martedì 17 settembre 2013

Uomini contro

Uomini contro


FOTOGRAFIA: Pasqualino De SantisMario Cimini
MONTAGGIO: Ruggero Mastroianni
MUSICHE: Piero Piccioni
PRODUZIONE: FRANCESCO ROSI E LUCIANO PERUGIA PER PRIMA CINEMATOGRAFICA (ROMA), DUBRAVA FILM (ZAGABRIA)
DISTRIBUZIONE: EURO INTERNATIONAL FILM
PAESE: Italia, Jugoslavia 1970
DURATA: 101 Min
FORMATO: Colore PANORAMICA TECHNICOLOR, 35 MM.

SOGGETTO: 
romanzo "Un anno sull'altopiano" di Emilio Lussi (Ed. Einaudi)

LA TRAMA

Soldati infreddoliti, comparsi tra la nebbia, in marcia nel fango. Queste le immagini che scorrono durante i titoli di testa. Dissolvenza in nero, il buio della notte è rischiarato dalle esplosioni delle armi usate in combattimento. In un bosco la compagnia del tenente Sassu si trova a fronteggiare una pattuglia austriaca; tra la vegetazione compare un soldato che invoca “Kamerate”. E’ un fante italiano (Marrasi), un probabile disertore, che il tenente pone immediatamente agli arresti. Il giorno successivo egli stesso guiderà un gruppo di questi disertori, ammanettati e scortati dai carabinieri.
Sassu di fronte al soldato disperso esclama: “Sei capitato male”, rivelandosi un capitano severo ed intransigente.
Marrasi, insieme agli altri arrestati, viene legato a dei pali, posti al di fuori delle linee di difesa, in prima linea (Sassu parla proprio di punizione in prima linea).
A colloquio con il capitano Abbati, Sassu rivela di essere arrivato sul fronte carsico volontario, dopo che aveva trascorso quattro mesi in Trentino senza combattere (dunque disvela le proprie convinzioni patriottiche e gli entusiasmi idealistici di un giovane ancora inesperto di guerra). Il capitano gli spiega che monte Fior è il luogo strategico attorno a cui si sta combattendo. E’ un luogo strategico perché, come dicono i manuali, chi tiene la cima di una montagna ha il controllo del sottostante altipiano. Quel monte è andato da poco perduto e i soldati italiani, guidati dal generale Leone, stanno ritirandosi. “Per fortuna che i comandi austriaci sono imbecilli come quelli italiani” afferma il capitano, in quanto monte Fior, appena conquistato, non sarà difeso con l’artiglieria e quindi, presto, cadrà di nuovo in mano italiana. Emergono dunque due elementi chiave: la stupidità delle strategie di guerra e l’ottusa e sprezzante alterigia del generale Leone, isolato nell’inquadratura filtrata e delimitata dai bordi del binocolo del capitano.
Il battaglione in ritirata da monte Fior è sotto il tiro di mitragliatrici nemiche. Un soldato cade colpito, un esploratore ordina l’alt. Il generale, contrariato dal gesto dell’esploratore, ordina che quest’ultimo venga fucilato per atto di viltà. Il tenente Ottolenghi si oppone timidamente al comando del generale, quindi finge di eseguire l’ordine, facendo sparare in aria alcuni colpi di fucile e mostrando al generale il corpo di un soldato, caduto precedentemente sotto il fuoco nemico. Prima della finta esecuzione, Ottolenghi si ferma a parlare con l’esploratore che rivela di essere un contadino di vent’anni. Il generale, soddisfatto, esclama che la disciplina è un male doloroso, ma necessario in frangenti di guerra.
La ritirata del battaglione italiano viene accelerata dai bombardamenti nemici che colpiscono ripetutamente le truppe sbandate del generale Leone; un attacco della cavalleria austriaca completa la carneficina. Sull’altopiano, al termine della battaglia, non restano che corpi di uomini e animali, ammassati gli uni vicini agli altri.
La scena è costruita ponendo la mdp tra i soldati, con continui movimenti (macchina a mano, oppure uso amplificato dello zoom) che sottolineano la concitazione del momento. Il carrello finale sembra fissare il dramma, appena consumato, nell’immagine dei cadaveri dei soldati e dei cavalli che sono disseminati lungo l’altipiano. Tra le due situazioni vi è come uno stacco (non una dissolvenza), dettato dal bianco accecante del sole, che si confonde con il bianco della nebbia dentro cui si muovono continuamente i soldati, che paiono come fantasmi, sagome eteree in un luogo spettrale, quasi da oltretomba. Nel raccordo di sguardi, lo stacco successivo alla carrellata sembra quasi indicare come il generale Leone guardi verso i cadaveri disseminati lungo l’altipiano, ma già sia pronto al proprio discorso che porterà ad una nuova ed inevitabile carneficina.
Il generale Leone, guida la riscossa italiana: monte Fior deve essere ripreso ad ogni costo e al più presto. Il suo discorso alle truppe è contrappuntato dalle parole del capitano che sottolinea come quegli ordini porteranno alla morte di cinque mila soldati, vera e propria carne da macello.
L’episodio della caduta dall’asino del generale e l’aiuto che gli viene da un fante che non trova né la riconoscenza dell’alto ufficiale né la comprensione dei compagni.
Il primo assalto al monte Fior è scandito dallo squillo delle trombe che risuonano nella notte e che accompagnano l’inutile corsa dei soldati italiani, fermati dall’implacabile muro di fuoco eretto dalle mitragliatrici nemiche. Ombre, sagome umane si muovono in un luogo spettrale, illuminato a giorno dai razzi del nemico e dalle esplosioni delle bombe. La luce intermittente della mitragliatrice, che abbatte gli uomini con crudele precisione. Il buio, così come l’aveva iniziata, chiude la sequenza. A quel punto fanno la loro comparsa le trincee; falliti gli assalti si passa alla guerra di posizione.
