sabato 29 dicembre 2018

Dunkirk


Regia: Christopher Nolan

Sceneggiatura: Christopher Nolan

Musiche: Hans Zimmer

Cast: Fionn Whitehead, Tom Glynn-Carney, Jack Lowden, Harry Styles, Aneurin Barnard, James D’Arcy, Barry Keoghan, Kenneth Branagh, Cillian Murphy, Mark Rylance, and Tom Hardy

Produzione: Gran Bretagna 2017

Durata: 106 minuti


Dunkirk è un film che affonda il proprio humus direttamente nel mito e nell'epica presentandoci una vicenda che assume i contorni della lotta sempiterna per la sopravvivenza e rinnova i topos delle vicende omeriche e dei drammi di Sofocle. Non va dunque interpretato in senso storico (non ci dobbiamo ingannare, come ci direbbe il mago di The Prestige, altro capolavoro di Nolan), non dobbiamo cercare gli elementi di realismo come discriminante per un giudizio, perché Nolan non fa niente per ricostruire l'evento Dunkirk nella sua esattezza storica (a partire dalla scansione non cronologica del racconto e dalla mancanza di riferimenti temporali che non siano gli orologi dei piloti degli Spitfire), egli piuttosto ci restituisce una visione realistica ed estremamente soggettiva della guerra, in senso lato e da questo punto di vista dobbiamo leggere la narrazione. Chi obietta sulle risibili dimensioni numeriche di navi, aerei, e uomini sulla spiaggia, che in taluni passaggi pare quasi deserta (nella realtà vi erano ammassati 400000 uomini), chi evidenzia incongruenze e inverosimiglianze (a partire dal duello aereo in cui lo Spitfire combatte ed atterra praticamente senza carburante) non "vuole vedere" le indicazioni che Nolan ci offre fin dal principio e che vanno nella direzione di un racconto sospeso sopra la Storia in una dimensione quasi metafisica e forse, proprio per questo, più reale perché eterna. Nessun nome richiamato, nessuna data, nessun riferimento ad episodi concreti e storicamente accertati, soltanto il discorso di Churchill che pare riportare i personaggi da una dimensione fuori dal tempo (dall'incubo) alla realtà della Storia che procede e sulle cui parole si chiude il film. Nolan insomma evoca un fatto storico ma vuole raccontarcelo come se fosse un mito e, come scrive Sallustio, <Il mito non è mai accaduto, ma è sempre.>



Volantini cadono dal cielo e proiettili bersagliano soldati in fuga; sui volantini c'è scritto: siete circondati, arrendetevi. Chi lancia quei volantini, chi mitraglia i soldati? Non vi è controcampo che possa spiegarcelo. Noi sappiamo che ci sono i tedeschi alle calcagna degli inglesi in ritirata, ma il film si sofferma sulla fuga disperata, sulla lotta per sopravvivere di due giovani che hanno una maledetta voglia di vivere. 


Uno, Tommy che sarà uno dei protagonisti della storia (con lui si apre e si chiude la narrazione), cerca una sigaretta tra i mozziconi di un posacenere abbandonato e poi, una volta sulla spiaggia, soddisfa un bisogno corporale; l'altro, Gibson, seppellisce un compagno ma gli ruba le scarpe. Sono due cani sciolti che non sono ancora allineati con gli altri fuggitivi. Due giovani che vogliono uscire vivi da quell'inferno. Il primo è un fante che non può entrare nelle fila dei dragoni, è destinato ad essere tra gli ultimi a lasciare la spiaggia.


Questa la traccia narrativa di partenza, ma ecco che subito Nolan inserisce un elemento di straniamento: il montaggio parallelo ci conduce nel porto di una cittadina inglese in cui alcuni cittadini stanno preparandosi a sbarcare con la propria barca per correre in soccorso dei soldati sulla spiaggia di Dunkirk. Altro passaggio di montaggio e ci troviamo nei cieli dove tre caccia inglesi, tre Spitfire stanno volando in formazione. I tre luoghi del film sono presentati ma con essi anche le tre dimensioni temporali in cui si dipana la vicenda. Il molo, una settimana, recita una prima didascalia; il mare, un giorno
il cielo un'ora


Terra, aria, acqua i tre elementi naturali fondamento del nostro pianeta, in cui manca, in teoria il fuoco; ma il fuoco c'è, è elemento comune e collega le tre dimensioni spaziali e temporali; è il fuoco delle esplosioni, delle armi, della guerra (è il fuoco purificatore del finale con quell’aereo che brucia e pare quasi un altare del sacrificio). Uomini che cercano di sopravvivere, gli elementi naturali che avvolgono le vicende, è un film che racconta una storia del Ventesimo secolo ma pare evocare motivi ancestrali e primitivi. Uno dei soldati sulla spiaggia urla: dov’è la maledetta aeronautica? Il suo pare un grido inascoltato (per quanto gli aerei veglino su di loro a distanza e arrivino come angeli nel momento cruciale, in quel finale in cui l'aereo plana senza rumore sulle teste dei soldati ammirati), ma da quella voce parte un movimento di macchina, un carrello ad indietreggiare che inquadra la spiaggia attraverso tre pali che la dividono come in un improvvisato split screen. La divisione spaziale della spiaggia corrisponde a quella narrativa del film e alle dimensioni su cui esso si muove: tre dimensioni spaziali, tre dimensioni temporali. Tre sono gli aerei che volteggiano nel cielo. Un procedere quasi cabalistico



I piloti della squadriglia comunicano con la base, il loro nome in codice è Fortis, il loro comandante è Fortis Leader. Evocazione della forza che arriva dal cielo.
I due soldati sulla spiaggia si rivelano tutt’altro che eroici, prendono al volo la barella di un ferito e si catapultano verso la prima nave in partenza dove avranno alloggio per primo proprio i feriti. Intanto nel porto in patria si continua a preparare la barca per salpare: Nolan insiste con l’inquadrare i giubbetti di salvataggio accatastati lungo la banchina. E’ un dettaglio insistito: il motivo del salvataggio (evidenziato fin dal volantino caduto dal cielo), del soccorso trova un correlativo nelle immagini. 


Intanto in aria i tre aeroplani continuano a cercare i nemici (che arriveranno dal sole, come sottolinea uno dei piloti); una inquadratura però attira la nostra attenzione. I tre aerei planano sopra una barca nel mezzo della Manica. Quella barca pare essere quella che è in preparazione per lasciare il porto inglese: un flashforward, oppure un indizio, un primo indizio, che anche in questo film Nolan gioca con il tempo narrativo?


La barella sembra arrivare appena in tempo sulla nave che sta per lasciare il molo. Il mare è in tempesta, ma gli aerei non volavano su un mare calmo e assolato?
La barca sta per lasciare l’Inghilterra, il suo nome è Moonstone, pietra lunare (un riferimento al monolito kubrickiano?), il suo equipaggio è composto da padre (signor Dawson), figlio (Peter Dawson) e un suo amico, George, che si aggrega all’ultimo tuffo. Come i due barellieri improvvisati anche questo personaggio corre per imbarcarsi, per non mancare all’evento: nel suo caso, entrare in guerra, nell’altro, fuggirne. La musica si compone di un unico motivo che accompagna le tre azioni (potenti ed incalzanti le sonorità di Hans Zimmer) che sembrano svolgersi in contemporanea, quasi ad avvolgerle in un unica dimensione spazio temporale. Inizia lo scontro tra aerei, mentre la Moonstone è in mare aperto. 


George vede passare un incrociatore carico di soldati che stanno rientrando dall’inferno. Il numero dell’incrociatore è 036 (di nuovo torna il numero tre). George sembra navigare contro corrente, contro il destino. La sua ingenua inconsapevolezza gli sarà fatale. Emblematico è il lapidario dialogo con Dawson. Questi chiede a George se sappia dove stanno andando e il ragazzo risponde: Si, in Francia. Il signor Dawson non potrebbe essere più chiaro: No ragazzo mio, si va in guerra!
Abbiamo di fronte a noi una sorta di microcosmo omerico (la spiaggia, la guerra, il sacrificio, l’assedio sono tutti motivi di una moderna Iliade), costruito da Nolan, in cui entrano tutti i tipi umani a contatto con la guerra (sono veramente maschere, anche materiali, se pensiamo al pilota eroe il cui volto appare soltanto nel finale, e i cui nomi compaiono nei titoli di coda ma che mai vengono evocati nel corso della narrazione, tranne per il padre misericordioso; i piloti poi si chiamano in codice!): Tommy e Gibson i codardi, George l’ingenuo sprovveduto ed ignorante (nel senso etimologico del termine) ma anche il giovane che vuole vivere il proprio battesimo alla vita adulta, i piloti eroi coraggiosi, il naufrago (che troveremo) che è il vinto, reso folle dal conflitto e poi il padre pietoso, Dawson, che deve recuperare il figlio perduto (in realtà il figlio lo ha perso per sempre e deve acquietare la propria angoscia salvando altri “figli”) e il comandante padre simbolico che deve proteggere tutti i suoi figli. La guerra è una prova per tutti loro, Nolan dovrà decidere su chi chiudere la propria parabola.




Il molo è il luogo della salvezza ma è anche un bersaglio facile per gli aerei nemici; i soldati si sentono abbandonati. L’aiuto della barche da diporto è in questo senso fondamentale per permettere ai soldati di essere imbarcati dalle spiagge evitando di diventare vittime sacrificali per il nemico. L’Inghilterra, la terra madre non è lontana, la si può praticamente vedere, ma la salvezza non è a portata di mano. Questo il dialogo tra comandanti che devono decidere il futuro dell’operazione di rientro. Il molo resta il fulcro della messa in salvo dei sopravvissuti, tanti Ulisse da riportare nella loro Itaca, tanti persiani che vivono la loro Anabasi. Il film di Nolan ha certamente un sapore epico, ma Itaca, come vedremo, non attende, si muove in soccorso.


Intanto una sagoma compare all’orizzonte per la Moonstone. Pare quasi una balena morta e coricata sul fianco. Un naufrago viene issato a bordo, è un soldato senza nome e senza identità (sappiamo dai credits che il suo nome è Shivering). La sua è una barca colpita da un U – Boot.
Della squadriglia inglese sono rimasti soltanto due aerei, Fortis Leader è stato abbattuto. Uno dei piloti segna l’ora: sono quasi le 15 (le tre!), le 14,55.
La nave ospedale viene affondata, improvvisamente compare il sole, il mare si è calmato, il molo, nonostante tutto, è salvo. Tommy e Gibson si confondono tra i sopravvissuti della nave affondata e vengono inviati su un caccia che li accoglie a bordo. Certo è che il sole tramonta, scende la notte e i soldati, tranne uno, sono raccolti come topi nella stiva della nave chiusa ermeticamente; sono in una trappola mortale. I nostri anti eroi vedono ancora lontana la sicurezza. 


Si torna al giorno e al Moonstone che si sta avvicinando a Dunkirk. Il naufrago dà segni di nervosismo, non vuole tornare in quell’inferno. Ecco un altro giovane che chiede soltanto di sopravvivere. I soldati paiono bambini impauriti, i civili sono i padri che corrono in loro soccorso. Coloro che si affidano al mare sono impauriti, storditi; la forza è dal cielo, qui stanno i Fortis disposti ancora a sacrificarsi. Anche il naufrago come i soldati del molo è chiuso in una sorta di ripostiglio, come un bambino in punizione. E’ un vigliacco? Chiede George al signor Dawson. E’ semplicemente traumatizzato e fuori di sè, questa la risposta del “padre”. 


