giovedì 10 ottobre 2013

La donna che canta

La donna che canta



Regia: Denis Villeneuve
Cast Remy Girard - Notary Jean Lebel
Maxim Gaudette - Simon Marwan
Melissa Desormeaux-Poulin - Jeanne Marwan
Lubna Azabal - Nawal Marwan
Abdelghafour Elaaziz - Abou Tarek
Allen Altman - Notary Maddad
Mohamed Majd - Chamseddine
Nabil Sawalha - Fahim
Baya Belal - Maika
Lubna Azabal - Nawal Marwan
Allen Altman - Notary Maddad
Mohammed Majd - Chamseddine

Titolo originale: Incendies
Canada 2010   Durata: 125'
Produttori: Luc Dery, Milena Poylo, Gilles Sacuto, Anthony Doncque
Direttore della fotografia: Andre Turpin
Montaggio: Monique Dartonne
Musica: Gregoire Hetzel
Sceneggiatura: Denis Villeneuve

Là dove si concludeva Professione Reporter idealmente si apre questo La donna che canta. Una finestra apriva al mondo nel finale del film di Michelangelo Antonioni, qui una finestra dischiude un mondo interno fatto di sopraffazione e di odio. La macchina da presa si muove dolcemente ma lo sguardo che ci lancia il bambino in primo piano è duro, carico di risentimento e di odio.


La musica sottolinea l’emozione che suscita questa scena, emblematica è la lavagna vuota che la mdp va ad inquadrare nel suo lento movimento dal paesaggio all’interno, la lavagna di una scuola, ma ciò che stanno imparando questi bambini non è degno di essere scritto su di essa.


Stivali si alternano a piedi nudi, ciocche di capelli cadono sul terreno. Sono bambini cui viene tolta l'identità dalla sopraffazione della violenza adulta, secondo uno schema che tristemente ci riporta ad analoghi trattamenti nei campi di concentramento (solo tre punti sul tallone restano come segno che contraddistingue un bambino dagli altri).




Gemelli
Dopo il potente incipit, il film (contrassegnato da capitoli di stampo letterario) si apre alla vicenda vera e propria. L’infanzia è un coltello piantato alla gola che non si tira via facilmente, ci ricorda la voce off. Il notaio è colui che apre il percorso dei due fratelli, consegna loro la lettera affinchè scoprano la verità. Questo percorso alla scoperta della verità è un percorso di scoperta di se stessi, è come la soluzione di un enigma matematico, come ci ricorda un professore che tiene lezione di fronte a Jeanne Marwan. Ora affronterete una avventura insolubile, dice, una avventura che si dovrà affrontare da soli in quanto la matematica è il regno della solitudine (di nuovo ci troviamo di fronte ad una enorme lavagna vuota). Quelle parole sono il preambolo del film, l’enigma è umano e non matematico, il padre è l’incognita da trovare, la madre la chiave per la soluzione.



L’acqua gelata della piscina si scioglie nell’acqua dentro cui nuota Jeanne; è fuori dal mondo, un ultimo tuffo protettivo prima di attraversare il mare della conoscenza e rischiare di perdersi.


Nawal
Flashback. Lui palestinese musulmano, lei libanese cristiana un amore impossibile che dà un frutto scandaloso. La famiglia di Nawal lava nel sangue il disonore, uccidendo il ragazzo e lasciando sola a se stessa la ragazza durante il parto (che è semplicemente dolore e sangue). Il bambino è subito portato via dalla madre, un segno sul piede per riconoscerlo. La madre di Nawal, nel frattempo ha volto un accorato appello alla figlia: promettimi che andrai a scuola per uscire da questa miseria, le dice poco prima di partorire. La frase ci riporta alla lavagna vuota dell’inizio; la scuola, il tema dell’educazione all’odio la cui catena va spezzata e solo una corretta educazione civile può far questo.





Daresh
La Storia entra nella storia: con un lungo flashback vediamo i falangisti cristiani, appoggiati dal Partito Nazionalista, che attaccano le università, covo di quegli studenti, tra cui Nawal, che si oppongono alla deriva estremista che prevede l’espulsione dei palestinesi dal territorio libanese. I villaggi cristiani, i luoghi d’origine di Nawal sono stati attaccati e ora si appresta la reazione falangista. I musulmani fuggono dalle terre del sud e Nawal, ostinatamente controcorrente, si dirige versi quei luoghi così pericolosi alla ricerca del figlio (Nawal attraversa un ponte che sembra dividere due mondi e lo attraversa emblematicamente in senso contrario alla massa di musulmani in fuga).



