lunedì 7 ottobre 2013

14 Kilometros


14 Kilometros


Regia: Gerardo Olivares
Cast: Mahamadou Alzouma, Aminata Kanta, Adoum Moussa
Produzione: Spagna  
Musica: Sante Vega, Youssou N'Dour
Fotografia: Alberto Moro
Anno: 2007
Durata: 95'

Quattordici chilometri sono quelli che separano le coste del Marocco da quelle spagnole nel punto più stretto del Mediterraneo (tra Tangeri e Tarifa in Spagna). Sono una distanza minima, ma proprio là dove i due continenti sono più vicini, più stretta è la sorveglianza, più grandi le barriere e i reticolati che impediscono ai due mondi di comunicare liberamente. Il documentarista spagnolo Gerard Olivares (e documentaristico è, a tratti, il taglio del film) è l’autore di questo bel "on the road" che racconta una vicenda di emigrazione, di grande attualità, con una semplicità che diventa, suo malgrado, la freccia in più nella faretra di questa opera.
E’ la storia di disperazione e fuga da un mondo e la conseguente altrettanto disperata ricerca di una alternativa che l’Europa sembra offrire a due giovani ragazzi del Mali e del Niger, tra le regioni più belle ma anche drammaticamente più  povere dell’Africa. Il paesaggio folgorante nella sua bellezza, nasconde tragedie umane che offrono uno stridente contrasto con l’immagine da cartolina che ad un primo impatto la natura offre di sé (vedi le prime immagini del film alle foci del fiume Niger nel Mali; fiume e sole archetipi della vita).



Lo sguardo inizialmente turistico di Olivares si fa ben presto più attento e realistico. Così, letteralmente nell’ombra (siamo nel Mali), una donna vende la figlia (Violetta) ad un vecchio che l’ha violentata e questi in cambio offre delle mucche, mentre una non compiuta occidentalizzazione produce, tra la polvere e la sporcizia di luoghi affollati, il sogno di plastica di un altro giovane (Buba, che vive nel Niger) che, circondato da miseria e bidonville, sogna il successo come calciatore in Europa.




I due volti dell’Africa, quello femminile e quello maschile; le due facce di un ambiente che oscilla tra una abbacinante naturalità (una natura che offre orizzonti sterminati e dunque senza fondamentalmente prospettive sicure, definite) e una evanescente ed incompiuta occidentalizzazione; la realtà e il sogno; sono queste le dicotomie che si aprono e si svolgono nel corso del film.



La giovane fanciulla sogna la libertà e quindi l’amore vero, il giovane ragazzo sogna il successo, l’affermazione personale (sogna di diventare un calciatore importante ma come gli dice un amico: "Mi dispiace, hai la sfortuna di essere nato nel paese più povero del mondo e i cacciatori di talento non vengono fin qui per vederti..."). Sono sogni che vanno oltre la componente etnica, sono universali nella loro disarmante banalità (Buba mulina il sogno nella mente come la pala del ventilatore nella sua stanza, la TV si propone come strumento che artificialmente nutre e tiene in vita quelle illusioni).



Olivares filma la fuga dei due protagonisti facendo un grande uso del grandangolo, deformando le prospettive e contrappuntando qua e là le immagini con dettagli significativi (quel manifesto, siglato dal marchio dell’Unione Europea, che richiama ai pericoli che il viaggio verso l’emigrazione nel vecchio continente comporta, offrendosi come strumento di dissuasione).


Il fiume Niger è luogo simbolo della partenza, il suo fluire è nuova vita per Violetta e Buba, nuova speranza che nasce dal cuore del grande continente.



L’Africa dell’incipit, così rassicurante e “materna”, si fa però sempre più inospitale ed ostile (“matrigna”) fino al vero e proprio incubo del passaggio nel deserto sahariano, una sorta di landa infernale che sembra essere il confine varcato il quale non vi può essere ritorno. I paralleli viaggi dei due protagonisti sono, prima del loro inevitabile incrocio, lo specchio delle due anime che li stanno intraprendendo. L’anima femminile di Violetta ha di fronte a sé l’Africa madre, bella, onirica, l’Africa dei tramonti da cartolina e si conclude, metaforicamente nel locale “Fine del cammino”, una sorta di spartiacque in cui la protagonista abbandona il calore della terra materna (non solo ma, simbolicamente, la ragazza si trova a fianco di una macchina da gioco che ricorda di gettare le monete per essere usata, come potrebbe succedere al corpo della ragazza e il richiamo al possibile triste futuro destino della protagonista non è casuale);


dall’altra parte, l’animo maschile di Buba si materializza nell’Africa dei soldati, del caos, del calcio polveroso e primitivo, della lotta. Anche per lui (accompagnato per un tratto del viaggio dal fratello) il terminale di quel mondo è nella locanda in cui incontrerà Violetta.