Sono le 15,20 e c’è un altro scontro aereo, il secondo aereo della squadriglia inglese è colpito ed ‘è costretto ad un ammaraggio.
E’ di nuovo notte, la nave carica di soldati viene colpita da un siluro e affonda; Gibson, con un gesto di altruismo improvviso, salva il suo amico aprendo la porta stagna che lo aveva imprigionato. Poco prima, altri soldati, intanto, su scialuppe improvvisate, chiedevano inutilmente di salire a bordo. Altri giovani che volevano semplicemente sopravvivere, luci nella notte profonda.
Intanto i tre Spitfire incrociano il Moonstone sorvolandolo; il signor Dawson ne elogia le qualità. Ecco che un primo cerchio si chiude: ciò che avevamo visto in precedenza ora si ripropone. Abbiamo la conferma che Nolan giochi con i piani temporali della narrazione (il sole, il cielo in burrasca, il mare calmo e il mare in tempesta in una alternanza quasi casuale e poco rispettosa del realismo; talvolta in una stessa sequenza il sole che si alterna alle nuvole; in realtà a Nolan poco interessa la verosimiglianza spazio temporale, la coerenza ambientale, la sua pare essere una storia sospesa sul tempo, come l’eternità aleggia sulle ore e Nolan è artefice della creazione di un nuovo tempo che è quello artefatto del cinema). 



Dawson intanto, di fronte al marinaio sotto shock, confessa una amara verità: gli uomini della sua età hanno voluto la guerra e non possono lasciare che i figli muoiano senza poter far nulla per loro. Dawson è la patria, nel senso di padre, pater che riporta a casa il figlio disperso, la pecorella smarrita.
L’ammaraggio del pilota inglese pare vicino all’imbarcazione di Dawson. Di nuovo un incrocio tra le due vicende.
Altro colpo di scena: il naufrago, Shivering, raccolto da Dawson nella notte è tra coloro che stanno sulla scialuppa che si muove attorno alla carcassa della nave appena affondata dal siluro. Shivering, un altro codardo, non soccorre i naufraghi e li lascia al loro destino. Torneranno a riva con le proprie forze.
Di nuovo sulla barca dei Dawson, Shivering si macchia della colpa del ferimento mortale di George.
Il pilota sopravvissuto ingaggia un altro duello ma vede all’orizzonte la sagoma di un grande aereo avvicinarsi mentre una barca sta affondando. Il suo carburante sta scemando e non ha altra indicazione che l’ultima nota sull’ora segnata sul cruscotto. Non ha più la nozione esatta del tempo. Ma fa una inversione e si mette alla caccia di un aereo nemico che sta volando verso Dunkirk. E’ pronto al sacrificio. Dunkirk è il luogo del fuoco e del fumo che si innalza verso il cielo, diventerà una sorta di altare del sacrificio su cui immolare l’eroe, l’Ettore, che permette ai suoi compagni di salvarsi.


All’alba del secondo giorno Tommy e Gibson sono di nuovo sulla spiaggia di partenza. Per loro la vicenda assume sempre più i contorni di un incubo. Altri soldati provano disperatamente a lasciare la spiaggia, ricacciati indietro dalla forza delle onde, qualcuno si vota al suicidio. Negli occhi del naufrago si fa spazio l’idea della morte non più procrastinabile. Anche lo spazio interno alla spiaggia si dilata, i corpi scompaiono; compare un molo improvvisato ma nella sequenza successiva sparisce. I due naufraghi dove sono? 


George, morente, confessa di aver cercato di diventare qualcuno e quell’impresa era un modo per vincere le frustrazioni ed affermare una propria identità. Il sacrificio gli sarebbe valso come prova iniziatica verso la vita.
I comandanti sono in attesa degli aiuti ma questi arriveranno da barche piccole e non militari. I soldati sulla spiaggia trovano ricovero dentro una barca arenata ma sono fuori dal perimetro di sicurezza e dunque sono un bersaglio del nemico. Il pilota sta attaccando il suo nemico. Il montaggio si fa sempre più serrato, le storie si intrecciano sempre più rapidamente. Dal Moonstone vedono ciò che noi abbiamo già visto, ovvero i due Spitfire che attaccano un grosso aereo nemico difendendo un dragamine che stava per essere attaccato, ma uno degli Spitfire è stato colpito (e ammarerà).
Nella nuova barca i soldati sono ancora una volta topi in trappola, come il pilota che non riesce ad uscire dall’aereo appena ammarato. Continuano le analogie narrative, quasi similitudini visive.


Dawson accelera per aiutare il pilota e il figlio mostra di non avere la stessa urgenza del padre che pare dover rimediare una colpa, una mancanza e non può recedere dall’impresa. Egli rappresenta il senso di colpa dei padri che sentono di dover far qualcosa per salvare i figli che loro stessi hanno mandato in guerra. 
La spiaggia diventa il luogo d’incontro dei personaggi: i soldati presi di mira dai cecchini con il loro peschereccio che va alla deriva e sta affondando, il Moonstone che sta arrivando mentre nel cielo lo Spitfire superstite sta ingaggiando un duello con aerei tedeschi. L’esclamazione del comandante di fronte alla flotta di barche da diporto è eloquente, quella che sta aprendosi di fronte a lui è la patria stessa, non solo entità geografica e statale, ma unione di cuori e di uomini che si muovono nella stessa direzione. 



Come un polo magnetico tutto porta alla spiaggia e tutto riparte dalla spiaggia. La storia va verso il redde rationem ed emergono lentamente anche i nuclei tematici più forti; e il tutto mentre l’azione si fa sempre più incalzante. Tutto ruota attorno al Moonstone che diventa il simbolo della patria da difendere, la patria dei padri che corrono in soccorso dei figli. Dawson emerge come un padre che ha perso il figlio in guerra, un pilota, ed è a Dunkirk per recuperare idealmente ciò che ha perso. La salvezza di altri figli come espiazione della colpa abramitica del sacrificio del proprio. Un altro figlio, adottivo, George, si perde però nell’impresa. Un buon numero di soldati sono riportati in patria attraccando nelle coste del Dorset. Un angelo dall’alto difende i figli smarriti da riportare a casa, figli che non vogliono più nascondersi, vogliono soltanto tornare. Lo Spitfire colpisce l’aereo nemico. Tommy rimane attaccato al Moonstone che lo trascina con sé, il fuoco invade anche il mare ma il soldato è salvo. Il giovane Dawson dimostra di aver capito il senso di quell'impresa e tranquillizza Shivering bluffando sulle reali condizioni di George. Il giovane Dawson è pronto per diventare un uomo, il padre lo guarda con profondo rispetto. In mezzo a tanti giovani smarriti, scioccati, perduti un ragazzo che trova il modo di formarsi, di dare speranza al futuro.



Questi figli sono impauriti ma ben presto la paura lascia il posto alla vergogna di aver deluso i padri della patria. Noi siamo soltanto sopravvissuti dice un soldato ad un uomo cieco che li accoglie nel porto del Dorset; pare poco ma è già tanto. La mestizia del rientro è ancor più accentuata dall’ambientazione notturna che avvolge gli uomini che, ora sì, vorrebbero nascondersi come topi nella stiva. Intanto l’angelo in volo, lo Spitfire superstite che ha salvato il Moonstone sta planando nella spiaggia del destino. Soldati che si risvegliano come da un brutto incubo. Prima un soldato sconosciuto, poi Tommy. Nel mezzo il comandante che rimane per salvare anche i francesi.
L’angelo plana su Dunkirk e con lui il fuoco purificatore che libererà il vecchio mondo dagli orrori che lo attanagliano. Il volto dell'eroe, appena intravisto all'inizio della missione, può ora svelarsi e guardarci, illuminato dalla luce del fuoco e sostenuto dalle parole di Churchill.



Le parole del soldato, nel treno che lo riporta mestamente a casa, che legge il discorso di Churchill alla nazione sono contrappuntate proprio da queste immagini che compongono l’ultimo raccordo temporale asimmetrico, l’ennesimo viaggio nel tempo, in questo caso un flash back che chiude l’ora del volo sul tramonto. Un nugolo di elmi militari sono abbandonati sulla spiaggia, in una sineddoche in cui Nolan cita se stesso e i cappelli da borghese abbandonati nel parco di The prestige, di cui torna anche il finale con il fuoco (sorprendenti sono le assonanze tra i due finali, compresi i primi piani dei personaggi che guardano verso il fuoco e sono illuminati dalla fiamma, compresi i carrelli laterali ad inquadrare gli elmi e i cappelli entrambi legati a personaggi che sono sacrificati, che diventano vittime).



Il primo piano di Tommy chiude il film, non sorride, forse è più perplesso e disorientato; nel discorso di Churchill emerge la convinzione che da quella disfatta nasceranno i germi che sconfiggeranno il grande Male. Ma è anche il segno che la retorica dello statista rimane lontana dalla sofferenza di chi la guerra l’ha vissuta sulla propria pelle. C’è poco da gioire, c’è poco da sentirsi rassicurati, le parole di Churchill suonano come un invito al ritorno all’inferno che, Tommy, il milite ignoto (mai il suo nome viene evocato) del film sembra con terrore prefigurare nuovamente. Se torniamo a The prestige e pensiamo alle parole del finale, “voi non volete vedere”, possiamo proiettarle in questo perché è vero che le parole di Churchill evocano riscossa e orgoglio (e dunque potremmo celebrare il film come una sorta di evocazione dell'eroismo patrio, dello spirito di sacrificio e di abnegazione di un popolo stretto e unito attorno alla propria patria) ma il primo piano di Tommy e gli elmi abbandonati suscitano ben altro. C’è poco da inorgoglirsi di fronte ad una generazione di giovani votata al sacrificio e alla morte. Nell'inquadratura finale prende maggior significato l'estremo soggettivismo dell'assunto di Nolan che ha voluto correre con i suoi soldati, ha voluto sdraiarsi con loro, nascondersi e addirittura ondeggiare come nella sequenza del pontile bombardato. Nolan ci ha chiesto una immersione in una realtà per porci nella condizione di viverla. In questo senso le parole di Churchill mostrano la propria evidenza retorica che stride con la realtà tragica e disumana (o forse troppo umana) della guerra. L’epica sfuma nella tragedia greca.


Questo è parte del discorso pronunciato il 4 giugno 1940 da Churchill per commentare la disperata operazione Dynamo raccontata nel film di Nolan, l'evacuazione da Dunkerque che ha avuto luogo tra maggio e giugno del 1940, mettendo in salvo circa 338 mila soldati, di cui 26 mila francesi.
"Dobbiamo stare attenti a non assegnare a questa liberazione gli attributi della vittoria. Le guerre non si vincono con le evacuazioni, le nostre perdite materiali sono state enormi, la situazione si rivela come un colossale disastro militare. Vorrei osservare che non c'è mai stato un periodo, in tutti questi lunghi secoli, nel quale potesse essere data al nostro popolo una totale garanzia che non si verificherà un'invasione [...] proveremo a noi stessi, ancora una volta, che siamo in grado di difendere la nostra isola, di superare la tempesta della guerra, di sopravvivere alla minaccia della tirannia, se necessario per anni, se necessario da soli. Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e gli oceani; combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell'aria. Difenderemo la nostra isola qualunque possa esserne il costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sui luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai, e persino se - ciò che io non credo neanche per un momento - questa isola o una larga parte di essa fossero asservite e affamate, in quel caso il nostro Impero, oltre i mari, armato e vigilato dalla Flotta britannica, condurrà avanti la lotta sinché, quando Dio voglia, il Nuovo Mondo, con tutte le sue risorse e la sua potenza, non venga avanti alla liberazione e al salvataggio del Vecchio Mondo".



