mercoledì 20 novembre 2013

Guardie e ladri

Guardie  e ladri

Titolo originale Guardie e ladri
Paese di produzione: Italia
Anno: 1951
Durata 101 min
Genere: Commedia drammatica
Regia: Mario Monicelli, Steno
Soggetto  Piero Tellini
Sceneggiatura Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Ruggero Maccari, Aldo Fabrizi, Steno, Mario Monicelli
Produttore: Dino De Laurentiis, Carlo Ponti
Casa di produzione: Ponti-De Laurentiis, Golden Film
Distribuzione (Italia): Lux Film
Fotografia: Mario Bava
Montaggio: Franco Fraticelli
Musiche: Alessandro Cicognini
Scenografia: Flavio Mogherini

Interpreti e personaggi
Totò: Ferdinando Esposito   Aldo Fabrizi: Lorenzo Bottoni   Pina Piovani: Donata Esposito   Carlo Delle Piane: Libero Esposito   Alida Cappellini: Bice Esposito   Ernesto Almirante: Carlo Esposito    Gino Leurini: Alfredo   Ave Ninchi: Giovanna Bottoni   Rossana Podestà: Liliana Bottoni   Paolo Modugno: Paolo Bottoni   Aldo Giuffré: Amilcare   Mario Castellani: il tassista   William Tubbs: Mr. Locuzzo   Pietro Carloni: il commissario   Gino Scotti: il vice commissario

Guardie e ladri è un film fondamentale per capire un'epoca della nostra storia. Le coppie Steno-Monicelli, dietro la macchina da presa e Totò-Aldo Fabrizi sulla scena hanno consegnato all'immortalità questa commedia che ha segnato anche una svolta storica per tale genere nel cinema italiano.


Il dopoguerra aveva visto il proliferare di un cinema più o meno direttamente influenzato dal neorealismo che si era poi diviso nei rivoli di numerosi sottogeneri ad esso collegati. La commedia più leggera, almeno nei primissimi anni, dal 1945 al 1948, era continuata sulla falsariga di quella precedente, profondamente ancorata allo stile e alle forme del teatro: insieme più o meno slegato di gag, battute e situazioni da rivista, tono da barzelletta e personaggi abbozzati al livello di maschere. Il salto avviene proprio al principio degli anni Cinquanta, allorché grandi sceneggiatori, scrittori e autori di alto livello si dedicano alla commedia mettendo in scena storie più elaborate e personaggi più complessi.


Guardiamo al caso di Guardie e ladri. Alla sceneggiatura, oltre ai citati registi, compaiono nomi del calibro di Vitaliano Brancati, Ruggero Maccari ed Ennio Flaiano. Certo non tutto fila liscio. Gli stessi Monicelli e Steno vengono accusati di essere un docile, quanto involontario, strumento nelle mani di un potere che (vedi Andreotti), denigrando il neorealismo, invita il pubblico ad indirizzarsi verso un cinema di maggior disimpegno. Così le commedie, che sono per antonomasia cinema d'evasione, vengono viste come fumo negli occhi , specie da certa critica militante, che vede in esse una forma di anestesia della coscienza del pubblico italiano, facendo dimenticare troppo in fretta la lezione neorealista. In realtà la lezione neorealista è ben presente e viva, specie tra autori come i due registi di Guardie e ladri e tale film ne è una vivace testimonianza. A produrre c'è un'altra celeberrima coppia del cinema italiano, da poco formatasi (il connubio nasce nel 1950) e cioè Ponti e de Laurentis, due produttori in rampa di lancio e pronti a collaborare con il cinema americano che negli anni Cinquanta sbarcherà a Cinecittà in massa (loro saranno le produzioni de l'Ulisse con Kirk Douglas e Guerra e pace).


L'inizio di Guardie e ladri ci conduce in uno spazio senza tempo, o meglio di un tempo che fu, che è quello dei Fori romani (inquadrati con una panoramica), dentro cui si muovono le figure di furbi truffatori pronti a raggirare ingenui turisti d'oltreoceano (i truffatori sono quindi l'anima arcaica, antica del nostro paese, direttamente emersi dalle rovine del passato). 





Se il Foro romano è il luogo della storia, il teatro, in cui proseguirà la vicenda, è il luogo del presente, un teatro che non è più palcoscenico di varietà e di riviste (vedremo che la precisazione non è casuale), ma luogo di solidarietà per un'Italia che riceve aiuti e sovvenzioni da filantropi di ogni dove. 


L'Italia dei truffatori e dei morti di fame. Non siamo forse in pieno neorealismo? Certo il tono è leggero, a partire dai cognomi dei protagonisti, Bottoni ed Esposito, il poliziotto e il ladro, figure assonanti perchè affini e figli di una stessa società (la guardia Bottoni tende fin da subito a sdrammatizzare e minimizzare la gravità del gesto di Esposito di fronte all'americano infuriato e truffato, come segno di una solidarietà di popolo che sarà uno dei motivi dominanti del film).
La discesa verso una realtà sempre più degradata è sottolineata da quelle inquadrature delle scarpe dei due, inseguitore ed inseguito, che affondano nel fango di una periferia oltre borgata (non casualmente delimitata dai cartelli di lavori in corso), composta di baracche e di campi abbandonati. 



