giovedì 3 ottobre 2013

The Truman Show

The Truman Show

Regia: Peter Weir
Sceneggiatura: Andrew Niccol
Stati Uniti 1998
Durata: 102'
Musica: Philip Glass
Cast: Jim Carrey (Truman), Laura Linney (Meryl), Noah Emmerich (Marlon), Natascha McElhone (Silvia), Holland Taylor (madre di Truman), Brian Delate (padre di Truman), Ed Harris (Christoff), Paul Giamatti


Christof e Truman due volti a confronto, due uomini, il creatore e la creatura, l’autore e il personaggio. Fin dalla prima sequenza il film di Weir scopre le carte tematiche del personaggio in cerca di autore che prepara la fuga dal suo creatore. Truman, di fronte ad uno specchio si vede ed è visto, ed accenna, fantasticando, alla fuga da un mondo e dal pericolo dell’annientamento. Realtà e finzione (in titoli iniziali del film sono gli stessi dello show) si mescolano, si accavallano, si intersecano fino a integrarsi perfettamente in un meccanismo in cui il sogno è più reale della realtà vissuta che è invece interamente fittizia (si pensi che l’unico personaggio autentico con cui interagisce Truman è Silvia che abita i suoi sogni).



L’abbacinante luminosità della città di Seahaven (rifugio sul mare ma assonante anche con paradiso sul mare) è la superficie della realtà, la sua scintillante copertina dentro cui vive, senza apparenti problemi, il nostro Truman. La quotidianità è scandita da gesti che si ripetono tutti uguali e che contribuiscono a rendere ancora più rassicurante il contesto. Il faretto cinematografico che cade dal cielo è come un primo segnale di incrinatura di quel mondo (è la luce che rappresenta la stella Sirio).




Qualcuno osserva dall’esterno con la curiosità dello spettatore di telenovelas (gli avventori del bar dedicato allo show) fingendo preoccupazione per le sorti dell’eroe, che è tale finchè questi resta visibile, di fronte allo specchio. Dentro la finta realtà si muovono personaggi caricaturali (il vicino di casa con il cane Pluto, i gemelli sorridenti e mansueti) ed altri con un proprio spessore come l’amico Marlon e la moglie Meryl, nonchè la madre. Questi ultimi rappresentano la fitta rete di rapporti che Truman ha costruito nel suo mondo e che sono allo stesso tempo le tante sbarre di una prigione da cui sembra impossibile fuggire (nell’album delle fotografie di famiglia c’è un piccolo Truman chiuso dietro delle sbarre che evocano la sua  condizione di schiavo inconsapevole; non solo, a commento della foto c'è una scritta: il mio piccolo clown, che richiama alla condizione di Truman di maschera e attore tragicomico inconsapevole).



Truman ha ulteriori catene che lo tengono avvinto a Seahaven, come la sua paura per l’acqua, che un flashback ci chiarisce essere collegata alla scomparsa del padre in un naufragio in mare. Ma tra i ricordi emerge anche quello di Silvia (che nella sequenza della biblioteca ha con sè un cartellino che la identifica con il nome di Laureen Garland, fittizio e di scena che lei stessa schernisce di fronte a Truman), la giovane fanciulla, amore mancato della sua giovinezza e ossessione presente, espressione di una inquietudine interiore che lo proietta verso un mondo altro e sconosciuto (le Fiji la cui distanza è ingigantita dall’ingenuo Truman sulla pallina da golf). La forza di questa ossessione è la miccia che accende il desiderio di fuga del protagonista e l’incidente della radio che si confonde con le frequenze della produzione è solo la scintilla che mancava e che apre le danze della seconda parte del film tutto volto al racconto di un tentativo di fuga dell’individuo e di inseguimento e soffocamento di questa utopia da parte del contesto sociale.



La lotta del singolo contro la forza della massa, della società che ti stringe, ti bracca, ti richiama al tuo ruolo, ti riporta alla tua casella che non devi oltrepassare (la ronda finale con gli attori che cercano Truman sembra richiamare altri contesti di tipo totalitario). 