Nel contrastante finale emerge con chiarezza l’immagine complessiva della guerra come incubo senza fine. I tre soldati che si risvegliano nelle sequenze finali sono altrettanti giovani che escono da un incubo, ma le parole di Churchill suonano beffarde perché prefigurano la prosecuzione illimitata di quell’incubo. Il nemico non ha volto e non ha identità, per i giovani coinvolti si tratta solamente di un disperato gioco di sopravvivenza. Il pilota che corre nella direzione opposta, il padre che naviga verso Dunkirk rappresentano l’altra faccia della medaglia, gli eroi, quelli che la guerra evoca. Il pilota sulla spiaggia di fronte alla pira che brucia (l’aereo) è l’Ettore che si sacrifica di fronte alle porte di Troia, è l’eroe tragico greco che vola fuori dal tempo, ma l’ultima immagine del film è per il soldatino spaurito e perplesso che non ha parole per esprimere il miscuglio di sentimenti ed emozioni che lo attanagliano: dalla vergogna per la fuga, al sollievo per la sopravvivenza fino alla preoccupazione per un futuro che preannuncia una nuova immersione nell’incubo. 


In quei pochi secondi che chiudono il film c’è la profondità di un dilemma etico che tragicamente si lega al motivo della guerra: il destino individuale, il diritto alla vita che è di ogni uomo contrasta con il destino collettivo che chiama invece al sacrificio della vita in nome del bene comune. In questo senso tornano in mente le parole del soldato Johnny in Johnny prese il fucile, il romanzo di Dalton Trumbo, feroce atto di accusa contro ogni forma di militarismo e giustificazione della guerra (il discorso collettivo e politico di Churchill mostra con evidenza la propria retorica se messo a confronto con quello individuale del soldato) :
...E in ogni caso per quale tipo di libertà stavamo combattendo?...E di chi era quell’idea di libertà? Combattevano per la libertà di mangiare coni gelato gratis tutta la vita o per la libertà di derubare chiunque volessero tutte le volte che volessero o cosa altro?...E comunque cosa cavolo vuole dire libertà?E’ soltanto una parola come casa e tavolo. Solo che è un tipo speciale di parola. Uno dice casa e può segnare con il dito una casa per indicarla. Ma quando uno dice andiamo a combattere per la libertà non ti può mostrare la libertà...Nossignore chiunque sia andato a combattere nelle trincee del fronte in nome della libertà era un emerito cretino e chi ce l’ha mandato un maledetto ipocrita...Perdio la gente ha sempre combattuto per la libertà. Nel 1776 l’America ha combattuto una guerra in nome della libertà. Tantissima gente ci morì. E alla fine l’America aveva forse più libertà del Canada o dell’Australia che non avevano affatto combattuto?...Se si guarda un uomo si può dire è un americano che ha combattuto per la sua libertà ha un aspetto molto diverso da un canadese che non l’ha fatto?...La guerra si faceva per salvare la democrazia nel mondo nei piccoli paesi in tutti gli uomini. Se la guerra fosse finita in quel momento allora la democrazia sarebbe stata salva. Ma lo era davvero? E quale tipo di democrazia? E quanta? E di chi?...Tutti dicevano che l’America stava facendo una guerra per il trionfo della dignità umana. Ma quell’idea di dignità di chi era? E per chi era? Ci dica ci spieghi bene signore di che dignità si tratta. Ci dica come mai un degno uomo morto si debba sentire molto meglio di un indegno uomo vivo...Cristo fateci combattere per cose che possiamo vedere e sentire e toccare con mano e capire. Basta con le parole altisonanti che non significano niente come patria...Se ti fai ammazzare combattendo per la madre patria è come entrare in un negozio a comprare qualcosa con gli occhi bendati. Paghi per qualcosa che non avrai mai...Ma i morti cosa dicono? Ne è mai tornato indietro uno uno solo dei milioni che sono stati uccisi ne è mai tornato indietro uno a dire perdio sono contento di esser morto perchè la morte è sempre meglio del disonore? Hanno detto sono contento di essere morto per salvare la democrazia nel mondo?...Solo i morti sanno se vale la pena o no di morire per tutte quelle cose di cui parla la gente...La vita è terribilmente importante perciò se l’hai data via per qualcosa negli ultimi minuti che ti restano penserai con tutte le tue forze alla cosa per la quale l’hai tradita. Dunque tutti quei ragazzi sarebbero morti pensando alla democrazia e alla liberazione e alla libertà e all’onore e alla sicurezza del focolare domestico e alle strisce e alle stelle della bandiera americana? Hai proprio ragione tu non l’hanno fatto. Sono morti piangendo dentro di sé come neonati...Lui (Johnny) era un uomo morto con una mente che sapeva ancora pensare. Lui sapeva tutte le risposte che sapevano i morti ma loro non potevano più pensarle...Lui poteva dire caro signore non c’è niente per cui valga la pena morire io lo so perché io sono morto...Non c’è niente di nobile nel morire...Se vi dicono che siete dei vigliacchi non fateci caso perché il vostro mestiere è quello di vivere e non di morire...Non c’è niente di più importante della vita...(E Johnny prese il fucile, Libro I, capitolo X)

domenica 18 novembre 2018

Il cinema e la Prima Guerra Mondiale





Il cinema della Prima Guerra Mondiale, un percorso

Introduzione

Il cinema ha dedicato una quantità enorme di film alla narrazione delle vicende della Prima Guerra Mondiale. Sono circa un migliaio le pellicole che in ogni epoca del “secolo breve” (così Hobsbawn definisce il Ventesimo secolo che si apre con la conclusione della Prima Guerra Mondiale e dunque è metaforicamente più corto dei 100 anni canonici) e del successivo Ventunesimo secolo si sono occupate di restituire le atmosfere e il senso di quella immane tragedia. L’approccio  ad una materia così sconfinata non può che essere parziale e lacunoso ma una linea di condotta chiara può aiutarci nel trovare un percorso di rivisitazione sensato. 

I film storici in generale hanno un triplice valore: possono essere un prezioso documento che rappresenta gli eventi storici con adesione alla realtà e dunque hanno un valore storico nel senso più didattico del termine; possono avere un valore storico intrinseco, essere cioè la cartina di tornasole di un periodo, quello della loro realizzazione, i cui contorni emergono pur nella cornice retrò e storica della narrazione. In sostanza un film ambientato nel 1918 ma realizzato nel 1970 ha un duplice valore storico tanto per la documentazione della Grande Guerra tanto quanto per gli echi che in esso si ritrovano, o meno, della situazione sociale post sessantottina; infine può avere un valore che io definirei filosofico conducendo lo spettatore ad un percorso di riflessione su temi e motivi trasversali. Sfiorando kubrickianamente le questioni metafisiche, un film può proporre grandi domande senza necessariamente dare risposte e i quesiti più frequenti che emergono dalla filmografia della Grande Guerra sono riassumibili nelle questioni sul senso della guerra, sulla retorica che ad essa si accompagna, sulla giustificazione della violenza come strumento per risolvere le questioni politiche e nazionali, sul senso classista e generazionale che induce i giovani a morire in guerra per risolvere problemi avanzati dagli anziani. Le domande potrebbero continuare ancora ma è importante sottolineare questo mio personale approccio alla materia per comprendere anche le scelte, ripeto sommarie e perfettibili, di un possibile percorso storico filmico sul conflitto del 1914 – 1918.


La battaglia della Somme (1916)

Esempio di documentario bellico che ebbe un enorme successo in Inghilterra dove attirò milioni di spettatori al cinema. Le immagini che arrivavano dal fronte erano la viva testimonianza di quanto stavano facendo i soldati inglesi per la patria. Il desiderio di conoscere la realtà della guerra era fortissimo ma non tutto ciò che fu filmato in quel documentario era spontaneo e vero. L’attacco alla trincea tedesca, ad esempio, era palesemente ricostruito (a partire dalle trincee basse) in quanto le macchine dell’epoca non erano in grado di garantire la giusta duttilità per essere al servizio di riprese dinamiche e pericolose. 

La loro pesantezza e la difficoltà di utilizzo permetteva soltanto di procedere con inquadrature statiche che raffiguravano momenti di passaggio tra un combattimento e l’altro. Questa lacuna documentaria fece si che la concezione delle battaglie fosse alquanto distorta e lontano dalla realtà e caricò il cinema della responsabilità di mettere in scena il lato più cruento e crudele della guerra.


J’accuse di Abel Gance (1918)

Nel 1917, a guerra ancora in corso, Abel Gance iniziò la realizzazione di un film finanziato dalla Pathè per un milione di Franchi e dal Servizio Cinematografico dell’Esercito francese. Il film ebbe una gestazione lunga e travagliata e poté essere presentato a Parigi soltanto nel marzo del 1919, a guerra ormai ampiamente conclusa. Inizialmente Gance si proponeva di presentarsi come il cantore di quella che lui definiva la Guerra Rossa (allusione alla marea di morti e alla scia di sangue che lasciò) con una dichiarazione di intenti che compariva sui manifesti pubblicitari che preannunciavano il film:

Poichè la grande tragedia rossa non ha avuto il suo Omero e il suo Rouget de l’Isle, poiché le paure, il sangue e le sofferenze sparse, le gesta degli eroi e gli occhi stellati dei morti non hanno ancora trovato scultori e pittori, abbiamo tentato, con umiltà, di creare un lirismo degli occhi e di far cantare le immagini…


Il titolo del film, J’accuse, riecheggia di continuo nel dipanarsi di una trama piuttosto complessa. Semplificandola al massimo possiamo così riassumerla:

Edith Lazare è sposa del brutale Francois Delphin ma ama segretamente il poeta Jean Diaz. Allo scoppio della guerra i due uomini, richiamati al fronte, si trovano a combattere nello stesso battaglione e Jean è luogotenente che, ad un certo punto, sostituisce Francois in una missione pericolosa uscendone da eroe. Nel frattempo Edith viene violentata da soldati tedeschi e rimane incinta. Jean si fa cantore di un pacifismo sempre più forte. Le violenze che vede materializzarsi intorno a sé lo inducono a gridare il suo inno di accusa. Ma la guerra presenta il conto anche ai due uomini protagonisti che si trovano feriti l’uno accanto all’altro. Francois, il marito di Edith muore mentre Jean, il poeta riesce a far ritorno a casa dove convoca vedove e madri per raccontare loro di una visione. I morti in guerra stanno per tornare e vogliono chiedere conto ai sopravvissuti se il loro sacrificio è valso a qualcosa. Finita l’evocazione, Jean muore.


Gance, volendo chiarire la sua opera conclusa così si espresse alla stampa:

L’opera ha attinto la sua sensibilità immediata dagli stessi avvenimenti e quando un fante ha pianto, accusato o cantato, non ha fatto che continuare i pianti, l’accusa o il riso delle trincee. J’accuse è un grido virile contro la voce bellicosa delle armi, un grido obiettivo contro il militarismo tedesco e l’assassinio che esso ha commesso contro l’Europa civile.


Le premesse omeriche dunque si stemperarono per dar voce ad un confuso ma evidente pacifismo di fondo. Gance, nel corso dei due anni che impiegò a realizzare il film, assorbì correnti e idee che circolarono vorticosamente presso l’opinione pubblica francese che aveva perso, in gran parte, l’entusiasmo patriottico dell’inizio della guerra. Non fu un caso che le prime proiezioni del film, nel 1919, provocarono in Francia un moto di sdegno e di protesta negli ambienti sciovinisti che accusarono Gance di antimilitarismo e disfattismo. Già nel 1915, con il prolungarsi della guerra, l’opinione pubblica aveva iniziato a distaccarsi dal nazionalismo degli inizi tutto alimentato dalla propaganda anti tedesca e che vedeva nel Kaiser il nemico del progresso e della democrazia. Il 1916 fu l’anno di Verdun in cui i francesi persero 275.000 uomini. Gli sciovinisti parlarono di “morti in piedi”, pronti a riprendere le armi e difendere la giusta causa francese. Ma Gance, che riprese quella metafora, fece rialzare i morti per esigere i conti dalle retrovie. 