Il generale Leone passa in rassegna le truppe lungo la trincea; il tenente Santini lo accompagna per primo; il generale controlla una baionetta e mostra ai soldati come su di essa sia impressa la parola “vittoria”. Con il tenente Ottolenghi si ferma a parlare dei coltelli e dell’uso che ne viene fatto dalla truppa: non soltanto per tagliare il pane essi dovranno servire. Con il tenente Sassu osserva la posizione del nemico, la distanza tra le trincee; si sporge arditamente, nonostante l’avvertimento del tenente; un cecchino nemico lo sfiora con un colpo di fucile; un caporale, lì presente, viene chiamato a sporgersi come il proprio generale, ma rimane ferito dallo sparo dello stesso cecchino. “Questi è un eroe” esclama con fanatico orgoglio il generale Leone.
Un primo assalto si rivela una fallimento. Cadono sul terreno molti uomini; i tenenti Sassu e Ottolenghi si trovano vicini, circondati da cadaveri e soldati agonizzanti. Ottolenghi mostra i primi segni di disperazione, mentre Sassu sembra ancora ligio ad un senso del dovere ancora solido (visivamente vediamo i due, rientrati dall’assalto, prendere due corridoi della trincea diversi e divergenti).
Il sottotenente Avellini, con due soldati, viene mandato in avanscoperta per tagliare i reticolati nemici per mezzo delle pinze. Le pinze non tagliano e un soldato viene ucciso. Trovate le pinze adatte, viene mandato in avanscoperta il tenente Santini, il quale si offre in pasto al nemico cercando volontariamente la morte; con lui un soldato semplice che farà la stessa fine. Santini capisce che l’ordine è assurdo, prova a far capire le proprie ragioni al maggiore Malchiodi, ma senza successo. Presentendo la morte offre ad Ottolenghi un porta sigarette che questi dovrà tenere in sua memoria.
Il tenente (pp) guarda di fronte a sé là dove è posizionata la mitragliatrice; scatta il desiderio di morire e farla finita con questa logorante attesa di una fine quasi certa. Le mani dell’uomo morente che si aggrappano al reticolato, dove il tenente resta come crocifisso. L’immagine si focalizza lentamente, il filo spinato e la mano come dettaglio di un sacrificio evitabile ed assurdo. A seguire, il montaggio ci offre lo stacco con la protesta dei soldati che gettano le armi sul fuoco. E’ evidente che la prima associazione che viene indotta nello spettatore è quella legata al dramma dei soldati, ormai stufi di essere trattati come carne da macello. Di fronte a tutto questo, al momento, il tenente Sassu resta come alla finestra.
La 4^, 5^ e 8^ compagnia si ammutinano, i soldati chiedono il riposo e il cambio nelle trincee dove sono ormai rinchiusi da mesi. Intervengono gli alti ufficiali. Il generale Stringari si rivolge al tenente Ottolenghi, la cui compagnia non ha partecipato alla sommossa. Il tenente, che poco prima aveva catechizzato i propri soldati sulla inutilità di una tale dimostrazione, rifiuta di eseguire l’ordine del generale che vorrebbe la sua collaborazione per rimettere in riga gli ammutinati. Sassu e Ottolenghi, prima di coricarsi, si parlano; Sassu sottolinea il coraggio del compagno il quale confessa di sperare in una rivoluzione popolare, in cui tutti i comandi vengano spazzati via e si instauri un governo socialista. Sassu è ancora convinto che la guerra sia necessaria per difendere l’unità nazionale.
Il generale Stringari e il maggiore Malchiodi discutono se applicare o meno la pena della decimazione nei confronti degli ammutinati. Il generale difende la posizione dei soldati, ma un ordine del generale Leone obbliga all’esecuzione della condanna capitale per alcuni uomini estratti a sorte dalle compagnie.
Una croce da baciare per i dieci condannati a morte legati al palo. Uno di loro tenta di fuggire ma viene ferito e condotto al luogo della fucilazione. In campo lungo le sagome dei soldati che cadono stto i colpi di compagni di sventura. Il montaggio lega la straziante immagine dell’esecuzione con quella di due pagine di un libro di ornitologia riccamente illustrato e colorato. Contrasto stridente che riporta ad uno squarcio di vita in un contesto macabro.
In trincea si legge, si passano immagini di donne nude, mentre il tenente Sassu ribadisce che anche quei sassi per cui si sta morendo sono parte dell’Italia. La feritoia 14 è oggetto di un tiro al bersaglio di un cecchino austriaco.
Le corazze Fasina ( e non Farina). “I soldati romani vincevano grazie alle corazze” esclama fieramente il generale Leone, ma i soldati che le indossano, inviati incontro al nemico, fanno la stessa fine di coloro che li avevano preceduti. Segue l’ennesimo assalto in cui la fredda e metallica mitragliatrice semina la morte tra le truppe italiane inviate inutilmente al massacro dal generale Leone. Dalla linea nemica si alzano le sagome di soldati austriaci che invitano gli italiani a desistere per non continuare in quella inutile carneficina. Per il tenente Ottolenghi è l’occasione di gridare tutta la propria rabbia contro i comandi scellerati che in quel momento si materializzano nella figura altera di Leone che fa sparare sui propri soldati fermi di fronte al fuoco nemico. Ottolenghi indica il generale come il vero carnefice, ma viene colpito dal fuoco nemico e finito poi dai colpi della mitragliatrice italiana. Sassu si precipita per riportare il corpo del commilitone dentro la trincea, ricevendo lo sdegnato rimprovero del generale.