Truman supera anche la paura dell’acqua, oltrepassa i limiti delle colonne d’Ercole e come Ulisse (o come Colombo, visto che la barca si cui prende il largo si chiama Santa Maria) va incontro al proprio destino, ai confini del mondo da lui conosciuto, per poi lanciarsi in una avventura che rimane indefinita e buia come lo sfondo della porta dietro cui scompare nel finale il protagonista.




I nomi: Truman, uomo vero, in mezzo ad attori (Meryl, come la Streep, Marlon come Brando, Laureen Garland che evoca in sé i nomi di due dive del passato, addirittura il cane del vicino che si chiama Pluto!) i cui stessi nomi sono segno di ambiguità (si pensi ai nomi delle strade evocanti star di Hollywood, da Lancaster square a De Mille square!); ma anche Truman Burbank (cognome che evoca i luoghi degli studios disneyani) che racchiude in sé la doppia effige della verità e della manipolazione recitatoria. Christoff il cui nome non può non avere richiami biblici, che si dice creatore di uno show e parla con tanto di voce rimbombante direttamente dal sole, che può manovrare gli astri e i venti ed è il padre, padrone di Truman. Silvia, nome banale, comune è chiaramente nome che riporta al suo rapporto con la verità che a Truman è preclusa
A partire da questo complesso semantico la possibilità di interpretazione del film si apre a molteplici strade tutte valide ed equivalenti.

Interpretazione filosofico-platonica: il mito della caverna viene riproposto nel film con evidente linearità. La cabina solare di Christoff è il mondo delle idee (platoniche si nel senso che in esse è contenuta la verità, ma anche delle idee dello show, delle idee dei personaggi che ricevono impulsi agli auricolari direttamente dal regista. E come non ricordare certe trasmissioni nostrane, del recente passato, con ochette imbellettate che sparano battute ricevute in cuffia dal mentore Boncompagni...), del mondo reale che si nasconde dietro la cupola di Seahaven, quel mondo che Truman non conosce.



La possibilità di guardare oltre lo spazio dell’enorme set c’è, ma, come dice Christoff, se non è più “di una vaga aspirazione” rimane lettera morta, volontà inespressa e fondamentalmente ingiustificata (chi glielo fa fare a Truman di lasciare un luogo pieno di bellezza, benessere, pace e tranquillità?). Il problema è che l’uomo è fondamentalmente una creatura libera, nel suo arbitrio e nella sua volontà, fosse anche soltanto un imperativo interiore; e allora a Truman quel mondo non può bastare e come un novello Socrate cerca di guardare oltre i limiti, oltre i confini (che già bambino, Truman inconsapevolmente si stava avviando a varcare salendo le rocce di una spiaggia che era essa stessa limite invalicabile, come gli ricorda il padre) con il rischio, sempre socratico, di rimanere solo ed incompreso.



Ad attendere Truman, in modo hollywoodianamente rassicurante, c’è però una donna che lo ama veramente e allora quel buio oltre il set è meno inquietante, meno oscuro. Il mondo delle ombre è per assurdo proprio la luminosissima Seahaven, quella realtà che ci accontentiamo di guardare come fosse l’unica possibile. Le catene sono le nostre (e di Truman) paure, i nostri pregiudizi, la nostra incapacità di vedere con occhi puri. Le fantasticherie di fuga e di avventure del protagonista di fronte allo specchio restano tali finchè non c’è un atto di volontà supremo (feroce nel suo superare ostacoli che si moltiplicano, come quando Truman cerca di raggiungere invano il padre, novello Ulisse e barbone ritornato a casa) che lo dispone ad oltrevarcare i confini della doxa per avventurarsi nell’infinità dell’episteme. La sete di verità, per quanto non luminosa come quella platonica (Christoff sta nel sole ma egli non può certo dirsi espressione dell’idea del Bene), ma oscura, proprio perché forse peggiore di certe illusorie esistenze, è troppo forte nell’uomo, la vaga aspirazione si è fatta decisa volontà di potenza.