L’eco lontana del socialismo avanzante diede voce ai detrattori della guerra e Gance attinse alla loro retorica per fare del proprio film un atto di denuncia contro gli orrori del conflitto. In Francia si moltiplicarono gli scioperi nelle fabbriche e i casi di ammutinamento nell’esercito (il 4 giugno 1917 la polizia francese sparò su una folla di donne in sciopero a Parigi). Proprio in questo clima prese avvio il progetto di Gance che dovette coniugare le esigenze produttive (utilizzò uomini dell’esercito e fondi del ministero della guerra) a quelle artistiche che lo vedevano simpatizzare per i movimenti pacifisti. Il film fu, in questo senso, un groviglio di passioni e sentimenti talvolta contrastanti. Dall’esaltazione dell’eroismo individuale al finale moraleggiante con i morti che sfilavano accanto ai vivi sopravvissuti alla guerra. 

La polemica insomma non poteva dispiegarsi pienamente, tanto più che la produzione della Pathè era in difficoltà a causa di quegli scioperi che si legavano alle proteste contro la guerra. La casa di produzione licenziò mille operai e fece stampare, nel 1917, le sue pellicole negli Stati Uniti. Il film di Gance, quindi, non poté spingere a fondo la propria protesta mantenendo la sua denuncia su un piano declamatorio e poetico senza alcun riferimento alle manifestazioni reali contro il conflitto. Prosciugato del suo potenziale politico, il film si ricorda per il finale potente e visionario in cui il Poeta Jean (non casualmente) evoca una visione apocalittica di morti che risorgono e chiedono conto ai vivi del senso del loro sacrificio. Molti degli uomini che parteciparono alle riprese del film (soldati dell’esercito francese), temporaneamente congedati dagli orrori del fronte, divennero, una volta tornati alla guerra, essi stessi vittime del conflitto.

L’ambivalenza del messaggio si articola attraverso lo sviluppo psicologico dei due protagonisti maschili, uno convinto patriota e l’altro sensibile poeta che condivideranno un comune destino, ma vedranno la guerra sotto due ottiche diverse eppure complementari. Sarà il poeta a gettare il grido di accusa (vede gli scheletri danzare sui soldati), sarà Francois a combattere nel segno di una vittoria alata che deve liberare la Francia da un terribile nemico. Alla fine i vivi e i morti sfileranno sotto l’arco di Trionfo, ennesimo messaggio ambiguo di un film che è comunque un prezioso documento storico.

Storia del cinema (1909 – 1920), di George Sadoul



Hearts of the world (Cuori del mondo) di D. W. Griffith (1918)

Il film di Griffith, all’epoca considerato ormai un maestro indiscusso grazie ai suoi precedenti Intolerance e Nascita di una nazione, ha un notevole valore storico perché ci consegna un documento visivo che chiarisce certi stereotipi sulla Prima Guerra che andavano consolidandosi e che non erano messi in discussione per motivi propagandistici. Il film, pur incentrato su una storia sentimentale, mette in scena la Grande Guerra come fosse un conflitto ottocentesco in cui ancora gli uomini possono ritagliarsi una dimensione eroica e in cui la battaglia è ancora nel corpo a corpo e nel confronto individuale. In una sequenza di attacco alle trincee, vediamo infatti i soldati americani affrontare i tedeschi in una lotta all’arma bianca con le baionette innestate in un contesto bellico in cui è ancora possibile la visione d’insieme, il campo lunghissimo del teatro di guerra come se a scrutarlo fosse un generale napoleonico dalla cima di una altura. 

Griffith, che pure aveva vissuto in prima persona la realtà della guerra in Europa, sembra non conoscerne a fondo i meccanismi e pare rimasto ad una visione quasi romantica, sicuramente debitrice di certa iconografia della guerra di Secessione americana. Ma la Grande Guerra è spersonalizzante, è guerra di massa in cui la tecnologia sconfigge e schiaccia l’uomo, in cui è impossibile ogni eroismo (non per nulla nell’immaginario della Prima Guerra l’eroe è il milite ignoto, l’uomo senza volto ed identità), è macelleria di corpi gettati allo sbaraglio, è confusione spaziale. Griffith in questo senso ci offre una immagine retrò della guerra e dunque falsa. 
L’impossibilità per gli operatori di riprendere le battaglie nel cuore dell’azione privano quella guerra di un supporto visivo reale di quello che doveva essere il climax di quei combattimenti. Saranno soltanto i resoconti dei reduci e una lenta liberazione dagli intenti propagandistici che permetteranno al cinema di ricreare con maggior aderenza al vero quel conflitto e restituiranno un senso di quello che realmente fu quella guerra. Per assurdo dunque è stato il cinema che ha dovuto ricostruire e restituire la verosimile atmosfera delle battaglie di trincea e dei tentativi di assalto lungo le cosiddette terre di nessuno. Il film di Griffith, che dipingeva il nemico tedesco con un’enfasi negativa, contribuì, inoltre, ad aumentare il numero di coloro che si andarono ad iscrivere nelle liste di reclutamento per combattere in Europa contro il grande demone teutonico.



Il prestito (The Bond) di Charles Chaplin (1918)

Charlot soldato (Shoulder Arms) di Charles Chaplin (1918)

Era l’8 aprile 1918, di fronte ad una folla mai vista, nel cuore di New York, Charles Chaplin tenne un discorso pubblico in favore dei buoni emessi dallo Stato per raccogliere il denaro occorrente alla Guerra in corso in Europa. Altri attori famosi come Mary Pickford e Douglas Fairbnaks giravano gli Stati Uniti con la stessa missione da compiere. Chaplin quel giorno parlò così:

 Chiedo a voi qui presenti di dimenticare tutto sulle percentuali di questo terzo prestito di guerra. La vita umana è in pericolo, e nessuno deve preoccuparsi del tasso di interesse che i buoni possono fruttare né di quel che si può guadagnare acquistandoli. C’è bisogno di denaro per sostenere il grande esercito e la marina dello zio Sam. In questo momento la Germania sta prendendo il sopravvento (con la chiusura del fronte Orientale e l’uscita di scena della Russia in effetti la situazione si era complicata per le forze dell’Intesa. N.d.r.), e noi dobbiamo avere i dollari che ci permetteranno di intervenire in Europa e di cacciare quel vecchio diavolo del Kaiser fuori dalla Francia!
Chaplin proseguì il suo viaggio per due mesi girando mezza America. Al ritorno a Hollywood si era ormai fatta forza in lui l’idea di realizzare un film sulla guerra. Non che la sua reputazione fosse immacolata, viste le accuse che gli erano piovute per la sua reticenza a partire volontario per l’Europa. Chaplin era cittadino inglese ma residente negli Stati Uniti. In patria venne preso di mira perché ritenuto renitente alla leva. Addirittura lo scrittore Kipling spese parole molto dure nei suoi confronti. Chaplin si difese affermando di essersi iscritto nelle liste della leva inglese ma che lo stato maggiore dell’esercito riteneva più utile la sua funzione di propaganda e di sostegno alla campagna sui prestiti di guerra. Dettaglio non da poco era poi la clausola assicurativa che la major per la quale lavorava aveva stipulato in caso di morte dell’attore e che era un forte deterrente alla sua partenza per il fronte. Sulla sua codardia avevano speculato i vignettisti di mezzo mondo immaginandolo in lotta con il suo bastoncino contro i cannoni del Kaiser. Del resto il clima verso coloro che non partivano per la guerra era piuttosto pesante. In Inghilterra gruppi di donne fermavano per strada i giovani civili consegnando loro una piuma bianca accusandoli di codardia per essersi sottratti alla coscrizione.
I più stretti collaboratori di Chaplin cercarono di dissuaderlo dal portare avanti il progetto del film che mescolava la commedia al dramma di una guerra, per di più, ancora in corso. Ma Chaplin fu irremovibile per quanto piuttosto indeciso sull’idea finale (si pensi che girò un primo copione in un mese e poi scartò completamente tutto il girato riscrivendo un altro canovaccio); il desiderio di rinnovare la propria immagine di patriota prevalse ed egli, in più, promise di realizzare un breve film gratuitamente a favore della campagna dei prestiti di guerra. 
Si intitolò The bond (L'obbligazione) e gli portò via un mese di lavoro e di interruzione sul principale progetto che sarebbe diventato Shoulder Arms ma all’epoca aveva il titolo temporaneo di Camouflage. In questo breve film 
Come set naturale per le trincee Chaplin utilizzò la campagna attorno a Broadway. Chaplin terminò il film nel settembre del 1918 e rimase incerto sull’esito di un lavoro che muoveva al riso forse più di ogni altro suo lavoro precedente. La sua comicità si librava sull’orlo della tragedia. Il film coniugava l’irresistibile verve comica di Chaplin con l’evocazione di dettagli della vita di trincea che erano molto vicini alla realtà (il pacco di viveri da casa, i cecchini, le trincee alluvionate, le lettere al fronte). 

Lungi dal demonizzare il nemico, Chaplin provava ad esorcizzare il dramma bellico rinchiudendolo in una trama che alla fine restituiva della tragedia solo l’eco di un incubo. Una sorta di film consolazione che portava con sé l’aspirazione inconscia di un popolo che sognava che tale tragedia si concludesse al più presto.

In una sequenza in particolare Chaplin pare avvicinarsi ad una idea di comunanza universale anche tra soldati nemici: quando Charlot cattura i nemici tedeschi e sculaccia un ufficiale prigioniero (che aveva rifiutato una sua sigaretta) ottiene il plauso dei soldati semplici nemici, nel nome di un cameratismo degli umili che travalicava i confini delle trincee. 
Il finale in cui Charlot si mette nei panni dei cattivi e in cui i suoi baffetti sono chiusi in una divisa teutonica sono la premessa di quanto rivedremo ne Il grande dittatore nel quale Hitler come Guglielmo in Charlot soldato, Chaplin immagina di poter ingannare e catturare rendendolo innocuo; forza dell’utopia del cinema, illusione di un idealista.

 Chaplin di David Robinson



 All’ovest niente di nuovo di Lewis Milestone (1930)

Nel 1929 E. Remarque pubblica il suo romanzo pacifista Niente di nuovo sul fronte occidentale, un anno dopo l’americano Milestone ne trae un film che come il libro grida con forza il suo messaggio contro la guerra. Nel 1934 i nazisti bruceranno il libro sulle piazze in segno di disprezzo per un’opera che strideva contro il rinascente nazionalismo tedesco. Il professor Kantorek è l’incarnazione del fanatismo di una generazione cresciuta all’ombra del Kaiser Guglielmo (la cui immagine troneggia al centro dell’aula) ed intrisa di valori aggressivi mascherati dietro il patriottismo e il nazionalismo. Kantorek è un seduttore di anime e usa il proprio ascendente di insegnante per convincere dei giovani ingenui ed incerti ad imbarcarsi in una impresa più grande di loro. 
Sulla lavagna riecheggiano i versi dell’Iliade e quella invocazione di Kantorek all’amore di patria ha dunque anche il suggello della Storia e del mito che i giovani tedeschi dovrebbero rinnovare nella Prima Guerra Mondiale. Le inquadrature che mostrano Kantorek persuadere gli studenti ad arruolarsi si fanno sempre più stringenti fino ai primissimi piani del volto di un esaltato professore che pare quasi ipnotizzare i suoi ascoltatori. Uno di loro immagina l’orgoglio del padre, altri si fanno trasportare dall’entusiasmo generale. 