La scena è costruita in modo che il generale Leone sia inquadrato dietro il filo spinato, come se risultasse veramente il nemico da combattere. I soldati austriaci che si sporgono dalle proprie postazioni sono sagome scure, indistinguibili e il tenente Ottolenghi guarda verso di loro con la comprensione che si avrebbe per un alleato. Sassu, che ha appena riportato il corpo di Ottolenghi dentro la trincea sembra ricevere l’ideale testimone dal commilitone morto. Lo accarezza e guarda con malcelato disprezzo in direzione del generale. Nella sequenza successiva sarà proprio Sassu a portare Leone alla feritoia 14, sperando che questi venga colpito dal cecchino nemico, ma invano (spettatore della scena è il soldato Marrasi che ritroveremo nella sequenza successiva guardare con sgomento il passaggio di un convoglio di cadaveri di militari, tra cui Ottolenghi, trasportati su muli). Sassu ha compreso le ragioni di Ottolenghi e le ha fatte proprie (lo conferma il fatto che mentre il generale si rivolge a lui per l’ennesimo ordine,questi è rivolto altrove e guarda, con dolore, il rientro in trincea dei soldati feriti).
Marrasi confessa a Sassu che alla prossima licenza non farà più ritorno al fronte e il rimprovero di quest’ultimo non pare più convinto come lo sarebbe stato in precedenza. Il camioncino con Sassu e Marrasi incrocia un drappello di soldati che sta faticosamente spostando un grosso cannone. E’ l’arrivo della tanto attesa artiglieria.
Ospedale militare: vengono passati al vaglio i casi di alcuni soldati su cui grava il sospetto di automutilazione volontaria. Un intransigente ufficiale valuta come volontarie tutte le ferite che vengono sottoposte alla sua analisi. I sospetti vengono deferiti al tribunale militare. Giunge sul luogo il tenente Sassu il quale si reca in visita del capitano Abati?. Questi giace in gravi condizioni in un letto di una affollata camerata. Sassu si avvicina al corpo del capitano e nel faccia a faccia tra i due (il tenente, tra l’altro, offre una bottiglia di cognac al capitano che constata come Sassu abbia imparato a bere) sentiamo echeggiare le parole di enfasi e trionfo che una voce dagli echi dannunziani dedica alla guerra (dal libro sappiamo essere le parole che il sindaco di Aiello pronunziò alle truppe del battaglione a riposo da quelle parti. “La guerra ha le sue belle attrattive…bello è morire per la patria…”.
E proprio da quella guerra che ha le sue belle attrattive cerca di fuggire Marrasi che corre verso le trincee nemiche, gridando Kamerat, in un ambiente completamente innevato. Il tenente Sassu ferma un soldato che corre all’inseguimento per abbatterlo, ma il maggiore Malchiodi è inflessibile; quella fuga è un disonore per l’esercito italiano, Marrasi deve essere ucciso.
Notte prima dell’ennesimo assalto, sebbene non siano arrivati né cioccolata né cognac, in una delle camerate volti anonimi di soldati qualsiasi commentano l’esperienza della guerra:gli ufficiali guadagnano venti volte più di loro, sono trattati bene; si sente l’inutilità del morire per una guerra del genere; contadini che soffrono nelle loro terre quanto dietro i sacchi di una trincea. Sono l’espressione del popolo oppresso e sacrificato ad ideali che neanche comprende.
Nel casotto degli ufficiali Sassu si indigna per la commessa di scarpe di cartone inviate ai soldati in prima linea; intanto giunge la notizia che il generale Leone è morto. Il generale si presenta all’improvviso tra gli ufficiali e richiama alla realtà: l’artiglieria è pronta a supportare i nuovi assalti.
L’artiglieria inizia, il giorno successivo, il proprio bombardamento, ma ad essere colpite sono proprio le truppe italiane. Per un errore di calcolo i cannoneggiamenti colpiscono le linee italiane, i soldati sono impauriti, entrano nei rifugi, ma non seguono gli ordini degli ufficiali di restare ai propri posti. Nel caos che si genera, il maggiore Malchiodi vede gli estremi di un atto di insubordinazione di fronte al nemico e ordina la fucilazione di dieci soldati. I compagni sono chiamati all’esecuzione dell’ordine, ma sparano in alto in segno di protesta. Il maggiore allora si fa giustizia da solo sparando personalmente ad alcuni dei condannati. Sassu lo minaccia con una pistola, ma il maggiore cade sotto i colpi del plotone da lui stesso formato.
Il generale Leone chiama a rapporto il tenente Sassu riguardo all’episodio di insubordinazione. Il tenente scagiona i soldati, prendendosi tutte le colpe; il generale chiede se egli ami la guerra, ma il tenente sembra evasivo; risponde che lui fa soltanto il proprio dovere, ma se la guerra è in ciò che ha visto, allora no, non può amarla. Il generale pone Sassu di fronte alle proprie responsabilità. Il tenente viene fucilato.