Intepretazione sociologica: The Truman show è sostanzialmente un film di fantascienza, una sorta di ennesimo capitolo nella storia del genere dei romanzi distopici di orwelliana memoria. Verso la fine degli anni Novanta, il fenomeno televisivo dei vari “Grande Fratello” era dietro l’angolo e pronto ad invadere i network di mezzo mondo. Nel film si preconizza una situazione estrema di parossistica amplificazione del fenomeno. Se ben ci pensiamo, nel film si ha l’immagine di tutti i piccoli reality show amplificati alla massima potenza, in cui non solo è sotto l’occhio indiscreto di telecamere una fetta di vita, un particolare evento, ma l’intera esistenza di un personaggio che, al contrario di quanti partecipano alle selezioni dei vari programmi in tema, è totalmente inconsapevole, come in una enorme ed interminabile candid camera. Proprio come in quest’ultima, lo spettatore ha la tentazione di intervenire e mettere in guardia il malcapitato (i vari tentativi di boicottaggio che Christoff ricorda nell’intervista), ma come in ogni Grande Fratello che si rispetti, c’è anche una forte componente voyeuristica che spinge lo spettatore a non mollare l’occhio della telecamera nell’attesa di un evento che renda giustificabile il suo interesse (emblematica la delusione delle due guardie private quando commentano la mancanza di scene piccanti, con quegli effetti di copertura che fanno svanire le immagini sul più bello); 




ma vi è di più; ciò che conta è sempre di fronte alla macchina da presa, l’evento è ciò che possiamo filmare, il resto non esiste e così quando la trasmissione finisce la guardia privata chiede al collega il telecomando per cambiare canale: il Truman Show è finito, Truman è fuori dall’occhio che lo scruta, Truman non esiste più (ricordiamo che è sulla nebbia del televisore acceso che si chiude il film e non sulla emozionante fuga di Truman). Le sorti del protagonista finiscono nell’oblio, il personaggio cessa di avere interesse, la diabolica legge dello spettacolo ha la meglio sui sentimenti veri e profondi; il voyeurismo è chiuso, si devono trovare alternative “interessanti e divertenti”. 



Nella sua metafora, questa è’ una immagine spietata e cinica della nostra società, ma anche sorprendentemente aderente. Non è soltanto una questione di notorietà e successo che spinge milioni di persone a cercare la via dei reality, ma anche l’illusione di potersi sentire vivi, perché oggetto di interesse di altri, nel caso specifico gli spettatori. E’ il sogno di sentire che la propria vita conta, che è sulla bocca di tutti, che il nostro pensare o agire è oggetto di discussione e, possibilmente, di ammirazione. Veronesi  in Caos Calmo affermava che gli altri pensano a noi infinitamente meno di quanto crediamo. Con le esperienze del Grande Fratello televisivo questa amara considerazione è ribaltata, contraddetta; ma l’effetto vitale è a tempo, è momentaneo, sempre più passeggero oseremmo dire, vista la velocità con cui si aprono e chiudono certe esperienze di reality. Meryl, forse con un pizzico di verità ma anche con molta supponenza, nell’intervista iniziale dice che il Truman Show è vero, è reale, quasi sacro. Certo Truman è vero, fuori da quel mondo non c’è più verità di quanta possa essercene lì dentro (come dice Christoff alla fine, quasi chiudendo il cerchio aperto da Meryl), ma gli altri recitano, a soggetto o spontaneamente, recitano con la consapevolezza di essere visti, spiati, giudicati continuamente. Forse Meryl ha ragione, tutto ciò è verità, almeno nella nostra società di Facebook...