Mentre fuori sfilano truppe in parata tra l’entusiasmo generale, all’interno di quel mondo, la scuola, che dovrebbe formare uomini e cittadini, si sta consumando il dramma di una educazione al servizio della propaganda volta a sfornare carne da macello più che anime pensanti (il mix di una educazione sbagliata e di un contagioso entusiasmo popolare sono letali). I suoi giovani studenti avranno modo piuttosto velocemente di ricredersi e ad uno ad uno saranno vittime di quel meccanismo in cui hanno accettato di farsi coinvolgere. In pochi minuti Milestone ci offre l’immagine più efficace della grottesca spirale che ha colto un intero continente alla vigilia di un periodo di lutti e sofferenza. 


In tutto questo compare un postino che consegna la posta per l’ultima volta. E’ sorridente, fiero, è Himmelstoss; per lui la guerra sarà una occasione di rivalsa sociale, di ascesa. Lo stesso postino lo ritroveremo a guidare ed umiliare le reclute (borghesi) in un ribaltamento dei ruoli che solo la guerra può produrre. “Dovete dimenticare quello che eravate” dice emblematicamente l’ufficiale nel momento che inizia l’addestramento delle sue reclute. Il suo personaggio sarà sicuramente di ispirazione per la figura dell’addestratore in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick. 


Nel finale il giovane soldato, sopravvissuto ai suoi compagni, è nella sua trincea, prova ad afferrare una farfalla ma un cecchino, senza nome e identità, senza un motivo lo uccide. La mano del giovane non raggiunge la farfalla, simbolo di quella vita che vola via effimera proprio come quella di una farfalla. La retorica di Kantorek echeggia nel finale quando i giovani soldati marciano nuovamente guardando dietro di sé, ma sullo sfondo le croci bianche ci ricordano che quelli non sono che morti in marcia, che giovani innocenti sacrificati sull’altare di idee e principi lontane dalle loro aspirazioni e dalla giustizia di un mondo pacifico.



 Westfront di Georg W. Pabst (1930)

Uno dei massimi autori del cinema muto Tedesco, l’austriaco G. W. Pabst, esordisce nel sonoro con un film dalla forte impronta antimilitarista e pacifista, in chiara controtendenza con il rinascente nazionalismo e militarismo che porteranno all’avvento del Nazismo. Westfront è un atto di accusa contro la Prima Guerra Mondiale di cui denuncia l’insensatezza attraverso un messaggio amaramente simbolico e crudamente realistico nella descrizione della vita nelle trincee. 
Il protagonista, il soldato tedesco Karl, che deve sopportare le disumane condizioni di vita delle trincee, torna a casa in licenza e trova la moglie nelle braccia di un altro. A sofferenza si aggiunge sofferenza: la guerra non soltanto distrugge le vite umane ma disgrega lo stesso tessuto sociale, allentando i principi morali e i legami affettivi. 

In un finale straziante, ambientato in un ospedale militare in cui è ricoverato lo stesso protagonista (Karl, morente, rivede in sogno la moglie che gli chiede perdono e lui afferma che la colpa è di tutti, nessuno escluso), il regista mostra corpi straziati, menti sconvolte, ma anche gesti di fratellanza tra soldati nemici feriti che acuiscono il senso dell’inutilità di quella strage (un soldato francese stringe tra le sue mani quelle di Karl e lo chiama camerata). Il film si chiude con la scritta “Fine?!” accompagnata dal suono delle esplosioni, in una sorta di commiato sospeso da una domanda che pare presagire i futuri drammi che coinvolgeranno l’Europa. Pabst, per buona parte della durata del regime nazista girò i suoi film in Francia.

  Storia del cinema e dei film di David Bordwell




Les croix de bois di Raymond Bernard (1931)

The road to glory di Howard Hawks (1936)

Un film chiave nella rappresentazione della Prima Guerra Mondiale è il francese Le croix de bois (le croci di legno) tratto da un romanzo di Roland Dorgeles del 1919 in cui erano narrate le vicende autobiografiche dell’autore che aveva vissuto l’esperienza del fronte franco – tedesco. Il film diventa un prototipo per gli altri del genere (debitore ne sarà sicuramente Kubrick a sua volta influenzato anche da Hawks che farà un remake delle Croci dal titolo The road to glory del 1936; Orizzonti di gloria nell’originale inglese si intitola Paths of glory con riferimento, paths - i sentieri, al titolo di Hawks) al punto che alcune sequenze delle battaglie verranno inserite in vari documentari sulla Prima Guerra come fossero riprese dal vero degli eventi. 

Il film si apre sulla gioiosa partenza dei soldati accompagnati dall’entusiasmo delle folle e dalla fiducia in un evento breve e positivo. Ma il regista ci mette subito in guardia: quei soldati in partenza diventeranno altrettante croci, una delle quali ha incisa l’epigrafe In memoriam, monito per le future generazioni. 

Un uomo, confuso tra la folla festante, è sicuro che questa guerra frutterà miliardi alla Francia; un manifesto ricorda ai cittadini di non indebolire lo spirito con ingiustificate emozioni (di paura aggiungiamo noi); la fila dei giovani che si arruolano è chiusa però da una breve dissolvenza in cui compare il volto sofferente di una donna, simbolo delle madri che perderanno i figli in guerra. 

Vi è dunque nel film, insito fin dall’inizio, un sentimento di profondo scetticismo verso la retorica della guerra. In una Francia che ancora non aveva smaltito l’euforia nazionalistica dei trattati di Versailles, il film di Bernard è un atto di accusa e un monito affinché non si cada nuovamente nella tentazione di intraprendere nuovi “risolutori” conflitti.
La sequenza della battaglia dura 14 minuti ed è costruita seguendo un criterio di realismo che Bernard persegue con scelte stilistiche precise. Intano si perde, piuttosto velocemente, l’ordine spaziale della scena. Dopo un carrello iniziale sui soldati in attesa dell’attacco, quando si entra nella terra di nessuno, il montaggio perde le più elementari regole di raccordo e così i cannoni tedeschi sparano indifferentemente da destra verso sinistra e da sinistra verso destra; i soldati, spesso inquadrati contro luce, diventano sagome indistinguibili; tedeschi e francesi diventano interscambiabili, egualmente ombre o fantasmi destinati alla morte. 


 

Bernard si ritaglia una intrusione extra diegetica con la scritta che sottolinea l’assurda durata di quella battaglia: 10 giorni. Una scritta che aumenta di volume. Il comandante che deve dare l’ordine d’attacco misura il tempo con il suo orologio, il cui dettaglio viene ripetuto per elevare il climax di tensione che precede la carneficina (echi di questa sequenza si ritrovano in Hawks e in Kubrick).


L’audio dei bombardamenti è martellante, gli effetti esplosivi estremamente realistici. Bernard ci restituisce la confusione di quegli attimi in cui gli uomini sono veramente come formiche al massacro. Kubrick opterà per una scelta visiva più ordinata, con quel carrello laterale che accompagna l’attacco al Formicaio. La direzione dei soldati è chiara, la posizione del nemico altrettanto (per quanto invisibile e quasi metafisico). In Bernard questo non avviene, la geografia del luogo è confusa come lo è la percezione spaziale dei soldati all’attacco, storditi dal fumo e dai rumori. Questo ricercato realismo rientra nel progetto di Bernard di offrire della guerra l’immagine vera depurata dei trionfalismi e della retorica nazionalistica.



Nella versione di Hawks, che usa largamente il materiale più spettacolare girato da Bernard, dalle sequenze della battaglia fino a quelle dell’ospedale in una chiesa (che era già presente in Westfront di Pabst), la componente eroica è certamente più forte e il colonnello Roche muore addirittura insieme al padre che si era arruolato sotto falso nome e largamente fuori età (come a sottolineare la trasversalità generazionale nella necessità del sacrificio per la patria). 
La matrice hollywoodiana si può riscontrare anche nell’importanza data alla figura femminile (la avvenente crocerossina Monique, contesa tra due ufficiali, di cui non si manca di sottolineare la carica erotica) 
e nel finale che esalta l’orgoglio patriottico e il valore dei soldati coinvolti nel conflitto, ricordando che il battaglione (passato in rivista dal colonnello, mentre extra diegeticamente risuonano le note della Marsigliese), di cui fanno parte i protagonisti, è stato creato da Napoleone. 
Il motivo di condanna morale della guerra praticamente scompare e basta un confronto tra gli incipit dei due film per cogliere appieno la differenza (le metafore visive del film di Bernard sono eluse da Hawks che entra subito nel vivo dell’azione). Il motivo ripetuto della tromba della carica ci rimanda ai topos del cinema western in cui la tromba è collegata, oltre che al tema dell’eroismo, anche all’idea della giustizia che trionfa sul male. 

In una delle sequenze iniziali, tra l’altro, è rappresentato un bombardamento da parte di uno Zeppelin tedesco, una delle rare ricostruzioni cinematografiche di azioni del genere. 


 L’uomo che ho ucciso di Ernst Lubitsch (1932)

Nel pieno di una ondata di revanscismo e nazionalismo germanico, il tedesco Lubitsch (ma stabilmente ormai al lavoro nello studio system americano) realizza per la Paramount un film decisamente controcorrente e che paga con l’insuccesso commerciale questo suo coraggio. Tratto da una piece teatrale (un remake verrà realizzato da Francois Ozon nel 2017 con il titolo di Frantz), L’uomo che ho ucciso è la storia della ricerca di un perdono e di una redenzione tutta individuale e personale di chi, suo malgrado è sopravvissuto agli orrori della guerra portando il proprio contributo di sangue. La storia del giovane soldato francese che uccide il tedesco Walter Holderlin in una lotta di trincea e che si reca in Germania per chiedere perdono ai suoi familiari, è una sorta di accorata richiesta, carica di speranza, che il capitolo dei rancori e delle vendette si chiuda una volta per sempre. 
Accomunato dalla passione per la musica, il carnefice si introduce in casa della vittima e diventa figlio al posto di Walter riuscendo nel miracolo di riconciliare se stesso e i genitori del soldato tedesco con la vita. Nel segno della musica (Paul suona il violino di Walter di fronte ai suoi genitori commossi) avviene il miracolo del perdono che l’immagine della Madonna con il figlio morto tra le braccia evoca nella sequenza iniziale, sequenza straordinaria nella sua efficacia cinematografica di condensare in pochi ma chiarissimi passaggi visivi il senso di sdegno per la guerra e il desiderio di riconciliazione religiosa con la vita.
I cannoni che continuano a sparare (doppia allusione agli scoppi di festa ma anche al riecheggiare delle cannonate mortali della guerra), mentre le campane suonano a festa per l’anniversario della vittoria francese, sono un monito (che verrà ribadito durante il film che allude al prepararsi di una nuova guerra) e stridono con l’aria di festa che le parate evocano. La scritta di un ospedale che richiama al silenzio (o che, ambiguamente, pone l'ospedale stesso in un angolo silenzioso, messo a tacere) ci conduce tra le camerate di quel luogo di sofferenza in cui i cannoni, che sparano forse per la festa, sono ordigni che terrorizzano i pazienti. 


Una chiesa gremita di soldati, in divise scintillanti, che pregano ma mostrano le armi, le pistole, le sciabole in uno stridente contrasto che si fa più evidente quando con un carrello in avanti Lubitsch stringe sul dettaglio di un crocifisso in cui l’immagine della sagoma del Cristo sofferente si accompagna al rumore delle cannonate, quasi che anch’esso fosse vittima di quelle esplosioni. L’ipocrisia di celebrare la morte e la sofferenza si smaschera allorché i tronfi ufficiali abbandonano la chiesa in cui rimane un uomo nascosto e inginocchiato, veramente pentito e sofferente. Il dettaglio degli stivali luccicanti, delle sciabole che toccano il pavimento accentua il contrasto (alla Eizenstein) tra la sacralità del luogo e la profana presenza dei militari portatori di morte. Il parroco che li benedice è dalla loro parte in questo incipit che denuncia (come ne La corazzata Potemkin) la correlazione tra poteri religioso, politico e militare.