Quadro storico di riferimento:
“Isonzo 1917” di Mario Silvestri, Mondatori
“Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, Einaudi

Il cinema italiano, nei suoi due esempi più famosi, ha pensato di mettere in scena il lato meno eroico e trionfalistico della Prima Guerra Mondiale, vista dalla parte italiana. E’ lo spirito di insofferenza del 1917 e non l’entusiasmo del 1915, oppure la rassegnazione del 1916, che è oggetto di interesse delle storie cinematografiche italiane sulla Grande Guerra. Così nel tratteggiare la vita quotidiana delle trincee, prevale lo sguardo disincantato (come ne “La Grande Guerra”) o quello libertario e contestatorio de “Uomini contro”.
Vediamo come veniva descritta la vita di trincea dei soldati italiani, nei libri segnalati e segnaliamo la corrispondenza in immagini nei film in analisi.
Nel contesto di guerra, dove la paura e l’incoscienza erano compagni quotidiani dell’eroismo, vi era un sistema di controllo sui soldati garantito dai cosiddetti “aeroplani”, ovvero i carabinieri che, in schieramenti poderosi si aggiravano tra le fila dei soldati per impedire che qualcuno potesse fare il furbo o svignarsela. Era compito dei carabinieri rimandare in trincea o denunciare al tribunale militare coloro che venivano trovati senza giustificazione al di là della linea sorvegliata. (Vedi Uomini Contro in cui i carabinieri conducono i prigionieri sui luoghi delle esecuzioni e sono costante scorta al generale e agli alti ufficiali).
Passatempo piacevole, in prima linea, era lo spulciarsi dai fastidiosi pidocchi che albergavano tra gli indumenti sporchi dei soldati (ne La grande guerra vi è addirittura un capitolo, una strofa di una canzone, che richiamano alla presenza dei famelici insetti).
Oggetto di conversazione erano le donne (ricordiamo Francesca Bertini, oggetto continuo di discussione tra commilitoni nel film di Monicelli). Il rancio, già scremato dai passaggi tra artiglieria e comandi, arrivava alla trincea dopo attese interminabili ed era “una brodaglia fredda e fangosa, condita con pane sporco e ammuffito” (ricordiamo l’episodio, ne L.G.G. in cui Iacovacci non riesce a farsi portavoce dello scontento della truppa di fronte al generale in ispezione che constata la pessima qualità del rancio).
“Quando il maltempo imperversava, le trincee si trasformavano in vasche da bagno, in cui era poco igienico distendersi, ma da cui era altrettanto poco igienico sollevarsi”. Efficace, seppur comica, è la resa visiva di una tale situazione in “Charlot soldato” dove vediamo il protagonista dormire in un vero e proprio lago nelle camerate interrate nelle trincee. I condannati a morte in “Una lunga domenica di passioni” avanzano in corridoi inzuppati di fango. In “Uomini contro” vediamo invece come i luoghi di riposo e ristoro per i combattenti si trovassero in baracche non lontane, ma distinte dalle trincee.
Uscire di pattuglia la notte, tendere agguati alle pattuglie nemiche e subirne le imboscate; collocare tubi di gelatina sotto i reticolati; attendere l’alba in posizioni avanzate e cercare di osservare immobili quel che accadeva nella trincea nemica…….tutto ciò era rischioso; duro, rischioso, ma accettabile. Non così l’assalto.
Gli assalti erano preparati, spesso, tagliando in precedenza i reticolati che, in alcuni casi, vista la vicinanza delle trincee, si aggrovigliavano tra loro. Le cesoie, le bombarde, le gelatine erano usate per distruggere il filo spinato di intralcio agli assalti.
In questi ultimi venivano spesso utilizzati i reparti che si comportavano meglio, per cui agli stessi uomini (sopravvissuti) toccavano più assalti. Per resistere alla terribile tensione che tali azioni inducevano, i soldati si davano all’alcool che scorreva a fiumi alla vigilia degli attacchi.
Gli assalti erano, di norma, appoggiati e introdotti dall’azione dell’artiglieria che scardinava le difese avversarie, ma, non di rado, colpiva anche le truppe amiche. Questo era dovuto in alcuni casi ad errori di valutazione, in altri al ritardo con cui spesso giungevano gli ordini, ritardo che impediva un corretto posizionamento delle artiglierie in base alla posizione degli assalitori (nell’esercito italiano era quasi proverbiale l’elefantiaca impostazione della burocrazia militare.
In tutti i film citati vi sono scene di assalto ad una trincea nemica. Si colgono la paura e il terrore striscianti nei soldati pronti ad attaccare in “Deathwatch” e in “Orizzonti di gloria”; si sottolinea l’inutilità di strategie che comportassero attacchi senza l’ausilio dell’artiglieria in “Uomini contro” (per cui gli assalti diventavano vere e proprie carneficine annunciate e ottusamente volute dai comandi, indifferenti alla sorte dei singoli); Sempre in “Uomini contro” alcuni soldati, alla notizia dell’imminente attacco sembrano essere scettici sulla sua attuazione in quanto non hanno ricevuto il cognac e la cioccolata che di solito erano distribuiti alla vigilia delle azioni più pericolose; come in “Orizzonti di gloria” dove l’insensatezza dell’attacco ad oltranza si fa chiara nella coscienza degli assalitori e diventa motivo di rifiuto di esecuzione di ordini assurdi;  anche ne “La grande guerra” assistiamo ad alcune scene di assalti; particolarmente efficace la prima, preceduta dall’azione di distruzione dei reticolati, la notte precedente l’assalto. In questa vediamo come i soldati siano facili bersagli per le mitragliatrici nemiche e, soffermandoci sull’amaro commento del “capitano” al telefono, pure vittime sacrificate per obiettivi militari di dubbia consistenza (il ponte distrutto, ma a quale costo sembra chiedersi il capitano).