Là dove sorgeva l’orfanotrofio ci sono soltanto macerie, Nawal vaga tra di esse come un fantasma, l’eco di una voce che spiega le atrocità che ha vissuto quel luogo sembrano non toccarla, la sua volontà è superiore a qualsiasi ostacolo.


Sul pullman ancora un terribile confronto con la realtà. L’eccidio dei passeggeri è privo di effetti sonori, la musica e le immagini sottolineano la drammaticità  dell’evento. Nawal si salva grazie alla sua appartenenza religiosa ma quanto vede ha poco a che fare con la dimensione spirituale dell’uomo. Da quel momento in poi l’appartenenza religiosa diventa un dettaglio nell’esistenza di Nawal, se mai poteva aver avuto un peso reale, visto anche l’amore provato per il giovane palestinese. Quel dettaglio delle croci sui petti dei terroristi stride ancora più forte con l’inumana violenza di cui sono involontari simboli. Nawal le osserva con il timore che si deve alle armi e il disprezzo per gli uomini che se ne fanno scudo.



Con un passaggio temporale su quella stessa strada si trova a viaggiare la figlia (le stesse inquadrature sottolineano il parallelo tra le due vicende e la comunanza del destino di due donne, volitive, testarde e pronte a morire pur di ritrovare un barlume di bene in questo mondo. In questo senso il ruolo del fratello di Jeanne è marginale e passivo rispetto alla determinazione della sorella).



Il sud
Ma se vi sono donne che camminano in senso contrario alla folla, vi sono anche donne che, in cerchio, quasi in un naturale atteggiamento di chiusura (e finta e cortese ospitalità), accolgono la figlia e la respingono non appena realizzano la sua provenienza. Non sei la benvenuta, dice la vecchia “saggia”, tu non sai chi è tua madre, le ribadisce, ma la regista ci ricorda chi è veramente Nawal (quasi a voler ribattere, tu non sai quanto è grande tua madre...), mostrandocela disperata di fronte al pulman in fiamme dopo aver tentato inutilmente di salvare la bambina musulmana


Deressa
Dio tra le nuvole, Cristo tra le macerie. 



Tra scoppi di bombe e soldati in marcia, in questo paesaggio di desolazione, musulmani e cristiani si confondono (un passaggio di montaggio analogico lo chiarisce) e le vittime diventano carnefici (la cristiana Nawal è al servizio del musulmano Chamseddine per uccidere il capo dei nazionalisti). L’inferno non può che dischiudersi nelle fredde stanze di una prigione dove finisce Nawal. Dio è lontano, o è morto, all’uomo non restano che l’odio e la rassegnazione.



Kfar Ryat
La figlia è in visita alla prigione che Amnesty ha imposto di chiudere. Il custode di quell’inferno è ora custode di una scuola che di nuovo torna come luogo simbolo, come possibile alternativa ai luoghi del dolore e dell’odio. E’ lui che dischiude i segreti della madre


La donna che canta
Nawal è, nelle parole del custode, niente più che un numero, il numero 72, una donna che mantiene una propria flebile identità connotandosi come la donna che canta. Non ha più nome, non ha più fede, non ha famiglia, nè comunità di provenienza; sradicata da ogni forma di appartenenza e lontana da ogni ideale politico, Nawal è aggrappata alla vita attraverso un canto, una nenia che soffoca il dolore e le grida. L’acqua putrida della piscina in Canada ben visualizza, metaforicamente, la condizione di ammarcimento umano a cui è stata condotta la protagonista. La musica scorre al contrario, come se si riavvolgesse un nastro, ed in effetti dal fondo dell’inferno non si può che risalire e provare a ritrovare un senso all’esistenza. Il notaio prova a fornire una chiave: la morte non è la fine di tutto.




