problema della integrazione degli immigrati dal sud; i crumiri e la difficoltà di creare un fronte comune dei lavoratori in grado di contrapporsi alla forza contrattuale degli imprenditori; lo scollamento tra intellettuali e proletari e la difficile ricerca di un’intesa; la diffusione delle idee socialiste; la piaga dell’analfabetismo; i luoghi ricostruiti ed evocati sono quelli del nord industriale: Genova (da cui proviene il professore Sinigaglia) e Torino; la repressione finale del corteo richiama alle vicende delle manifestazioni di fine secolo finite nel sangue (celeberrima quella che vide protagonista Bava Beccarsi); il carbone come fonte energetica cui si aggrappano disperatamente i poveri operai della filanda; la natura delle industrie italiane che producevano con un certo successo nei settori dei filati e del tessile; l’assenza di organizzazioni sindacali ancora radicate sul territorio.
Unico riferimento storico preciso è l’evocazione dell’anniversario della morte di Garibaldi.

Contatti con il presente del film: La nascita del primo governo di unità nazionale, comprendente il partito Socialista, che suscitava entusiasmi e aspettative; il film sembra offrire uno sguardo disincantato sulla possibilità di una saldatura tra le esigenze più profonde del proletariato e gli ideali di riscossa degli intellettuali di sinistra.
Il 20 luglio 1900 muore, in un attentato anarchico, Umberto I, divenuto re il 9 gennaio 1878 alla morte di Vittorio Emanuele II.
Dunque il film potrebbe collocarsi nel 1901.
Sono del 1898 i tumulti operai e contadini (in difesa delle libertà, ma soprattutto per protesta contro l’aumento del costo del grano; rivolte nate come contadine a cui si aggiunsero poi quelle operaie) che scuotono il paese e sfociano nell’episodio di Bava Beccarsi a Milano, dove la folla dei dimostranti è respinta a cannonate.
E’ del marzo 1898 una legge che impone una assicurazione sugli infortuni al lavoro (dunque la vicenda dovrebbe essere antecedente al 1898) e allora, in quel senso, l’anniversario sarebbe il ventennale della morte di Vittorio Emanuele II (1878).