La terra di nessuno era popolatissima di morti di entrambe le parti. Lì i feriti, che non potevano più rialzarsi, urlavano il loro dolore inumano fino al dissanguamento….era estremamente pericoloso lanciarsi al salvataggio del compagno caduto…..
Man mano che la guerra proseguiva, il morale calava, ma gli stati maggiori, venendo assai raramente a contatto con la realtà, si erano creati una visione schematica della guerra stessa. Chi segnalava la decadenza dello spirito offensivo rischiava di passar per animo pavido, di essere silurato come disfattista.
La menzogna era quindi di norma nei rapporti tra superiori ed inferiori. Il rancio era invariabilmente sempre ottimo, il nemico invariabilmente depresso, le perdite nei singoli attacchi straordinariamente leggere….
Uno degli slogan del generale Capello era: “il successo positivo lo si ottiene al di là dell’ultima trincea nemica”. Questa ferma convinzione sembrava granitica ed indistruttibile negli alti comandi italiani.
Una testimonianza diretta dal fronte: “Ci fu un soldato che, toltasi tranquillamente una scarpa, si trafisse il piede con una fucilata. Poi, rimessosi la calzatura, corse all’ospedale da campo, gridando di essere stato ferito. Fu guardato, giudicato e fucilato.”
Nel 1917, sul fronte dell’Isonzo, si contarono 359 condanne a morte eseguite per autolesioni volontarie o diserzioni (ma molte centinaia furono le condanne poi non eseguite).
Centinaia furono le esecuzioni sommarie.
Il rito dell’esecuzione doveva servire di monito a tutti i presenti. Il plotone d’esecuzione era composto dai compagni dei condannati ed erano presenti rappresentanze di tutte le unità del reggimento. In prima fila venivano messi i più riottosi e lavativi perché ne ricevessero un monito duraturo. I condannati erano legati al palo “ma non cessavano di divincolarsi, la bocca schiumante e tremante, fino a che la scarica non ne spegneva la voce rauca. I testimoni si allontanavano generalmente con la sensazione di aver assistito ad un assassinio. Meglio dunque le esecuzioni sommarie, senza tanti complimenti e senza pedagogia.”
Rare erano le diserzioni, perché comunque vi era, nei soldati italiani, un naturale patriottismo, una diffidenza verso l’austriaco che derivava anche dalle notizie che giungevano sul trattamento imposto ai prigionieri di guerra nelle carceri austriache, dove la fame regnava sovrana.
Molti erano piuttosto i disertori o i renitenti alla leva. Nel solo 1917 se ne contarono oltre centomila.
Diversi furono i casi di ammutinamento e dure le repressioni che seguirono. Queste avevano una loro ragion d’essere anche in virtù del decalogo Cadorna, del 19 maggio 1915 che ammoniva così: “Il Comando Supremo riterrà responsabili i comandanti delle grandi unità…che si mostrassero titubanti nell’assumere, senza indugio, l’iniziativa di applicare, quando il caso lo richiede, le estreme misure di coercizione e di repressione.” Queste misure erano la fucilazione e la decimazione dei reparti incriminati, con estrazione a sorte dei condannati alla fucilazione. Famoso è il caso della brigata Ravenna, nel marzo del 1917 che, dopo cinque mesi in prima linea venne mandata a riposo in un paese a sud di Gorizia. Qui dopo appena due giorni la brigata venne richiamata al fronte per nuove azioni. La rabbia dei soldati esplose: volevano riposare, avevano passato mesi d’inferno. L’eco delle loro dimostrazioni di protesta giunse fino al comandante del corpo d’armata che applicò gli articoli delle circolari di Cadorna. Per una settimana due o tre uomini, estratti a sorte, venivano fucilati. Dopo venti esecuzioni il corpo d’armata si ritenne soddisfatto.
Episodio analogo racconta Lussu nel suo libro: 10 giugno 1917, battaglia dell’Ortigara. Le truppe italiane sono state ritirate dalla primissima linea per permettere all’artiglieria di sfondare le linee nemiche. I soldati sono rifugiati in caverne e pronti a ricevere l’ordine dell’assalto; fino ad allora non si potranno muovere dalle posizioni assegnate. Per un errore dell’artiglieria una di queste caverne è fatto oggetto di bombardamento. Cannoni italiani che sparano su truppe italiane. Alcuni soldati muoiono, gli altri, per non fare la fine del topo, escono dalla caverna. Il comandante del battaglione, ubriaco come prima di ogni assalto, ordina il rientro immediato nella grotta. Gli uomini disobbediscono. Viene allora ordinata la decimazione. Gli uomini del plotone scelto per l’esecuzione sommaria sparano in aria e nessun soldato viene colpito. Il comandante, fuori di sé, uccide personalmente tre dei condannati ma viene a sua volta ucciso con una scarica del plotone. Il capitano che aveva minacciato il comandante con una pistola, si autodenunziò ed altri ufficiali furono deferiti al tribunale militare.
Gli operai erano necessari alla produzione industriale di guerra, per cui la fanteria era, per buona parte, composta di contadini. Il 50% di essi era analfabeta. Ufficiali e sottoufficiali erano scelti tra le persone più colte e di estrazione sociale più elevata, ma con il prolungarsi della guerra, i quadri dei comandi divennero di qualità sempre più scadente.