Sarwan Janaan
Nawal mette al mondo un figlio dell’odio e della violenza, dopo aver perso il figlio dell’amore e della dolcezza. Ma i figli dell’odio sono due, emergono dal buio dell’inferno, ma una volta alla luce possono invertire il senso della storia e tramutare l’odio in ,qualcosa di positivo. Simon esce letteralmente da un tunnel, dalla terra che lo ha generato; i due fratelli, scoperta la verità hanno un moto di regressione; si tuffano nella piscina, nell’illusorio ritorno ad un grembo materno che possa rigenerarli e dar loro una nuova speranza. E’ un bagno purificatorio, non solo regressivo, ma è anche la rinascita di due creature, che vorrebbero tornare feti per sparire, ma che sono chiamati a dare un senso alla loro vita in virtu' di quella verità che hanno riportato alla luce (anche in questo senso si può interpretare l’uscita da tunnel di Simon)



Nihad
Flashback: manca un tassello al disvelamento completo della verità; chi è il padre dei gemelli? Un bambino corre tra le macerie, un cecchino spietato lo fredda; il segno sul tallone lo rende riconoscibile: è il figlio di Nawal, Abu Tarek, preso bambino nell’orfanotrofio e addestrato a diventare una spietata macchina da guerra (torna il tremendo primo piano del bambino dell’incipit).


Chamseddine è colui che sbroglia la matassa, il leader musulmano che vive all’interno di un dedalo di viuzze nel paese di Deressa. Come la soluzione di un enigma che si trova al termine di un tortuoso percorso, così la ricerca di Chamseddine è il perdersi in questo dedalo o il trovarsi bendati di fronte alla verità (come Simon)



Chamseddine
Nihad è la incarnazione dell’assurda violenza di una religiosità che ha perso di vista i valori spirituali e di carità. Uno strumento di morte prima addestrato dai musulmani, poi al servizio dei cristiani. Mosso dalla volontà di ritrovare la madre, Nihad è stato suo malgrado vittima e carnefice, proprio come lei, di un meccanismo feroce in cui l’individuo è stato praticamente annullato.
Ritorna la spietata razionalità della matematica, che incarnava l’illusione di poter risolvere ogni problema (ma la dimostrazione dell’esistenza di Dio è un teorema che si è dissolto nel nulla), ma nella realtà 1+1 può anche non fare 2.
Dall’acqua sorge una nuova verità, l’ultima, la definitiva: Nihad, Abu Tarek si materializza di fronte a Nawal e il cerchio si può chiudere. La vicenda di Nawal può trovare un proprio senso: rompere la catena dell’odio. Il figlio vacilla di fronte alla verità, vacilla l’ombra di uomo, una larva che dovrà vivere con il rimorso.




Incendies
In campo lungo vediamo Nihad di fronte alla tomba della madre; quel bambino che ci guardava carico d’odio nella prima sequenza del film è ora dolente, quasi timoroso di mostrare il proprio volto, piccolo di fronte ad un luogo che accoglie i resti di chi lo ha messo al mondo



Il film si propone come un lungo viaggio alla ricerca della verità, un viaggio necessario affinchè l’odio possa essere fermato. Un viaggio di conoscenza e di scoperta, un viaggio filosofico, ma costruito come fosse una tragedia greca. Echi dell’Edipo e dell’Antigone riecheggiano lungo il cammino. Un figlio che giace con la madre, una figlia che vuole, metaforicamente, seppellire l’odio ingenerato dal fratello che è anche padre, compiendo un gesto di giustizia e non di vendetta consegnandogli la lettera della madre. Questo è un duplcie percorso, prima la madre e poi la figlia, che ha al centro una figura femminile, creatura in grado di poter spezzare la catena dell’odio.


La lavagna vuota dell’incipit è la lavagna vuota di sapere e di conoscenza, di virtù e di tolleranza, su cui sono state scritte invece parole di odio e di vendetta. Riavvolgere il nastro della memoria non è operazione necessaria per trovare giustizia, ma è operazione necessaria per azzerare anni di violenza e di soprusi e ripartire da nuove basi di tolleranza e comprensione.



La regista canadese sembra dirci che se non c’è questa volontà di occultare un passato-presente di sangue non c’è nemmeno speranza. In fondo l’Europa post hitleriana non è rinata sulla punizione di un paese sconfitto e preda di una folle ideologia, ma ha contato sulla certezza che una nuova Germania avrebbe potuto dar vita ad un nuovo periodo e così è stato. Cristiani, musulmani, ebrei, nella polveriera orientale non possono far la conta delle ingiustizie e dei torti subiti. Devono avere il coraggio di azzerare i rancori e ripartire. E se l’eco, della storia di Narwal, arriva in Canada, la metafora è ancora più chiara: l’Occidente ha il dovere di non rimanere indifferente, ma di trovare un ruolo decisivo di mediazione e di ricomposizione di conflitti sempre più insensati. La memoria è ricostruzione di un senso personale della venuta al mondo, un senso che si deve armonizzare con quello di coloro che ci circondano.





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