lunedì 21 ottobre 2013

La zona

La Zona


Regia: Rodrigo Plá
Produzione: Alvaro Longoria, Pilar Benito
Sceneggiatura: Laura Santullo, Rodrigo Plà
Cast: Daniel Giménez Cacho, Maribel Verdú, Daniel Tovar
Musica: Fernando Velázquez
Anno 2007          Durata: 97 min
Coproduzione: Messico, Spagna

Il film messicano di Rodrigo Plà ha la forza di un manifesto politico, di un grido di dolore, ma anche la lucidità di un thriller americano e il rigore di certo cinema europeo. E’ un viaggio distopico in un mondo futuristico, ma di un futuro immediato, sotto certi versi, immagine di un presente difficile da ammettere ma probabilmente assai verosimile in contesti sociali come quelli del centro e sud America (certi contrasti accentuati ed evidenti tra benessere e miseria, la visione di una polizia e di un sistema politico e di giustizia corrotti). 


Un giovanotto guida una lussuosa auto tra i verdi giardini di un quartiere residenziale di lusso. Il benessere è riflesso (già questo può suggerirci la sua vacuità) nei vetri dell’auto, è rassicurante, familiare, benevolo; i bambini sono aiutati da altri bambini ad attraversare la strada, l’effetto rallenty accentua questa atmosfera di idillio, una farfalla vola nel cielo ma va a morire sui cavi dell’alta tensione di un filo spinato che chiude il muro che cinge questo paradiso dorato.




E’ così che ci si presenta la Zona, intesa come luogo filmico e come storia filmica e la mente non può non ricondurci alle sequenze iniziali di Velluto Blu di David Lynch. La stessa atmosfera rassicurante, lo stesso uso del rallenty, gli stessi luoghi, gli stessi giardini con le pompe automatiche dell’acqua in azione; anche lì bambini che attraversano la strada in un clima di rassicurante pacificazione.



Il perturbante è, prima, appena accennato (un pistola compare sullo schermo tv di una signora in Lynch, alcuni inquilini della Zona stanno facendo le valigie per abbandonare “quell’oasi di felicità”),




dopo, si scopre però dietro l’angolo, o meglio sotto l’erba in Lynch (dopo che un uomo è colto da infarto la mdp scende fin sotto il terreno ad inquadrare scarafaggi in lotta), oltre il muro ne La zona (oltre il filo spinato compare una realtà degradata e povera tipica di molti paesaggi centro e sud americani). Dietro l’apparente idillio si cela una violenza che entrambi i film descriveranno, ora con i toni grotteschi cari a Lynch, ora con la tensione da thriller in Plà. 



Ma il tema che affronta il regista messicano va oltre la semplice evocazione di impulsi e pulsioni violente che restano nascoste in società borghesi e del benessere; il suo è un discorso più ampio sul rapporto tra legalità e diritti, tra benessere e giustizia, tra proprietà privata e regole di convivenza civile. La Zona rappresenta il limite oltre il quale la legalità non è ammessa, diventa questione privata, oggetto di una giurisdizione che è innanzitutto difesa di privilegi e chiusura verso il mondo esterno. Dentro questa oasi-prigione vive Alejandro, il protagonista del film, ragazzino che sta per compiere un viaggio di iniziazione sottolineato dal fatto che, escluso l’incipit, lo vede entrare in scena con un vero e proprio risveglio, al termine di una lunghissima dissolvenza in nero. Ha sentito degli spari, si è dovuto letteralmente svegliare, e la sua sarà proprio la storia di un risveglio metaforico, di una nuova venuta al mondo alla luce della scoperta di ciò che il muro gli impediva di vedere.



La Zona è stata violata, il Caso ha voluto che un traliccio rompesse il muro e permettesse una intrusione non gradita. La tragedia che segue mette in moto un meccanismo di rimozione del dramma di fronte alle autorità costituite, al fine di salvaguardare il privilegio acquisito dal quartiere.
La luce che va e viene è lì a sottolineare che quel sistema è ora in pericolo, la stessa riunione dei rappresentanti di quartiere (disposti in un modo ipocritamente democratico)  si svolge in parte al buio a causa dei frequenti black out; le stesse videocamere di sorveglianza perdono pixel, sembrano incepparsi. 





Di fronte ad un pericolo che si è annidato dentro la Zona, la democratica assemblea dei residenti non trova di meglio che avvallare la china di un procedimento illegale, fino ad autorizzare la delazione e lo spionaggio tra gli stessi componenti del quartiere “non allineati”.
Tutto questo è filtrato dallo sguardo di un ragazzo che compie i suoi 16 anni, coccolato da genitori che sono pronti ad agguantare il fucile pur di difendere quanto loro ritengono più prezioso (il padre, non la madre certo). Ironia della sorte, il padre che, al pari di altri genitori, vende l’anima al diavolo per la loro incolumità e benessere, si trova ad essere rifiutato dal figlio stesso che alla fine si libera dal suo abbraccio mentre stanno linciando Miguel. 