Un anno sull’altipiano

Lussu è uno studente universitario, quindi è impiegato come sottoufficiale; in trincea leggeva l’Orlando Furioso
Nel film lo vediamo illustrare ai soldati della propria compagnia un libro di ornitologia

Alle truppe a riposo, in visita al paese, il sindaco di Aiello dedica un discorso enfatico e retorico, in cui sottolinea come “la guerra ha le sue belle attrattive…bello è morire per la patria…”
Tale discorso è riportato nel film da una voce off che accompagna le immagini del tenente Sassu in visita al capitano Abati?. L’eco delle parole, così cariche di enfasi, stride con le immagini di dolore e rassegnazione che permeano l’episodio, ambientato nell’ospedale militare. E’ nella mente di Sassu che tutto ciò riecheggia con un senso di profondo disagio.

Lussu si sofferma a parlare con un tenente colonnello, durante una missione a Stoccareddo. Questi si stupisce che il giovane tenente sia astemio e spiega, con una nota di sarcasmo, come sia del tutto inutile tenere monte Fior, per il quale si stanno perdendo una gran numero di vite umane. Commenta: “Perché, se noi siamo degli imbecilli, non è detto che di fronte a noi vi siano comandi più intelligenti”
Nel film il colloquio avviene con il capitano Abati; nella sostanza i contenuti della conversazione rimangono immutati, ma il dettaglio di Sassu astemio dovrà essere collegato al dialogo in ospedale, quando Aati sarà ricoverato in condizioni disperate. Lì Sassu confesserà di aver iniziato a bere. La guerra, insomma, avrà cambiato anche lui.

L’episodio di Marrasi, sperduto nel bosco.
Riproposto fedelmente nel film dove manca il dettaglio del cioccolato offerto al Marrasi da coloro che lo hanno catturato.

Nel secondo incontro con il ten. Colonnello di Stoccareddo, Lussu ha modo di confrontarsi con il disilluso e acido realismo dell’ufficiale, il quale tiene a rimarcare l’inefficienza delle artiglierie (che spesso sparano sulle proprie truppe), la necessità di fare uso dell’alcool come anestetico alla paura e alla tensione e il triste destino dei soldati che uccidono nemici che non hanno mai visto in volto.
Nel film le parole si fanno immagini: così nella sequenza del pre-finale l’artiglieria spara veramente sulle proprie truppe; i nemici non sono altro che sagome che si materializzano soltanto quando si sporgono dalle trincee per fermare l’inutile carneficina degli assalitori italiani; il cognac richiamato più volte come bevanda di uso quotidiano.

Nel racconto di Lussu la caduta e la ripresa di monte Fior avvengono a breve distanza di tempo. Gli episodi che racconta nel prosieguo della vicenda sono legati ad altre azioni intraprese in quelle zone di guerra (in particolare verso le nuove linee di difesa austriache, sorte dopo il loro ripiegamento da monte Fior). Monte Fior è ripreso grazie anche all’evolversi più generale del conflitto, che vede ora gli austriaci impegnati dai russi sul fronte della Galizia, impegno che li costringe ad allentare l’attenzione sul fronte italiano.
Per semplicità ed efficacia narrativa, il nucleo dell’azione del film ruota attorno al tentativo di riprendere monte Fior e tutti gli episodi, fedelmente ripresi dal testo di Lussu, vengono fatti rientrare in questo macro blocco narrativo. (in questo, il film mantiene l’unità di luogo).