Negli ultimi venti anni del XIX secolo si era andato consolidando un movimento di protesta generalizzato, ma non ancora organizzato, a partire dalle campagne. Il numero sempre più grande di salariati aveva imposto una serie di problematiche che le agitazioni di quegli anni portarono alla luce. Il settore tessile della nascente industria italiana era, in questo senso, il più vicino alle rimostranze dei contadini e dei braccianti della Padania (Romagna e Lombardia in particolare).
L’industria italiana attraversava una fase liberistica in cui il padronato aveva buon gioco nell’imporre logiche di sfruttamento ad un proletariato ancora incapace di darsi una organizzazione operaia, a seguito dello smantellamento dei vincoli corporativi di medievale provenienza. L’industriale italiano, quindi, sentiva come lesiva del proprio potere economico e contrattuale, ogni ingerenza e richiesta degli operai, pretendendo una illimitata libertà di azione nei rapporti di lavoro.
Così il proletariato dell’industria italiana di fine secolo si trovava in una condizione di debolezza e precarietà, completamente alla mercè dell’arbitrio del padrone di turno.
“Mancava, ovviamente, qualsiasi garanzia del posto di lavoro o del salario, che era già bassissimo, ma che l’imprenditore poteva decurtare a piacimento operando su una complessa frantumazione dei cottimi e delle mansioni, patti jugulatori, lunghi tirocini non retribuiti, versamenti di cauzioni che andavano perdute se l’operaio si licenziava o era licenziato per una serie di motivi, tra i quali ovviamente era lo sciopero o l’appartenenza ad associazioni in cui si proclamassero dottrine antisociali. I regolamenti severissimi, le sanzioni disciplinari, i rituali di comportamento imposti nelle fabbriche dell’epoca sembravano concepiti per trasformare abitudini di vita, atteggiamenti e l’intera personalità del contadino appena inurbato – che si riteneva per questa sua natura tardo ad apprendere, tendenzialmente incivile ed amorale -, educandolo ai nuovi valori di una gerarchia meccanica in cui l’etica del lavoro era rigorosamente misurata in termini di sfruttamento umano.”
Le condizioni di vita degli operai erano dunque misere ed il lavoro prevedeva l’utilizzo, sempre più frequente, di donne e bambini. Questi ultimi, nel tessile, avevano in media tra i quattro e i sette anni. Secondo censimenti fatti nel 1876, soltanto il 27% della forza lavoro delle industrie era costituito da maschi sopra i 14 anni. Gli orari erano stabiliti arbitrariamente dai datori di lavoro, i quali sfruttavano anche i turni di notte e obbligavano gli operai a lavorare spesso in precarie condizioni igieniche ed in ambienti scuri per preservare la qualità dei colori delle stoffe.
Nei primi anni Ottanta sorsero una serie di associazioni operaiste che puntavano al miglioramento delle condizioni di lavoro del proletariato, guardando alle esigenze primarie dei lavoratori. Lentamente sorse l’esigenza di inserire le rivendicazioni operaie in un più ampio disegno di respiro politico, che prevedesse una presa di posizione politica dei lavoratori. Prima che questa presa di coscienza venisse a compiersi, il governo italiano intervenne con durezza reprimendo con la forza ogni tipo di manifestazione popolare volta ad imporre la causa operaia all’attenzione generale. E’ in questo contesto che si inserì l’opera di molti intellettuali socialisti di estrazione borghese (tra cui spiccava il nome di Filippo Turati), i quali cercarono di convertire gli operai alla causa socialista, indirizzando la lotta verso la piena partecipazione alla vita politica del tempo. Turati fondò la “Lega Socialista Milanese” nel 1889. Genova fu la sede che nel 1892 diede il via alla formazione del Partito dei lavoratori italiani che di lì a tre anni sarebbe divenuto il Partito Socialista Italaiano.
Proprio di Turati furono i primi contributi teorici ad una definizione dell’azione più concreta ed immediata nell’ambito delle rivendicazioni sociali di fine secolo: “chiarire la distinzione tra socialismo e i vari gruppi democratici e libertari, calare gli sforzi analitici degli intellettuali socialisti nella realtà delle lotte operaie, accingersi quindi ad una quotidiana azione politica che desse base sicura all’organizzazione del proletariato italiano.” E’ del 1886 l’adesione del non ancora  trentenne Turati alle idee socialiste. Su queste dichiarazioni d’intenti si può leggere lo spessore della figura del professor Senigaglia, per quanto filtrata da uno sguardo tutt’altro che enfatico di Monicelli.
La vicenda de “I compagni”, dunque, si colloca, idealmente, attorno al 1888 (anniversario della morte di Vittorio Emanuele II), alla vigilia di quegli avvenimenti che avrebbero portato le disomogenee e primitive organizzazioni operaie a collocarsi nella più ampia lotta di affermazione della sinistra socialista italiana. Era proprio di Turati la convinzione che la divisione tra intellettuali e operai avesse condannato, fino ad allora, il movimento alla sterilità.   (Raffaele Romanelli “L’Italia liberale” Il Mulino vol. II)