Interpretazione psicanalitica: il percorso di Truman è anche un percorso di affrancamento e di liberazione, nonché di presa di coscienza della propria individualità (alla fine chiede a Christoff: chi sono io?). Potremmo definirlo un tipico romanzo di formazione con l’innamoramento, la scoperta della vita attraverso il superamento di prove (come nelle favole) e la finale presa di coscienza e come in ogni romanzo di formazione che si rispetti il giovane eroe deve dimostrare di essere adulto una volta che si è finalmente liberato delle ombre paterne. Truman ha molti padri (quello naturale che nessuno sa chi è, quello della finzione, ma che per Truman è quello vero e il padre reale, quasi divino, Christoff che lo ha visto crescere, lo ha adottato, dato in affidamento e che forse, anche se in modo malato e non disinteressato, è l’unico che abbia veramente a cuore le sorti del giovane; sembra, infatti, veramente commosso quando ricorda le vicende del piccolo Truman e come ogni padre mette bocca sulle scelte del figlio, non ultima la scelta della fidanzata, rispondendo con asprezza alle obiezioni di Silvia che egli ritiene una approfittatrice senza scrupoli; per non parlare delle carezze che egli dona al figlio dormiente e grande, gigantesco su quello schermo verde) e di ognuno di essi si libera gradualmente.



Il più duro da far morire è comunque il padre celeste, che non lo molla e lo mette alle strette ponendolo di fronte al dilemma della sua identità. Il padre terreno scompare dalla scena e riappare e qui la sceneggiatura apre una falla, voluta: che spazio ha ora nella mente di Truman? Le lacrime del ricongiungimento sono fini a se stesse? Stando al film, quel padre non ha più sostanza per Truman che guarda oltre (piange verso il cielo senza guardare il padre negli occhi), ma nel cielo c’è colui che dovrà uccidere per poter compiere completamente la propria liberazione. L’unico modo di ucciderlo è uccidere la sua creatura, lo show (io sono il creatore di uno show che dà gioia e speranza a milioni di spettatori, dice Christoff), mollare il personaggio che tiene in piedi tutto, per andare in cerca della persona. 


Riferimenti culturali: Banalmente potremmo dire che dietro il film di Weir ci sia una bella fetta della grande letteratura occidentale, da Omero (Truman novello Ulisse che raggiunge i confini del mondo conosciuto per ritrovare se stesso e li oltrepassa ingaggiando una lotta con gli Dei stessi) a Shakespeare (il conflitto con il padre, la ricerca dell’identità perduta, delle radici del proprio io che non possono non evocare echi amletici) a Pirandello (un personaggio in cerca di autore o forse un autore che sta perdendo un personaggio), non dimenticando Kafka (la società come labirinto inestricabile ed incomprensibile una volta che si provi ad abbattere i muri della formale superficie) ed ovviamente Orwell (non solo Il Grande Fratello, ma anche la super organizzata e allo stesso tempo spietata società de La fattoria degli animali) e potremmo dire che c’è molto dello stesso Weir (la sua idea della fuga avventurosa per mare che ritroviamo in Master and Commander; il gioco dell’individuo soffocato da un sistema più grande di lui che sembra avere molti contatti con il personaggio de Il Testimone, dove del resto ritroviamo la comunità chiusa che là contrasta con i paesaggi immensi della campagna, qui con le grandi distese marine al tramonto). C’è anche l’eco di molta fantascienza distopica (Philip Dick in testa) cui l’accomuna un’idea politica di una società simil totalitaria, che dietro le apparenze di una grande efficienza tecnologica o di un composto ordine sociale, nasconde tentazioni dispotiche di controllo totale sull’individuo, che ha pochi margini di manovra al di fuori del percorso segnato. Truman è solo l’ultimo di molti atri personaggi della letteratura e del cinema che incarna il singolo schiacciato dalla società, cui è preclusa la fondamentale libertà di agire al di fuori delle convenzioni e delle più elementari regole di convivenza. Il Truman Show, in ultima sostanza, è una enorme metafora del mondo reale; la cupola che lo contiene è visibile dal cosmo come la muraglia cinese e come il sistema cinese preserva se stesso a scapito dell’individuo.





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