Il padre piange vedendo le immagini del videotape confessione del coetaneo del figlio, piange certo perché ha capito di aver oltrepassato il segno, di aver commesso una tremenda ingiustizia, ma piange anche per aver fallito nel suo principale scopo di offrire al figlio una ricetta per una vita felice. Alejandro, divincolandosi dal padre, mostra che non accetterà facilmente quel mondo che scambia il benessere con la dignità e la verità.



Ma Alejandro chi è? Alejandro è il bravo ragazzo, con tanto di divisa della buona borghesia, divisa che lo rende simile agli altri Alejandro del suo quartiere dorato, giovanotti che frequentano scuole esclusive e passano il tempo fumando e discettando di violenza che sembra sempre sul punto di esplodere.


Questi giovanotti giocano a fare i vigilantes correndo con mazze da baseball lungo i declivi di campi da golf che hanno sullo sfondo il lugubre scenario di bidonville  e baraccopoli abbandonate a se stesse. 


Sono figli di una educazione che li rende macchine spietate (come il ragazzino occhialuto che fischia dalla propria finestra o l’amico di Alejandro che si procura la pistola del padre per uccidere “l’assassino stupratore” che ha osato violare il tempio sacro della loro quotidianità). 


Alejandro ripete le parole del padre, di fronte ad una madre che spererebbe di trasmettere altri valori, ed è convinto che la giustizia migliore sia quella personale. Come se non bastasse, la polizia non si mostra come roccaforte di quella legalità che la Zona rifugge come un male incurabile (anche il poliziotto che pare avere un barlume di idealismo viene sconfitto dal sistema).


 Le mazzette, la corruzione danno ragione a chi non trova di meglio da fare che rimuovere di nascosto i corpi di vittime, non innocenti, del sopruso e del privilegio. Così la Zona del benessere non può che essere circondata che da spazzatura, enormi cumuli di spazzatura che ben vediamo alla fine del primo tentativo di fuga di Miguel; enormi quantità di rifiuti dietro una rete metallica che delimita il quartiere. 



Tra quei rifiuti, i corpi di chi ha provato a violare gli spazi inaccessibili, uomini come oggetti da gettare via. Alejandro alla fine ha il coraggio di raschiare tra quei rifiuti per donare uno squarcio di dignità al povero Miguel;  toglie il suo cadavere letteralmente dalla spazzatura per donargli degna sepoltura, dopo l’ennesima riprova che la sua Zona altro non era che una prigione (anche il senatore a cui si è rivolto per salvare Miguel, dopo che i poliziotti corrotti lo avevano lasciato al proprio destino, si dimostra pari a coloro che difende e mette il padre di Alejandro sulla strada per ritrovare il delinquente, sfruttando l’involontaria informazione suggeritagli da Alejandro).




Un’ultima riflessione sul finale. Alejandro, solo (anche l’amica di Miguel selvaggiamente picchiata dalla polizia non vuol più sentir parlare di quella vittima) dopo aver sepolto Miguel si mangia un panino in un baracchino ambulante. E’ lo stesso finale sospeso de Quando sei nato non puoi più nasconderti, film con cui La zona, fra l’altro, condivide anche assonanze nella struttura e nei temi affrontati. Il ragazzino per bene ha, concluso il suo percorso di iniziazione, abbandonato i genitori, non sappiamo se definitivamente o meno, ma certo ha iniziato un percorso di sganciamento che lo porterà alla piena conoscenza e coscienza di sé. 


Questa, è inevitabile, si è avviata nel contatto con l’altro da sé, nel contatto con il mondo altrove, con la realtà cruda che spesso i genitori cercano di nascondere, nel contatto con ciò che sta oltre il muro (muro della Zona o muro di una fabbrica abbandonata, rifugio di immigrati, nel film di Giordana, che il protagonista salta per completare il suo percorso di ricerca). Quel mangiare il panino finale (in entrambi i film) sia esso mangiato in solitudine (come ne La zona, dove il protagonista non è riuscito a salvare l’altro da sè) o in compagnia di quell’altro da sé che si è disperatamente cercato di salvare (nel film di Giordana) è una sorta di atto di sospensione non solo del giudizio degli autori sulle storie narrate, ma di sospensione necessaria per una riflessione che è dei personaggi coinvolti, ma diventa riflessione dello spettatore che può proiettare un qualsivoglia muro a sostituire quelli dei film, per capire ciò che sta oltre il proprio e che gli è impedito conoscere.




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