lunedì 14 ottobre 2013

Il Pianista

Il Pianista


REGIA  Roman Polanski
ATTORI
Adrien Brody (Wladislaw Szpilman)
Thomas Kretschmann (Il capitano Hosenfeld)
Frank Finlay (Il padre)
Emilia Fox (Dorota)
Maureen Lipman (La madre)
Ed Stoppard (Henryk)
Julia Rayner (Regina)
Jessica Kate Meyer (Halina)
Michal Zebrowski (Jurek)
SOGGETTO Wladyslaw Szpilman
Sceneggiatura Ronald Harwood, Roman Polanski
PRODUZIONE Robert Benmussa, Roman Polanski, Alain Sarde, Timothy Burrill
COLONNA SONORA Wojciech Kilar
SCENOGRAFIA  Allan Starski
Coproduzione europea   Anno 2002
Durata: 150'


Vadek Szpilman è Il pianista, ma Vadek Szpilman è anche e soprattutto Roman Polanski stesso. Il film, vincitore di tre premi Oscar nel 2003, non è soltanto un percorso a ritroso nella vita del regista, una riemersione alla luce di fatti che sono patrimonio di una memoria, anche e soprattutto personale, che non può non riaffiorare nella vita di Polanski e che già con Schindler’s list egli aveva avuto l’occasione di riproporre, rifiutando però per l’eccessiva vicinanza con le vicende narrate (Polanski ha ammesso di non aver girato il film, che sarebbe poi diventato di Spielberg, perchè scosso dall’idea di rientrare nel ghetto di Cracovia in cui aveva vissuto i terribili anni della sua infanzia);


la storia, che Polanski racconta, è anche una sorta di riflessione personale sul senso di una vita, la sua, contrassegnata da terribili tragedie, che è stata in qualche modo salvata dal suo amore per l’arte, che si è tradotto nei suoi mirabili film. Vadek è Roman, e viceversa, nel suo superare gli orrori della guerra con quella forza spirituale che non lo ha mai abbandonato e che nel protagonista del film si traduce in un irriducibile sentimento artistico, riaffiorante nelle melodie ora sentite casualmente, ora riprodotte nella sua mente musicale (spesso il protagonista mima con le mani il movimento sulla tastiera del pianoforte che solo in una occasione ha veramente di fronte e suona idealmente, sentendo dentro di sé la melodia prodotta). 



Ciò che letteralmente tiene in vita il pianista è il suo prezioso tesoro spirituale che, tramite le mani, si concretizza nel suo virtuosismo pianistico. Vadek è come inconsapevole di tutto ciò, ma è Varsavia intera, quella che non si arrende e vuole resistere all’invadenza del male e del nulla che avanza, che lo sospinge letteralmente a sopravvivere (Fritz, l’ebreo “venduto” ai nazisti, lo spinge via dalla fila di coloro che vengono deportati),




ora con l’aiuto concreto di amici e conoscenti (e qui Polanski non cade nella trappola ricattatoria di un facile manicheismo offrendoci anche personaggi infidi e malvagi, come la vicina di pianerottolo del primo appartamento in cui era rifugiato o il profittatore che girava per Varsavia chiedendo denaro per la sopravvivenza dell’artista nascosto), 



ora con il sacrificio di compagni di sventura che si adoperano affinchè esca dal ghetto mentre per se stessi preparano una strenua e forse inutile resistenza armata (tu portassi i mattoni come suoni... gli dice un compagno di lavoro consapevole del suo talento indirizzato a tutt’altro).


 “Ovunque a Varsavia si sono trovati uomini pronti ad aiutarti” dice la giovane cantante a Szpilman che, sempre più magro e sofferente, sembra non aver la forza per comprendere quanto sta avvenendo intorno a lui. Ma Szpilman porta con sè il dono dell’arte e in questi cumuli di macerie che si aprono drammaticamente di fronte a lui (in una delle scene più belle del film in cui la mdp segue l’uomo che, scavalcando un muro vede aprirsi di fronte a sè l’immagine dell’orrore e dell’inferno fin ad allora solo parzialmente percepito), è un bene che si deve salvaguardare, proteggere.