Nel cuore del film, il discorso del padre di Walter, riunito con gli amici in una taverna, che ha accolto il giovane francese tra le mura di casa e deve difendersi dalle maldicenze del paese, i cui cittadini paiono ancora pervasi da un profondo odio di tipo sciovinistico, risulta come il definitivo atto di accusa nei confronti di chi è veramente stato il colpevole di quella inutile strage, ovvero di quei padri che hanno mandato a morire i figli con enfasi ed entusiasmo: Noi i padri! Qui e dall’altra parte. Noi eravamo troppo anziani per combattere, ma non lo eravamo per odiare. Noi siamo i responsabili.
Il film, dopo l’insuccesso iniziale, fu rieditato dalla Paramount e cambiò due volte il titolo: Broken Lullaby e, nel 1936, The Fifth Commandment. Presentato alla prima edizione della mostra di Venezia non venne distribuito in Italia per la proibizione del regime fascista che ne censurò le evidenti tematiche anti militariste e pacifiste.


Il sergente York di Howard Hawks (1941)

Cinque anni dopo Road to glory, Hawks torna al periodo della Prima Guerra Mondiale per celebrarne uno degli eroi, il sergente Alvin York (nel film Albert York), interpretato da Gay Cooper. Ne realizza un film sontuoso che fa manbassa di premi Oscar e che incarna alla perfezione lo spirito americano sul punto di essere nuovamente chiamato alla prova della guerra (il film esce nelle sale mentre sta per approssimarsi l’ingresso degli USA nel secondo conflitto mondiale). La storia di York è letta da Hawks come riproposizione dell’ascesa del self made man, dell’americano qualunque, dell’uomo virtuoso dell’America delle campagne, devota e lavoratrice (il protagonista non sa cosa sia una metropolitana). 


York non è irreprensibile ma un evento miracoloso lo converte verso una visione rigorosamente religiosa della vita (egli diventa la pecorella smarrita che rientra nel gregge che è evocata dal pastore nell’omelia della sequenza iniziale in chiesa). Un fulmine, come per San Paolo e Lutero, si abbatte su York la cui devozione deve misurarsi con il dilemma della partecipazione alla guerra. 




Egli  è un obiettore di coscienza, ma è costretto ugualmente a partire trovandosi di fronte ad un bivio esistenziale: seguire alla lettera i comandamenti biblici, in specie quello del non uccidere, oppure abdicare al dovere e al sacrificio per la patria? Hawks circonda il protagonista di personaggi che lo inducono alla riflessione, che lo conducono sulla retta via. In particolare gli ufficiali della caserma di addestramento sono disegnati come bonari, tolleranti e comprensivi (molto poco realistico specie quando l’ufficiale indulgente concede a York una licenza per tornare a casa e riflettere meglio sui suoi dubbi); uno di loro, come il pastore del suo paese, si prende a cuore il giovane e cerca di risolverne i dilemmi esistenziali. Il buon soldato è un nuovo padre per York che riesce a trovare le risposte che cercava tanto nella Bibbia quanto nella riflessione personale e nel ritorno a casa. 

E’ questo il cuore dell’America: la fattoria, la terra, la futura moglie. York legge la Bibbia sulla cima di un dirupo, ha di fronte a sé tutto il suo mondo ed ecco la risposta: dare a Dio ciò che è di Dio e dare a Cesare ciò che è di Cesare. Dalle pagine della Bibbia una illuminazione insperata, mentre la voce off della coscienza di York sottolinea il rovello del protagonista tormentato dal dualismo tra Dio e Patria. La giustizia di dio è proiettata verso l’aldilà, quella dell’uomo ha un suo percorso terreno ed è nelle mani dell’uomo (sappiamo quanto gli americani si sentano investiti di questa responsabilità terrena). York deve difendere i giusti principi e soprattutto la libertà, il bene terreno più prezioso: ecco la conciliazione delle due dimensioni che York andava cercando. 



Dio è con gli americani, Dio è con York, dalla parte della giustizia. Il messaggio del film è chiarissimo: è dovere di ogni americano difendere la libertà di ciò che ha costruito con fatica. La ricompensa è già qua: gli ultimi 15 minuti del film, infatti, mostrano le celebrazioni dell’eroe, riconosciuto come tale dai commilitoni, dagli ufficiali, dai compatrioti, dai compaesani. York realizza se stesso come uomo pienamente spirituale e come uomo della forza e della giustizia, come soldato che uccide per un bene superiore. Quella di Hawks è una chiamata alle armi soprattutto per i suoi contemporanei, compresi quei puritani restii alla violenza per la violenza. Il nemico è sempre lo stesso, i tedeschi, la strada è già tracciata, la ricompensa sicura. La trasfigurazione del mito americano, il suo bisogno di eroi, la sua celebrazione e la sua riproposizione. Hawks è l’americano roosveltiano e non vuole nasconderlo. 




Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick (1958)

Nel 1956 Kubrick e Jim Thompson presentarono alla United Artists una sceneggiatura che trattava di un episodio della Prima Guerra Mondiale. Era un episodio che coinvolse l’esercito francese la cui immagine poteva essere decisamente scalfita. Fu per questo che la United rifiutò di finanziare il film che sicuramente non avrebbe avuto il consenso alla proiezione in Francia. Inoltre la sceneggiatura non prevedeva parti femminili ed aveva un finale tragico; “Non è esattamente quello che sognano gli Studios come film di Natale” commentò sarcasticamente il socio di Kubrick, Harris. Al progetto si mostrò interessato Kirk Douglas, allora attore tra i più gettonati di Hollywood, che pretese la parte di protagonista contribuendo alla organizzazione economica del film, tanto che convinse la United a tornare sui suoi passi e finanziare la pellicola. Un terzo dei costi erano per l’ingaggio di Douglas (350000 dollari su un budget totale di 950000). Le riprese del film si svolsero in Germania, a Monaco, in virtù del fatto che il sentimento antifrancese di cui era permeato il film impediva di effettuare le riprese in Francia.
La scena della corte marziale si svolge all’interno di un palazzo reale bavarese caratterizzato dal pavimento a scacchiera. Proprio gli scacchi erano uno dei giochi preferiti di Kubrick, quasi un’ossessione e i tre soldati, inquadrati dall’alto, parevano proprio delle pedine (vittime di un gioco sadico) su una scacchiera. La sequenza ha echi dell'analoga scena del processo ne La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer: i giudici diventano sagome scure dietro cui sembra quasi nascondersi la macchina da presa e le loro ombre minacciose coprono i corpi degli imputati. Il potere, nella sua fredda razionalità (la scacchiera appunto) non potrebbe essere più oscuro e minaccioso.

Per le scene di massa Kubrick utilizzò 300 poliziotti tedeschi che interpretarono il ruolo dei soldati francesi. Erano ben preparati perché la polizia tedesca prevedeva un addestramento militare di tre anni per i suoi allievi, ma quello che dovevano mettere in scena era piuttosto lo scoraggiamento, la disillusione e la fiacchezza di un esercito, quello francese del conflitto, rassegnato al proprio destino. La disperazione morale che si doveva mostrare di quei soldati era funzionale all’idea dell’inutilità della guerra che doveva emergere dal film. 
L’uso della macchina a mano accentuò l’effetto di realismo, specie nelle sequenze di battaglia, che Kubrick perseguiva con il suo solito maniacale perfezionismo. Il campo di battaglia fu ricavato da un pascolo sul quale si lavorò per oltre tre settimane, trasformandolo in una terra di nessuno arida e sterile, devastata e ricoperta di oggetti bellici di ogni tipo (filo spinato che si contorceva in forme macabre), compreso un velivolo che doveva bruciare per tutto il tempo dell’attacco (la sagoma dell'aereo è il simbolo di un eroismo individuale impossibile, la distruzione di ogni parvenza di onore; non a caso la sagoma compare nella terra di nessuno in una sequenza notturna, come immagine fantasmatica quasi onirica e poi scompare nell'attacco del giorno successivo). 
La quantità di esplosivo che venne accumulata costrinse la produzione a farsi dare un permesso da una commissione governativa tedesca. Kubrick fece ripetere alcune sequenze della battaglia fino a trenta volte. Il famoso carrello laterale che seguiva Douglas nella sua corsa verso il reticolato nemico, si componeva in realtà delle riprese di sei macchine da presa poste le une dietro alle altre e che correvano parallele all’attacco. Il campo di battaglia era diviso in 5 zone di morte: a ciascuna comparsa veniva assegnato un numero da uno a cinque e gli veniva detto di morire nella zona corrispondente, se possibile, vicino a un’esplosione. Kubrick manovrava personalmente una delle macchine.



Per permettere le carrellate lungo le trincee francesi, Kubrick, avrebbe voluto tradire le misure storiche di queste postazioni rendendole più larghe di quanto fossero realmente; per rimediare fece sistemare delle passerelle di legno in terra su cui far muovere le macchine da presa, ma questo dettaglio era coerente con le condizioni delle trincee reali, nelle quali le passerelle avevano la funzione di evitare ai soldati di camminare sul fango che veniva a formarsi.
Come quartier generale venne scelto un castello medievale che doveva risultare in stridente contrasto con il sottosuolo a cui venivano costretti i soldati semplici (del resto votati allo sterminio per il possesso di un luogo ribattezzato emblematicamente “Il formicaio”). Il film era anche un atto di denuncia delle discriminazioni sociali e delle distinzioni di classe che in guerra venivano ad essere amplificate. I soldati semplici erano destinati alla morte, gli ufficiali vivevano nel lusso e nella sicurezza di lontani manieri.

Il finale del film è un ulteriore contributo all’idea centrale della guerra come assurda e crudele: decine di soldati, colpiti da psicosi traumatica, assistono inebetiti allo spettacolo di una ragazza tedesca (interpretata da Susanne Christian, futura terza moglie di Kubrick) che canta per loro; essi sono l’espressione vivente di uomini logorati, provati e stanchi della guerra. La malinconia del canto accentua la sensazione che quella platea di soldati somigli ad un ritrovo di bambini spauriti ed angosciati che piangono di fronte ad una donna mamma che sta loro cantando una sorta di ninna nanna. Addirittura Kubrick utilizzò, per la scena finale, gli attori che in precedenza erano stati uccisi, come personaggi, nella ronda fuori dalla trincea, quasi a sottolineare il destino di morte che aleggiava su quelle anime pure.

La reazione al film da parte dell’esercito francese fu immediata (quasi provocatorio l’uso della Marsigliese con la sua enfasi nei titoli iniziali), tanto che fu lanciata una campagna di boicottaggio del film in tutta Europa. L’idea che il comando francese avesse sacrificato delle vite umane innocenti per la gloria nazionale irritò la comunità europea. Nel giugno 1958 Orizzonti di gloria fu proiettato a Berlino e alla prima del film 50 francesi in abiti civili picchettarono l’ingresso del cinema protestando a gran voce. I francesi minacciarono di boicottare il festival di Berlino se Orizzonti di gloria fosse stato incluso nel programma ed infatti il film fu escluso dalla manifestazione. La proiezione del film fu permessa soltanto negli Stati Uniti, nella Germania Ovest e nella parte britannica di Berlino dove pure alcune proiezioni vennero disturbate da soldati francesi che gettarono bombe puzzolenti in platea. Il film fu poi bandito dal circuito dei cinema dell’esercito americano sparsi nel globo e dalla Svizzera. In Italia e in Inghilterra si riconobbe invece l’alto valore culturale ed artistico della pellicola. In Francia fu proiettato soltanto nel 1974. Il film, comunque, non fruttò alcun profitto a Kubrick.