“Non a caso, la maggior parte degli scioperi dal 1895 al 1898 avviene a Torino nelle industrie tessili, sia per rivendicare l’aumento del salario, sia per chiedere la riduzione dell’orario di lavoro, sia per protesta contro le multe. Sono agitazioni improvvise, fiammate di ribellione che nella maggioranza dei casi non sortono risultati, e non si trasformano in una resistenza organizzata. Ma è dagli opifici tessili che più esteso e prepotente parte il grido di rivolta, quello che viene raccolto dagli scrittori socialisti, quello che costituirà fino all’inizio del secolo nuovo il maggiore motivo di denuncia sull’intollerabilità della condizione operaia.”
Nel 1897 i salari non raggiungevano le 3 lire giornaliere, per le filatrici si scendeva a 1,30 lire, per i bambini si arrivava addirittura a 30 centesimi al giorno. Le multe erano sistematiche: ad esempio presso il cotonificio Poma si comminavano 30 centesimi di multa se si era sorpresi a parlare e 20 centesimi per 5 minuti di ritardo.. Frequente era anche il lavoro a cottimo, in cui gli operai erano pagati un tanto a metraggio. Nelle filature dove non vi erano due turni di lavoro si arrivava a 14 ore consecutive in fabbrica.. Nel cotonificio Bass (dati del 1898), le bambine di 11 anni lavorano per 11 ore al giorno, riscuotendo 70 centesimi. Questa è la descrizione del luogo: “Vi è un camerine dove vivono un centinaio di operaie, che è a forma di soffitta, con pochi e inadatti abbaini. Tra la polvere del cotone e quella della tinta, formano una nuvola continua e densa che è impossibile descrivere. Su 10 operaie addette in sla, la metà muore per tubercolosi.”
Cotonificio Poma, 1895: 700 operaie lavorano in un grande camerine chiuso ermeticamente. La polvere che produce il cotone, tanto nociva, è alta parecchi centimetri sotto i telai. Il termometro segna 37° d’estate.
1896: “Nelle filande torinesi le operaie lavorano in media 16 ore al giorno, sedute davanti ad una bacinella d’acqua bollente, con le dita là dentro a scuoterne i bozzoli e a tirarne il filo…per l’aria si alza un vapore che toglie il respiro; il calore è insopportabile.”
Una legge del 1886 vietava le prestazioni notturne ai minori di 12 anni e la limitava a 6 ore per quelli dai 12 ai 15 anni.
Nel 1899 le maestranze della seta erano al 70% donne, quelle del cotone al 60%, quelle della lana al 45%.
Secondo una inchiesta della socialista Gina Lombrosa, presso il quartiere della Crocetta, condotta nel 1896 risultava che: in una famiglia di operai, con in media 6 componenti, vi erano entrate economiche per un totale di 3 lire e 40 centesimi; in una famiglia di un mercante 6 lire, in una famiglia di un insegnante 20 lire.
Il prezzo del pane, poi, era di 35 cent. Al chilo; 1 etto di burro costava 30 cent.; 1 kg di pasta 50 cent.; l’affitto di due camere 15 lire al mese; la legna costava 35 cent. al miriagramma.



L’azione di protesta:
Nell’azione degli intellettuali socialisti torinesi vi è una componente di spirito cristiano solidaristico alla De Amicis. Essi fanno appello allo spirito di giustizia e di fratellanza che anima gli operai e questo anche per superare una generale diffidenza dovuta alla campagna antisocialista sostenuta dai clericali.
Gli aderenti al partito, poi, erano raccolti nel ceto istruito ed erano piccoli nuclei di idealisti “che aspiravano a migliorare, a cambiare, sia pure con propri sacrifici, le sorti dei loro concittadini….” (Gina Lombroso, parlando del proprio padre socialista).
Gli intellettuali socialisti torinesi non si identificano con la classe lavoratrice, la vogliono aiutare.
Gli scioperi del 1898 – 99, di matrice socialista, vivono di luce riflessa a Torino dove non si registrano manifestazioni di massa (mentre arrivano gli achi delle battaglie milanesi e della repressione di Bava Beccarsi). La tradizione moderata della città, le tenere radici socialiste nel popolo, fanno si che la lotta torinese diventi una corsa alle elezioni dove l’8 giugno 1899 il PSI ha una notevole affermazione (presentando un programma di riforma e non di rivoluzione sociale).
A questo proposito, Giolitti, nelle sue Memorie, riscontrava l’inutilità, per Torino, di un provvedimento governativo come lo stato d’assedio.
Dal 1882 il diritto di voto si era esteso agli operai alfabeti e dalle elezioni del 1895 ha inzio una massiccia opera dei socialisti per togliere dall’analfabetismo i lavoratori e per convincerli ad iscriversi nelle liste elettorali.
Mentre a Genova, nel 1892, nasce il Partito del Lavoratori Italiani, a Torino si va manifestando una realtà contraddittoria: “l’esistenza, da un lato, di un gruppetto di intellettuali borghesi ispirati agli ideali socialisti, dall’altra di una vasta rete di società operaie ancora, per la maggior parte, restie a una presa di posizione politica, e comunque lontane dall’aderire ad una organizzazione di partito in cui riconoscano l’espressione più matura della coscienza e della lotta del proletariato.”.
Così De Amicis descrive la stanza in cui si trova la sede del Comitato Elettorale Socialista:
 “….le pareti chiazzate di umido, le finestre coi vetri rotti, uno squallore di carcere…Erano operai che venivano dalle officine, coi capelli arruffati e le mani nere, studenti, impiegati, maestri; uomini maturi e giovinetti; qualcuno coi capelli bianchi. Entravano a coppie, a gruppi, a uno a uno, in silenzio. Alcuni parevano stanchi, altri sopra pensiero….poi si avvicinavano al tavolino e ciascuno dava il suo obolo…..”.


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