Gli episodi che ritroviamo fedelmente riportati nel film sono, nell'ordine cronologico proposto dal libro:
 Il generale Leone che si sporge dalla trincea e viene mancato dal cecchino austriaco, mentre il povero caporale, a cui l’alto ufficiale chiede un analogo gesto di coraggio, viene centrato in pieno dalla pallottola nemica.
 Il generale Leone disarcionato dal mulo, viene aiutato da un soldato semplice che lo aiuta a risollevarsi da un burrone. I compagni aggrediscono il soldato, reo di aver aiutato il generale fanatico. Ottolenghi, addirittura, è indignato del fatto che non lo abbia in qualche modo “aiutato” a morire (questo nel film non c’è).
 La descrizione degli assalti sia diurni che notturni.
 L’episodio del tenente Santini che, chiamato a uscire dalla trincea per tagliare il reticolato nemico con le pinze, avanza verso il nemico camminando in posizione eretta, ideale bersaglio del fuoco avverso; Santini è consapevole di andare incontro alla morte e lo fa con un gesto quasi liberatorio di provocazione per il nemico, ma anche per i comandi italiani; è infatti del maggiore l’ordine di fuori uscire, un ordine a cui era stato costretto, visto che Santini non si era offerto volontario, per quell’impresa così assurda.
 L’uso delle corazze Farina (nel film ribattezzate Fasina)
 La falsa notizia della morte del generale Leone e i festeggiamenti susseguenti
 Le perlustrazioni del generale in trincea in cui si sofferma con un soldato per mostrargli come sulla baionetta ci sia scritta la parole vittoria; il controllo dei coltelli in dotazione.
 La fuga di Marrasi dalle trincee innevate, una fuga disonorevole, una diserzione verso le linee nemiche che i soldati italiani non digeriscono; egli è ucciso dal fuoco “amico”, gli austriaci non sparano
 L’ammutinamento notturno a cui la compagnia di Lussu non partecipa. Le richieste degli ammutinati sono il cambio e il riposo.
 La discussione, che nel film avviene tra Lussu e Ottolenghi sul senso della guerra, nella vicenda del libro vede in realtà coinvolti il tenente Avellini e un comandante (le parole di Ottolenghi sono comunque riportate con fedeltà). Ottolenghi sostiene le posizioni anarco rivoluzionarie, per cui sarebbe giusto marciare su Roma, destituire il governo e porre il popolo al comando. Egli non concepisce una democrazia che manda al macello i propri cittadini; i comandi sono retti da incapaci.

Per gli episodi seguenti, invece, le differenze sono importanti e dunque degne di essere sottolineate:
Il colloquio tra il generale Leone e il tenente Lussu avviene quando, dopo la ritirata da monte Fior, il generale aveva preso il comando dell’armata e le truppe erano posizionate sul monte Spill. Il contenuto della conversazione riguarda l’atteggiamento del tenente nei confronti della guerra. Il generale è stupito che Lussu non abbia neanche una ferita e alla precisa domanda se egli ami la guerra, il tenente non sa rispondere e passa dunque per un pacifista.
Nel film, la rotta di monte Fior è addebitata al generale Leone che si ritira con i soldati (viene dunque consolidata l’immagine dei comandi italiani inetti ed incompetenti). Il colloquio con Sassu avviene nel finale, dopo l’ammutinamento. Le risposte di Sassu, per quanto nella sostanza identiche a quelle del libro, cambiano nello spirito, perché risultano il frutto delle esperienze accumulate dal protagonista, delle sofferenze vissute e di cui è stato testimone, ricordando che, in principio, Sassu aveva detto ad Abbati di essersi offerto volontario per combattere sul Carso, provenendo da una zona, quella del Trentino, dove non vi erano combattimenti in corso. Sassu, dunque, è, nel film, dapprima un interventista, patriota, convinto della necessità della difesa della patria attraverso il sacrificio in guerra; alla fine sarà una vittima della guerra, ma non più convinto della sua necessità.
Un esploratore ordina l’alt al convoglio in marcia nel bosco, perché sotto il fuoco nemico. Il generale si indigna e ordina la fucilazione per quell’uomo così codardo. A salvarlo sarà il capitano Zavattari che porterà al generale il cadavere di un soldato, ucciso dal fuoco nemico, facendo credere che fosse quello dell’esploratore. Il generale esclama: “Salutiamo i martiri della patria! In guerra, la disciplina è dolorosa ma necessaria. Onoriamo i nostri morti!”.
L’episodio è riportato fedelmente, ma, nel film di Rosi, a salvare l’esploratore è il tenente Ottolenghi, la cui figura si viene costruita come quella di un contestatario del potere, rivoluzionario, ma dotato di buon senso, un buon senso che lo terrà in vita fino al dramma e alla morte trovata nell’assalto, che nel racconto di Lussu non c’è (la morte di Ottolenghi diventa un elemento portante del messaggio anarcoide legato alla figura del personaggio, interpretato da Volontè).
Il generale, in rivista nella trincea, viene condotto alla feritoia 14 dal tenente Ottolenghi che spera che il cecchino austriaco, infallibile fino a quel momento, ne faccia una sua vittima. Il generale viene graziato.
Nel film è Sassu a condurre il generale alla feritoia e lo conduce dopo aver maturato un odio profondo nei suoi confronti, in seguito alla morte di Ottolenghi che, durante l’assalto si era ribellato al potere crudele del generale.
L’episodio dell’ammutinamento. I soldati di una compagnia sono ammassatti in una grotta, in attesa di uscire per l’assalto. L’artiglieria spara per sbaglio sull’imbocco della grotta. Diversi soldati muoiono; a quel punto i compagni escono allo scoperto, contravvenendo agli ordini. Il maggiore Melchiorri ne ordina la punizione. Alcuni di loro, estratti a sorte, dovranno essere fucilati. Il capitano Fiorelli si oppone. Il maggiore è ucciso dai soldati del plotone che si erano rifiutati di fucilare i compagni. Il capitano, ad assalto finito, si consegnerà nelle mani dell’autorità militare.
E’ Sassu stesso ad opporsi all’assurda punizione inflitta dal maggiore Malchiodi; è lui che minaccia il superiore; è lui che risponderà con la vita dell’atto di insubordinazione.
Nel racconto di Lussu, Ottolenghi sarà ferito in un assalto, mentre Avellini (il tenente amico, ma anche rivale in amore di Lussu) morirà. Delle pene d’amore di Lussu, nel film non vi è traccia.