Stanley Kubrick, l’uomo dietro la leggenda di Vincent LoBrutto


La grande guerra di Mario Monicelli (1959)

Il film che rivede la Grande Guerra con un occhio retrospettivo molto meno indulgente e trionfalistico dei precedenti. Messi da parte l’eroismo e l’onor di patria, Monicelli dipinge il quadro di un’Italia i cui vizi e virtù ritroviamo inalterati anche nello svolgersi tragico della guerra. Vedi scheda nel blog

 Uomini contro di Francesco Rosi (1970)

Liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu Un anno sull'Altipiano, il film di Rosi si situa in un contesto di fermento sociale ed è collocabile in quel cinema di opposizione ai valori borghesi che è figlio del 68. La lotta di classe emerge con forza e Gian Maria Volontè, volto icona del cinema “contro”, incarna l’ufficiale portatore di idee rivoluzionarie e scomode. L’ottusità degli alti comandi è ribadita ad ogni fotogramma. I soldati sono i giovani che si scontrano con padri che non hanno pietà. Vedi articolo nel blog.

E Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo (1971)

Nel 1932 lo sceneggiatore americano Dalton Trumbo viene a conoscenza della vicenda di un soldato inglese, rimasto senza gambe, braccia, cieco, sordo e muto a seguito di un combattimento durante la Prima Guerra Mondiale e morto dopo 15 anni di sofferenze. Quella vicenda lo ispira e nel 1939 pubblica un romanzo dal titolo Johnny got his gun. Siamo alla vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e il romanzo di Trumbo ha una grossa eco al punto che viene letto alla radio da James Cagney, in una riduzione letteraria. Il protagonista del romanzo vive l’esperienza del soldato inglese sopravvissuto come un troncone umano e tenuto in vita da medici più preoccupati di sperimentare e studiare quel corpo piuttosto che accelerare una morte che sarebbe stata una liberazione. Occorrono 30 anni perché Trumbo abbia la possibilità di realizzare un film su quel canovaccio. 
Nel 1971, prodotto da una casa americana indipendente, esce Johnny got his gun in versione cinematografica, diretto dallo stesso Trumbo. Siamo nel pieno della contestazione contro la guerra del Vietnam e il film ne diventa un manifesto con il suo messaggio pacifista che va oltre la condanna della sola Prima Guerra Mondiale. Il film, ambientato quasi per intero nelle stanze dell’ospedale dove viene ricoverato il soldato americano ferito, narra il percorso mentale che porta alla presa di coscienza del soldato riguardo la propria condizione, alternando i pensieri angosciosi del troncone umano, relegato nel lettino d’ospedale, ai suoi sogni e ai suoi ricordi (le immagini dell’ospedale sono in bianco e nero mentre quelle dei ricordi sono a colori, ribaltando un cliché cinematografico ormai consolidato) che ci riportano alle motivazioni che lo hanno portato ad arruolarsi e alla inconsapevolezza del destino a cui si condannava. 

Diversi sono i temi che affronta il film: il contrasto tra la retorica e la sostanza della guerra (che produce corpi mutilati, sofferenza e morte); la questione etica di una medicina che non pratica l’eutanasia di fronte ad una sistematica macchina di morte come può essere la guerra e può fare dei feriti altrettanti oggetti di sperimentazione o delle macchine di nuovo funzionanti per essere condotte nuovamente al macello (la pietà dell’infermiera che prova a farsi portavoce delle intenzioni del ferito, si scontra con il cinismo dei dottori); la persistenza di umanità di fronte ad una mutilazione di parti del corpo (fino a che punto può dirsi umana un’esistenza come quella del soldato divenuto troncone vivente; il generale Tillery che lo visita, mutilato anch’esso, esclama beffardamente: “il cuore, la circolazione e i centri respiratori continuano a funzionare, in breve egli vive”); 


la necessità di  nascondere gli orrori della guerra all’esterno (il soldato immagina di poter dare senso alla sua esistenza diventando fenomeno da baraccone e testimonianza vivente delle barbarie del conflitto, ma tutto ciò gli viene impedito). C’è chi sostiene che il film di Trumbo, che ebbe diverse vicissitudini distributive (un primo rifiuto di presentazione al festival di Cannes; la ritardata distribuzione in Italia), non abbia avuto il coraggio di andare fino in fondo alle proprie premesse decidendo di occultare l’orrore delle mutilazioni e del corpo straziato; certo è che la claustrofobica costruzione degli spazi ospedalieri (spezzata soltanto dai flashback e dai sogni), connessa all’uso della voce off che dà corpo all’angoscia insopprimibile della vittima, risultano un pugno allo stomaco per lo spettatore medio.
Il film, nel suo complesso, restituisce il forte messaggio pacifista che emerge dal romanzo; di questo offriamo alcuni passaggi, tratti dai monologhi interiori della voce narrante che descrive i pensieri che passavano per la mente del disgraziato protagonista (l’assenza di virgole non è un svista ma una scelta stilistica dell’autore, la cui scrittura si avvicina al flusso di coscienza di Joyce):

… E in ogni caso per quale tipo di libertà stavamo combattendo?...E di chi era quell’idea di libertà? Combattevano per la libertà di mangiare coni gelato gratis tutta la vita o per la libertà di derubare chiunque volessero tutte le volte che volessero o cosa altro?...E comunque cosa cavolo vuole dire libertà? E’ soltanto una parola come casa e tavolo. Solo che è un tipo speciale di parola. Uno dice casa e può segnare con il dito una casa per indicarla. Ma quando uno dice andiamo a combattere per la libertà non ti può mostrare la libertà...Nossignore chiunque sia andato a combattere nelle trincee del fronte in nome della libertà era un emerito cretino e chi ce l’ha mandato un maledetto ipocrita...Perdio la gente ha sempre combattuto per la libertà. Nel 1776 l’America ha combattuto una guerra in nome della libertà. Tantissima gente ci morì. E alla fine l’America aveva forse più libertà del Canada o dell’Australia che non avevano affatto combattuto?...Se si guarda un uomo si può dire è un americano che ha combattuto per la sua libertà ha un aspetto molto diverso da un canadese che non l’ha fatto?...La guerra si faceva per salvare la democrazia nel mondo nei piccoli paesi in tutti gli uomini. Se la guerra fosse finita in quel momento allora la democrazia sarebbe stata salva. Ma lo era davvero? E quale tipo di democrazia? E quanta? E di chi?...Tutti dicevano che l’America stava facendo una guerra per il trionfo della dignità umana. Ma quell’idea di dignità di chi era? E per chi era? Ci dica ci spieghi bene signore di che dignità si tratta. Ci dica come mai un degno uomo morto si debba sentire molto meglio di un indegno uomo vivo...Cristo fateci combattere per cose che possiamo vedere e sentire e toccare con mano e capire. Basta con le parole altisonanti che non significano niente come patria...Se ti fai ammazzare combattendo per la madre patria è come entrare in un negozio a comprare qualcosa con gli occhi bendati. Paghi per qualcosa che non avrai mai...Ma i morti cosa dicono? Ne è mai tornato indietro uno uno solo dei milioni che sono stati uccisi ne è mai tornato indietro uno a dire perdio sono contento di esser morto perché la morte è sempre meglio del disonore? Hanno detto sono contento di essere morto per salvare la democrazia nel mondo?...Solo i morti sanno se vale la pena o no di morire per tutte quelle cose di cui parla la gente...La vita è terribilmente importante perciò se l’hai data via per qualcosa negli ultimi minuti che ti restano penserai con tutte le tue forze alla cosa per la quale l’hai tradita. Dunque tutti quei ragazzi sarebbero morti pensando alla democrazia e alla liberazione e alla libertà e all’onore e alla sicurezza del focolare domestico e alle strisce e alle stelle della bandiera americana? Hai proprio ragione tu non l’hanno fatto. Sono morti piangendo dentro di sé come neonati...Lui (Johnny) era un uomo morto con una mente che sapeva ancora pensare. Lui sapeva tutte le risposte che sapevano i morti ma loro non potevano più pensarle...Lui poteva dire caro signore non c’è niente per cui valga la pena morire io lo so perché io sono morto...Non c’è niente di nobile nel morire...Se vi dicono che siete dei vigliacchi non fateci caso perché il vostro mestiere è quello di vivere e non di morire...Non c’è niente di più importante della vita...(E Johnny prese il fucile, Libro I, capitolo X)




The trench di William Boyd (1999)

Questo film di produzione inglese, passato da noi soltanto in edizione homevideo, è interamente ambientato all’interno di una trincea inglese alla viglia della battaglia della Somme, la più sanguinosa che la storia dell’esercito inglese ricordi. Il film narra la (apparente) normalità della vita dei soldati rintanati tra i cunicoli della trincea in cui la tensione è palpabile essendo in quella condizione di vicinanza alla morte che sembra abbattersi da un momento all’altro su di loro. Le foto pornografiche che vengono mostrate a pagamento tra commilitoni, le visite degli ufficiali, i banali gesti quotidiani che diventano potenzialmente gli ultimi dell’esistenza dei soldati (piccoli furti, scommesse, sfide). 
Con una messa in scena essenziale (girato quasi interamente in studio) il film descrive con un certo realismo la quotidianità dei soldati pronti al macello. Una certa lentezza, lo stile televisivo nuocciono all’insieme ma una sequenza, più di altre, pare interessante: un operatore scende in quei meandri per riprendere momenti di vita dei soldati al fronte. Un ufficiale guida la coreografia; la macchina da presa è un marchingegno delicato, i soldati dei manichini che devono parere sorridenti e sereni. La messa in scena della guerra per la propaganda deve restituire una immagine falsa e artefatta che influenza gli spettatori lontani dal teatro del conflitto. Questa è l’immagine che ci restituiscono i documentari, questa è la guerra che per un certo tempo vedono e conoscono (mediata) i cittadini europei. Il primo esempio di cinema come macchina di propaganda e che anticipa le modalità simili che adotteranno i regimi totalitari, usando la settima arte come strumento privilegiato.




 La chambres des officiers di francois Dupeyron (2001)

In Francia nel 2001, Francois Dupeyron, estrae dal romanzo di Marc Dugain, La chambre des officiers, un film che ripercorre analoghe vicende a quelle narrate da Trumbo. In quest’opera la vittima è un ufficiale che rimane terribilmente dilaniato nel volto a seguito di una esplosione di una bomba in una missione di guerra. Trasportato in un ospedale militare viene ricoverato in una apposita stanza per ufficiale dove non esistono specchi ed è dunque possibile tenere coloro che hanno orribili mutilazioni facciali. Il regista francese opta per una scelta a metà tra l’occultamento di Trumbo e la visione quasi splatter delle mutilazioni, decidendo di mostrare tali ferite in modo sfumato, filtrato, sostenibile.
Se in Trumbo la chiusa del film lascia poco spazio alla speranza in Dupeyron vi è una apertura ad una speranza futura per il malcapitato che diventa un freak della società, un freak che può mostrare i segni del proprio destino senza doversi forzatamente sentire un mostro; nel finale (che ci riporta al tema del Frankenstein shellyano del rapporto tra il mostro e la società con tanto di incontro con una bambina dallo sguardo puro)  una ragazza si imbatte nel giovane appena dimesso dall’ospedale che si vergogna del proprio aspetto, ma la ragazza esclama: "No, lei non è un mostro".







Una lunga domenica di passioni di Jean Pierre Jeunet (2004)

Questo film francese del visionario Jeunet è ambientato nell’immediato dopoguerra ma ha una lunga serie di sequenze, specie nei primi 15 minuti, che riproduce con una certa dovizia di particolari piuttosto realistici, il terribile contesto delle trincee lungo il fronte occidentale. Quello che raccontano i primi minuti (partendo da un carrello a scendere che ci mostra un crocifisso semi distrutto che si erge in mezzo al filo spinato delle trincee, richiamando l’analogo crocifisso distrutto all’interno della chiesa ospedale in Westfront
è il tentativo di alcuni personaggi di evadere dall’inferno della guerra con la piuttosto diffusa pratica dell’automutilazione di cui vediamo una variegata vetrina di esempi. Con il tono a metà tra il favolistico e il grottesco, con una fotografia dai colori saturi e caricati, Jeunet ci porta dentro le trincee con le sue immagini deformate dal grandangolo, tra il fango, l’umidità, i topi e la sporcizia anche morale che le attraversa. Questa galleria di codardi e di ribelli, destinati alla logica punizione, entra di diritto nell’immaginario cinematografico della Prima Guerra Mondiale.