Il deserto del Tenerè è luogo simbolo in cui perdere se stessi, perdere il cammino, la bussola e ritrovarsi poi come fuori da un incubo (le indicazioni del camionista indicano un nord est che Buba e suo fratello non sanno trovare). Quel camion che lo attraversa è, nella sua grottesca composizione, una sorta di immagine simbolo della sproporzione tra la grandezza del sogno dei due protagonisti e la limitatezza dei mezzi che hanno a disposizione per realizzarlo.


I campi lunghissimi contribuiscono a raccontarci di un non luogo dove l’orizzonte si perde e con esso gli uomini che lo attraversano. Qui i due mondi di Buba e Violetta si fondono come le loro mani nella sabbia (la figlia del mercante di Timbuctu che se ne va con il cammello è l’immagine dell’Africa madre, il pallone che rotola sulla sabbia è l’Africa di Buba) e i due giovani si smarriscono, sono sul punto di svanire, ma alla fine sopravvivono alla prova che un luogo così inospitale offre loro, letteralmente risvegliandosi da un incubo (non altrettanto riesce al fratello di Buba). 





I Tuareg, gli uomini senza volto, sono i loro salvatori, ma i Tuareg sono anche coloro che rappresentano l’alternativa alla fuga. E’ chiaro quanto va dicendo il padre Tuareg ai due ragazzi appena salvati e curati: Nessuno vuole più vivere in Africa…in una terra dove la sabbia ci ha visto nascere e dove è giusto che si riposi…quell’Africa che con la fuga di giovani come loro si sta dissanguando…



E’ un messaggio che i due recepiscono (Violetta sembra, tra le tende del deserto, momentaneamente immersa in un sogno di pace e armonia) ma non sanno sostenere. Il sogno è troppo forte.
Un altro posto di blocco divide i due protagonisti e Violetta va incontro al suo prefigurato destino di "macchina da gioco" per i soldati; la scritta sul pulman,"L'eclair du sud" (letteralmente il pasticcino del sud), aggiunge l'amara ed ironica allusione al dolce che crudelmente i soldati si concedono con la ragazza.


Attraversando in solitudine l’Algeria (emblematico l’attraversamento della frontiera, ennesima barriera ed ostacolo, con quel soldato che disumanamente è sordo ad ogni richiesta di soccorso di Buba ormai stremato e affamato), Buba giunge in Marocco fino a Tangeri, luogo di passaggio e, come tale, sinistramente privo di una propria identità (così almeno ce lo filma Olivares che opta per inquadrature che privilegiano i campi lunghi e lunghissimi che ben sottolineano l’estrema precarietà della condizione del giovane: dal binario senza fine su cui cammina Buba, alla stanza spoglia , senza mobili, senza calore del trafficante umano, nella quale è chiaro che l’Africa non rappresenta più niente per il protagonista. I muri bianchi, gli uomini accalcati a dormire). 





Qui avviene anche il ricongiungimento con Violetta. Il passaggio non può che essere notturno tanto in senso realistico (così si aggirano meglio i controlli), quanto in senso simbolico (il passaggio verso l’ignoto, l’incubo finale verso la speranza di una nuova vita, di un risveglio).


Il finale è forte nella sua semplicità: una guardia spagnola scopre i due clandestini, li guarda e fa finta di niente; Buba e Violetta possono continuare a sognare, quella guardia ha un cuore, ha pietà? Non sappiamo, sappiamo soltanto che i due giovani vengono lasciati in pace e riprendono la fuga correndo nella direzione dello spettatore, si avvicinano verso di noi, ora sono lì con noi, a condividere problemi e speranze di un mondo che hanno deciso di affrontare. Il loro camminare ha questa direzione e lì si chiude il racconto. Non sappiamo dove andranno e cosa succederà loro, Olivares si astiene da qualsiasi tipo di morale; sappiamo soltanto che ora, i due protagonisti, appartengono al nostro mondo…




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