Lettura di carattere cinematografico

Il rosso, il colore del sangue, apre il film. Sulla dissolvenza iniziale il rosso si tramuta in bianco, nel bianco spettrale della nebbia dentro cui si muovono i soldati, come fantasmi



I soldati, sagome scure, fantasmi nella nebbia, calpestano il fango (diversi dettagli di scarpe che affondano). Il tema del fango è nell’immagine di apertura anche de “La grande guerra”



Il vero bersaglio, il vero nemico è il generale Leone, colui che rappresenta i comandi, inetti ed inumani che popolano ogni guerra. In questo, il film è accostabile ad “Orizzonti di gloria”



Rosi, per accentuare il senso di disordine, il caos e la  paura che regnano nelle file italiane in ritirata, fa un largo uso di piani ravvicinati, di immagini sfuocate e mosse; si pone in mezzo ai soldati e rende con soggettività il senso della furibonda mischia che si crea nel combattimento corpo a corpo.





La bandiera lacerata, quasi irriconoscibile, non può che richiamare alla bandiera strappata, degli ignavi dell’inferno dantesco. E un ante inferno è proprio questo luogo di guerra.



La carrellata finale ci mostra lo spettrale spettacolo di un campo di battaglia quando i combattimenti sono terminati. Alla concitazione delle immagini mosse dei combattimenti alla tetra compostezza di questa carrellata.



Il generale Leone è pronto per la riscossa, ma il capitano Abbati è un traduttore umano e sensato delle sue enfatiche parole: egli traduce in morti i propositi del comandante.




Di fronte al tenente Santini un nemico che non c’è, un nemico invisibile. Santini va incontro alla morte, consapevole che quella è l’unica via di uscita da quell’inferno. Una morte liberatoria, che è però anche morte sacrificale, in nome di non si sa bene quale ideale. Le spine e il sacrificio, le mani che restano come crocifisse.






La morte, il plotone di esecuzione; la vita, gli animali. Grazie al montaggio, al grigio si contrappone il colore delle illustrazioni. E’ una parentesi, breve, in un contesto tetro e mortuario (le bare sullo sfondo della scena della fucilazione).




Nella prima immagine vediamo Sassu e Ottolenghi dirigersi verso percorsi divergenti. I due, che si confrontano in un dialogo nell’alloggiamento, sembrano avere idee diverse sulla guerra e il suo significato. Sassu, lentamente, capirà e farà proprie le idee e i convincimenti di Ottolenghi, il cui sacrificio lo convincerà della crudele inumanità di coloro che comandano. Il vero nemico, arroccato dietro il filo spinato, è proprio il generale Leone, simbolo di coloro che comandano senza rispetto per l’esistenza degli esseri umani di cui dispongono.







“Bello è morire per la patria..” Queste parole, in voce off, stridono con le immagini di sofferenza che vediamo scorrere. In questo contrasto quelle parole appaiono vuote, quasi beffarde nella loro insensata e sproporzionata enfasi.




Sassu, di fronte al generale Leone, non sa nascondere la propria cosciente avversione per la guerra, avversione maturata dopo le esperienze della prima linea. La sua fucilazione (presente nel film e non nel libro) è il simbolo del sacrificio, forse inutile (in una cava anonima e senza testimoni) di chi si oppone alla forma di violenza organizzata che è la guerra. Così Sassu muore solitario, come un eroe romantico e dai quadri di Goya sembrano essere prese le coordinate visive della sequenza finale.
Il punto di vista della mdp, frontale al plotone, ci induce a pensare che la fucilazione sia diretta anche verso di noi, spettatori che al termine del film non possiamo non aver aderito agli ideali di pace abbracciati alfine da Sassu.



Lettura breve dell’idea centrale del film:
 Il film è la storia del tenente Sassu che vive l’esperienza della prima linea, durante le battaglie dell’Isonzo nella Prima Guerra Mondiale. Di istanza in Trentino, dove non era impiegato in combattimento, si offre volontario per essere destinato là dove la guerra infuria, credendo di offrire alla patria il giusto contributo per la salvezza nazionale. Le assurde vicende a cui si trova ad assistere, l’orrore delle inutili carneficine di soldati mandati allo sbaraglio da comandi inefficienti ed esaltati, lo convincono che nella guerra non vi è spazio per il buon senso, per il necessario eroismo. Egli, così, sente affievolire quegli ideali che lo avevano animato in precedenza, perdendo di vista i veri scopi del conflitto in cui si trova coinvolto. Il tenente pagherà con la vita per il suo desiderio di giustizia ed equità, che sembrano non albergare nel cuore della guerra.

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