 War Horse di Steven Spielberg (2011)

Anche Spielberg ha ambientato uno dei suoi film nella Prima Guerra Mondiale conducendoci, come molti altri registi, all’interno delle trincee e della terra di nessuno. A condurci in questo ennesimo viaggio nell’inferno della Grande Guerra è però, questa volta, un cavallo, il cui passaggio di padrone in padrone è l’occasione per raccontare la guerra da molteplici punti di vista (dalla parte tedesca, a quella inglese fino al punto di vista dei contadini francesi). 
Tratto da un romanzo per ragazzi di Michael Malpurgo in cui il cavallo Joe è protagonista al punto da essere voce narrante in prima “persona”, il film si muove rimanendo a metà tra la favola e il dramma bellico dipanandosi tra scene spettacolari e pause bucoliche (la prima parte nella fattoria inglese e la parte centrale in quella francese). Proprio la pace agreste viene spazzata via dalla violenza della guerra che viola gli spazi sacri degli agricoltori prendendo possesso delle terre e dei frutti che esse producono. Così alla colorata campagna della pace fa da contrasto l’infernale territorio devastato dalla guerra in cui scompare ogni barlume di vita vegetale e animale. 

In questo senso il cavallo che corre libero nella terra di nessuno e che si ribella alla logica di morte delle trincee (in una delle sequenze più belle del film) rappresenta proprio il barlume di vitalità naturale che sopravvive a dispetto delle devastazioni umane. Il cavallo del miracolo, come viene definito, è quasi una immagine allegorica della vita che non vuole farsi sconfiggere dal thanatos e dalle pulsioni di morte che deflagrano in guerra. 

Avvolto nel filo spinato come un Cristo animale, Joe induce i combattenti alla sospensione del conflitto, alla tregua perché la sua salvezza diventa il simbolo della salvezza dell’intera umanità (come piace a Spielberg, egli sovente apre l’orizzonte metafisico dei suoi film). Il soldato tedesco e quello inglese collaborano alla liberazione dell'animale, se lo contendono con una moneta e poi si conciliano riponendosi i rispettivi elmetti sulla testa. Dopo la miracolosa sospensione della lotta, i due personaggi tornano alle rispettive trincee con sulla testa il simbolo, vacuo, della loro (apparente) diversità.

In una sequenza precedente, poi, Spielberg mette in scena una anacronistica carica di cavalleria che è la rappresentazione più vivida di una Guerra che i contemporanei faticarono ad interpretare nella sua epocale novità. I cavalieri all'assalto contro le mitragliatrici furono l'ultima assurda permanenza di una guerra e di un mondo che non esistevano più. La Prima Guerra, in questo senso è uno spartiacque fondamentale, una vera terra di nessuno che chiude l'Ottocento e apre il Novecento. L'eroe della Prima Guerra Mondiale è ignoto, il milite senza nome e senza volto, letteralmente spazzato via da una tecnologia bellica disumana. 




Il Barone Rosso di Roger Corman (1971)
Il Barone Rosso di Nikolai Mullerschoen (2008)
Lo spazio per l'eroismo sembra permanere soltanto nei duelli aerei e non è un caso che si ricordino aviatori come il Barone Rosso o Francesco Baracca quali veri, ultimi cavalieri di un'epoca che fu. E su di essi il cinema ha raccontato per immagini. Si segnalano, a questo proposito, due film sul Barone Rosso, dal titolo identico; la versione di Roger Corman del 1971 e l'ultimo, in ordine di tempo, del 2008 (produzione inglese ma regia del tedesco Nikolai Mullerschoen) la cui sequenza iniziale allude proprio al tema dell'aviatore come cavaliere e come eroe ancora legato ad un codice etico e militare che verrà drammaticamente dimenticato.


The water diviner di Russell Crowe (2014)

Russell Crowe ci riporta là dove Peter Weir aveva ambientato il suo Gallipoli, nel cuore di quella parte di conflitto della Grande Guerra che rimane ai margini della memorialistica occidentale. Il fronte orientale nel sud, sulle coste della penisola anatolica fu teatro di scontri altrettanto sanguinosi di quelli degli altri fronti. A scontrarsi furono i turchi contro truppe di soldati provenienti dai luoghi più disparati, compresi alcuni battaglioni di australiani. Crowe torna a disseppellire le tombe dei morti per ritrovare i figli e donare loro una degna sepoltura, ma in questo modo si trova, suo malgrado, invischiato in un conflitto che non pare sopirsi. La forza del film di Crowe, al di là di alcuni aspetti da action americano, sta proprio nell’offrirci uno spunto di riflessione su ciò che la guerra lascia di irrisolto e di incompiuto. 
La Turchia del dopo conflitto era una polveriera tutt’altro che sopita e il film mostra i nazionalisti in corteo e i seguaci di Mustafa Kemal (che diverrà il mitico Ataturk) che si riuniscono per organizzare la rivoluzione. Ma ci sono anche i greci che si sono presi una fetta di Turchia e poi gli inglesi ospiti indesiderati ma forti della loro posizione di vincitori. 
Nel mezzo questo australiano a cui un ufficiale turco chiede argutamente: Ma voi dall’Australia siate venuti fin qua senza reclamare alcun bottino? Possibile che abbiate combattuto senza avere niente in cambio? Due brevi osservazioni che aggiungono una riflessione più ampia all’insieme dei fatti narrati. La guerra non ha risolto tutto, anzi talvolta ha aperto nuove crepe, ha allargato crateri ma soprattutto ha lasciato cicatrici difficili da rimarginare (e così Crowe viene per disseppellire i propri morti e si ritrova nel mezzo di un altro conflitto, quello tra greci e turchi). 


L’happy end hollywoodiano non deve far passare in secondo piano il forte impegno civile del film che guarda alla guerra anche nei suoi aspetti pratici e alle conseguenze. E’ valsa la pena perdere due figli per un pezzo di terra ora desolata, per una libertà che non è ancora libertà, per un vantaggio che non pare visibile e tangibile, per principi che faticano ad emergere? I padri hanno mandato i figli alla guerra convinti di risolvere i problemi del mondo e Crowe, nel suo personaggio, ne incarna il modello dolente e sconfitto. Non si dovrebbe fare la guerra in una terra che non si conosce, è il monito del solito ufficiale turco al padre australiano, monito forte e preciso.




 The testament of youth di James Kent (2014)

Il film è ispirato alla vicenda di Vera Brittain, la scrittrice inglese che nel suo romanzo autobiografico, Generazione perduta racconta le drammatiche vicissitudini che ha vissuto durante la Prima Guerra Mondiale. E' una storia paradigmatica di un'epoca abbagliata da falsi ideali che hanno soffocato le energie più vitali di una intera generazione che si è letteralmente persa. Lo sguardo femminile del romanzo e del film rappresentano una rarità nella complesso biblio-filmografia sulla Grande Guerra. Quello che è particolarmente interessante è innanzitutto la sincerità di questa visione che pone la scrittrice tra le fautrici ingenue e consapevoli dell'entusiasmo per la guerra sulla spinta di principi di difesa della democrazia in cui credeva fortemente. 

Le personali sofferenze sono un corollario alle convinzioni di Vera che riceve una altrettanto dolorosa delusione nel momento che, finita la guerra, vede accendersi di nuovo i focolai di odio e intolleranza che l'avevano nutrita. In quel frangente la protagonista capisce che la guerra non è fondamentalmente servita a niente e che, anzi, si pone come pericolosa premessa per nuovi conflitti. La sequenza del pre-finale in cui vediamo Vera partecipare ad un dibattito pubblico sulla necessità o meno di punire severamente il nemico tedesco (il dilemma della scelta tra la vendetta e il perdono di Stato, ma anche individuale affinché dalle sofferenze presenti non ne nascano di future), risulta la chiusa politica più forte del film che sceglie poi l'epilogo poetico esistenziale nella sequenza successiva del ritorno di Vera alle acque del fiume in cui si divertiva con fratelli e amici e dunque alle acque della sua ingenua giovinezza, persa per sempre. 


La Prima Guerra Mondiale è vista come un evento di iniziazione alla vita adulta per una intera generazione di giovani che invece troveranno molto meno prosaicamente la morte (nel discorso alle reclute del college in partenza per il fronte, il direttore ricorda beffardamente: noi mandiamo i nostri giovani incontro alla vita). 
Nel caso specifico non sono però soltanto i padri ad indurre i figli al sacrificio (come in All'ovest niente di nuovo o in Water diviner; anzi nella vicenda di Vera il padre è decisamente contrario alla partenza del figlio maschio, prima e poi della stessa Vera, dopo) ma i coetanei, le stesse donne anche quelle di buona volontà e di sensibilità intellettuale come Vera (destinata agli studi ad Oxford) abbacinate da un contagioso ed ingenuo entusiasmo collettivo ed ingannate dalla propaganda e dalla romantica idea di una guerra riparatrice ed eroica. 



Bella anche la parte del racconto che descrive l'incursione di Vera nell'inferno (inviata al fronte come infermiera) dove, quasi come in un contrappasso dantesco, deve occuparsi di curare i soldati tedeschi conoscendone il dolore e la stessa ingenua volontà di vivere, che avevano toccato i suoi coetanei inglesi, e distrutta poi da un conflitto disumano e fondamentalmente ingiusto. 

Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014)
Soldato semplice di Paolo Cevoli (2015)
Il cinema italiano ha ripreso a ricordare la Grande Guerra in questi ultimi anni, sulla spinta probabilmente delle celebrazioni e degli anniversari. Due film segnaliamo a questo proposito dallo spirito e dalla fattura assai diversi per quanto di ambientazione simile (fra le montagne teatro del nostro fronte). Il primo è Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014) e l'altro è Soldato semplice di Paolo Cevoli (2015). 
Il primo è una rivisitazione in chiave spirituale e notturna di un evento sentito come un dramma che si svolge, per assurdo, all'interno di luoghi che rappresentano la pace e il distacco interiore, ovvero le montagne (tanto care a Olmi). La guerra non soltanto provoca ferite carnali ma profana la sacralità di una natura muta testimone della follia umana (e dopo Il mestiere delle armi, Olmi ritorna al motivo della guerra come scontro tra uomo e tecnica, tra carne e metallo). 
Il secondo, dal tono leggero e aneddotico, si lascia vedere per alcuni passaggi riusciti anche se un po' didascalici (la lezione del maestro elementare, Cevoli, sui falsi valori deamicisiani che ricalca e ricorda quella analoga di Roberto Benigni sui valori della razza ariana ne La vita è bella; lo scambio di messaggi con l'eliografo, strumento di comunicazione utilizzato tra le alture del fronte italiano, che invoca il Sursum Corda, ovvero la latina elevazione del "In alto i cuori", fisica ma soprattutto spirituale). Il protagonista della storia, un maestro elementare, mammone eterno Peter Pan, che deve arruolarsi per non vedersi radiare dall'insegnamento (a causa delle sue idee piuttosto audaci), ricalca la tradizione monicelliana dei pavidi e degli opportunisti che si ritrovano, loro malgrado, a dover vivere esperienze più grandi di loro.



Prezioso riferimento bibliografico: Le ceneri del passato di Giuseppe Chigi edito da Rubettino, 2014