Fin da subito capiamo che la guardia è più vicina al ladro che non all'americano che sollecita la cattura del truffatore. "Questo è americano, che figura ci facciamo?", esclama Bottoni e la battuta è rivolta ad Esposito, il ladro, ma anche al pubblico con quel sottile riferimento al neorealismo che ha voluto sciacquare i panni, di una società italiana in difficoltà, senza nascondersi alla vista altrui. Non solo, Bottoni mostra aperta insofferenza per l'intransigenza dell'americano ("Con sto dovere!" si lascia scappare stizzito dopo l'ennesimo richiamo dello yankee) che sembra non capire quel mondo in cui si è trovato catapultato e che vive di regole arcaiche, se proprio le regole si vogliono ricordare.



Una volta catturato, Esposito parla al cuore italiano del suo aguzzino: Cosa pensi che sia io? chiede Esposito, ma Bottoni ha da perdere quanto lui e così solo la cruda legge della sopravvivenza sa vincere quella irresistibile solidarietà tra compaesani e compagni di sventura. La legge è spietata, la legge dello Stato ma anche quella della vita che rompe l'umana solidarietà.


Bottoni, momentaneamente sconfitto dalla fuga di Esposito, torna a casa e trova il figlio vestito da cowboy che gioca a fare l'americano. E' idealmente  il bambino che quattro anni dopo diventerà ragazzo e sarà interpretato da Sordi nel celeberrimo Un americano a Roma (non a caso dello stesso Steno). E' un padre distrutto quello che chiede alla figlia se non le fanno pena le guardie. 


Dall'altra parte, la casa di Esposito si erge in una Roma di borgata che è ancora in costruzione o ricostruzione, con sullo sfondo la sagoma della basilica di San Pietro. Il cupolone è una presenza paterna e protettiva su un mondo che va faticosamente ristabilendosi e compare a più riprese come sfondo di un ambiente che ha forti assonanze con quelli descritti nei romanzi e nei film di Pasolini. Totò è padre padrone all'interno della magione, il figlio che va ancora a scuola fa leggere il tema al padre. E' una gag che tornerà in Amici miei (di Monicelli) più di 25 anni dopo. In Guardie e ladri il richiamo paterno ad un maggior uso della fantasia ("I temi devono essere di fantasia") è di nuovo un velato riferimento al neorealismo e alla polemica che si è innestata con il mondo politico italiano. 



Il finale ed inevitabile incontro-ritrovamento tra la guardia e il ladro diventa l'occasione per una riflessione che ricorda quella di Siamo uomini o caporali? in un pirandelliano gioco delle apparenze in cui la guardia deve compiere il proprio dovere, ma il ladro non può perdere il proprio ruolo e la propria dignità di fronte alla famiglia: La vita è come un gioco, c'è chi vince e c'è chi perde. Chi sbaglia paga sempre di persona. "Fa che tua moglie sia la moglie di un uomo che lavora", è questa la morale che distilla Esposito, firmando le pagelle dei figli, ed è la morale che gli autori lanciano ad un'Italia che si deve risollevare e risorgere dopo i disastri della guerra. 


Alla fine è il ladro che conduce la guardia a compiere il suo dovere, è Totò  che prende sottobraccio Fabrizi allontanandosi verso un orizzonte su cui si staglia la paterna sagoma del cupolone di San Pietro, in una chiusa di chapliniana memoria (un invito alla solidarietà di popolo per uscire dalla povertà materiale e dalla miseria morale in cui era caduto il nostro paese dilaniato dalla guerra civile e da venti anni di dittatura).



Per Totò è anche il definitivo addio al mondo del varietà, un addio che è evocato quando vediamo i due protagonisti passare la serata in un locale dove viene intonata una canzone che Totò cantava con la Magnani in uno dei loro celebri spettacoli di rivista. E' la sera che precede l'arresto di Esposito e dunque l'ideale addio a quella vita e a quel mondo (non dimentichiamo le pesanti critiche che avvolgevano la carriera di Totò all'epoca, considerato poco più che un guitto da commedia dell'arte e la scelta coraggiosa di Ponti di affiancarlo  al romano Fabrizi, scelta che si rivelerà felice e permetterà a Totò di uscire dal clichè di attore marionetta).


Magistrale l'uso della luce, gestita dal direttore della fotografia Mario Bava che diventerà un grande regista di genere del nostro cinema, nella scena dell'arrivo del brigadiere a casa del ladro. Le ombre minacciose che si stagliano sulle pareti delle scale principali avvolgono la scena in atmosfere da cinema espressionista.


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