In questo senso il nazista che lo trova nella casa diroccata è uomo, non più nazista soltanto, che, affascinato dal “dono di un’arte quasi divina”, lo protegge e lo aiuta (vede le sue mani che suonano, le mani come strumento di Dio, mani sporche e scheletriche che sanno far riaffiorare dal polveroso pianoforte la grandezza di una melodia riposta e soffocata dal rumore delle bombe) affinché l’uomo, in quanto tale, possa ancora sopravvivere e risorgere dopo gli assurdi ed insensati orrori della guerra che, lo stesso nazista è consapevole, volge al termine.





Polanski, colpito personalmente a più riprese dall’insensatezza di una violenza cieca che nel corso del tempo gli ha portato via prima la madre e poi la moglie, vuole ricordare a tutti noi che l’uomo conserva dentro di sé un dono, che è quello della creatività, massima espressione di una spiritualità che non ha eguali nel cosmo conosciuto. Questo dono, sembra dirci traslando se stesso in Szpilmann, è stato prezioso per lo stesso Polanski e lo ha letteralmente salvato. Non è un caso che il concerto finale, in cui Szpilmann è nuovamente un essere umano e non più un topo, un fantasma come appare per larghi tratti del film, si chiuda in coincidenza con la conclusione dei titoli di coda del film. Szpilman si alza a ricevere gli applausi del pubblico, la sua fatica, vero tour de force virtuosistico sui tasti del pianoforte (di nuovo il dettaglio delle mani che si muovono magicamente con straordinaria armonia), è comparabile a quella del regista che ha appena finito il suo capolavoro, il suo film più sentito e vissuto e che è pronto a ricevere il giusto riconoscimento.





Dietro a questa lettura intimista ve ne sono altre più prettamente storiche o politiche. Il film si dipana mostrando parallelamente i due volti di una condizione di sofferenza e sottomissione a cui è possibile adeguarsi o ribellarsi. I tanti ebrei disorientati (come la donna che cerca il marito scomparso per le strade del ghetto e che per due volte chiede informazioni a Szpielman) vivono il lento ed inesorabile accerchiamento nazista con la passività di chi spera in un conforto divino (qualcuno tra la folla dice però di non credere più in Dio) o in una ragionevole soluzione e tra questi vi sono i familiari di Vadek, il padre in testa, che attendono l’evolversi dei fatti con cauta e sempre più angosciante rassegnazione. 




Ma tra loro c’è anche il fratello, orgoglioso, intransigente che è il contraltare alla mite rassegnazione.


Così la dicotomia  si ritrova in altre situazioni (il giornale clandestino, l’organizzazione della resistenza finale nel ghetto) e Szpilman sembra trovarsi nel mezzo, in un limbo di incapacità personale di azione e di risoluzione, ma Szpilman è un mondo a parte (nell’incipit egli suona dall’altra parte del vetro alla radio polacca ed è colui che prosegue a suonare fino a che le bombe non devastano lo studio e lo costringono a fuggire). Szpilman non può dunque che essere uno spettatore ed assistere quando la violenza diventa padrona. Il suo sguardo è lo sguardo del film e del regista per tutta la parte centrale della vicenda.



Le scene di resistenza nel ghetto, di assalti di partigiani, di lotta sono come intraviste, in soggettiva, tra gli stipiti di una finestra o i lembi di una tendina, ma Szpilman non è l’intellettuale perdente de La lunga notte del 43 (romanzo di Bassani e poi trasposto al cinema da Florestano Vancini), l’uomo di pensiero che si nasconde dagli orrori del fascismo per paura e che per questo resta colpevolmente ai margini della storia (immagine emblematica di una intera generazione di uomini di pensiero sconfitti ancor prima di combattere ed incapaci di combattere), ma è l’uomo artista che deve sopravvivere perchè portatore di un vitalismo (dello spirito di un popolo potremmo dire idealisticamente parlando) che non deve soccombere di fronte alla barbarie della guerra. Non c’è condanna politica per l’inazione di Szpilman, ma comprensione umana e ragione quasi metafisica che lo proietta al di fuori di qualsiasi giudizio etico o morale.






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