giovedì 22 marzo 2018

Il giovane favoloso


Un film di Mario Martone 


Con Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco 

Genere: biografico; durata 137 min. - Italia 2014 - 01 Distribution 



“E' stato soltanto a causa della viltà degli uomini, che hanno bisogno di essere persuasi del valore dell'esistenza, che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie personali sofferenze e ci si ostina ad attribuire alle circostanze materiali della mia vita ciò che si deve soltanto al mio pensiero. Prima di morire voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregare i miei lettori di applicarsi e distruggere le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare le mie malattie”
Lettera di Giacomo Leopardi a Louis de Sinner, 24 maggio 1832


Con il suo film, Il giovane favoloso, presentato in concorso alla mostra di Venezia del 2014, Mario Martone ha avuto il coraggio di confrontarsi con una icona della nostra cultura, un personaggio che ogni italiano sente intimamente vicino, non foss'altro per la comune fatica di doverlo studiare sui banchi delle scuole di grado superiore. La parsimonia, per non dire la diffidenza con cui il cinema italiano aveva aggirato l'ostacolo di una tale sfida, la dice lunga sulla complessità dell'operazione. Martone si è preso l'onere di affrontare il “moloch” inserendolo in un momento del suo percorso personale che lo aveva visto affrontare le Operette Morali a teatro e il Risorgimento italiano nel suo precedente film Noi credevamo (vedi lettura in questo blog). Le vicende di Leopardi insomma non sono estratte dal cilindro in modo estemporaneo ma trovano una loro precisa collocazione nel mondo del regista napoletano.


In Noi credevamo lo sguardo sull'Italia del primo Ottocento era occasione per una riflessione su quella presente con il ricorso a delle scenografie talvolta anacronistiche che stavano lì a ricordarcelo. Era uno sguardo collettivo, un percorso corale a più voci che raccontava le difficoltà, gli idealismi traditi e le ipocrisie che si celavano dietro il movimento risorgimentale italiano.
Il Giovane Favoloso è il controcanto esistenziale di quella visione, è lo sguardo individuale e tragico che racconta le sofferenze personali di un personaggio simbolo che gira la stessa Italia, che in quegli anni preparava l'insurrezione, con lo sguardo di un bambino smarrito, di un poeta sensibile ed amaramente pessimista.


Gli sguardi collettivi che rasentano l'oggettività sono qui sostituiti da una visione profondamente soggettiva, intrisa di sogni, allucinazioni, visioni frutto della fantasia e dell'intelletto del protagonista. Recanati, Firenze, Roma, Napoli sono i luoghi che Giacomo attraversa e rappresentano l'Italia quanto la Firenze, la Palermo e la Torino di Noi credevamo. Nel percorso storico politico del film precedente squarci di scenografie temporalmente non plausibili, composte da scale metalliche e da piloni in cemento armato ci legavano al presente (soprattutto politico) a doppio nodo; in questo percorso leopardiano è la musica che ci restituisce sonorità contemporanee e, per certi versi, stranianti rispetto al contesto. E l'Italia ritorna, pur sullo sfondo, nelle sue variegate anime: dal salotto Viesseux, angusto, ipocrita, miope, alla dimora dello zio, il marchese Antici, romano con le attese di ruffiani, monsignori e varia umanità in cerca di aiuto, fino alla Napoli della Natura (come la definisce Leopardi), la Napoli dei vicoli, del colera e dei caffè, del popolo e dei lupanari; il tutto introdotto dal mondo della provincia, da quella Recanati troppo angusta e retrograda per un animo evoluto come quello di Giacomo, immobile nel suo oscurantismo papalino, sonnolenta e anonima.



Leopardi, chiuso come in prigione esce dunque “dal natio borgo selvaggio” nella speranza di trovare quei conforti almeno intellettuali che l'amicizia del Giordani gli aveva fatto prefigurare. Il confronto provincia – metropoli non regala alcuna consolazione al giovane favoloso ma diventa un necessario percorso di formazione personale per chiudere il cerchio della sua inesausta riflessione sulla vita. La chiusa de La ginestra, insomma, attesta la conclusione di un percorso di presa di coscienza che doveva necessariamente passare per il confronto con la realtà altra, incarnata nei luoghi simbolo della italianità.


La presa di coscienza è essenzialmente intima e interiore, non politica nel senso più comune del termine, non storica né sociale (almeno nell'immagine che ci restituisce Martone, ma ben sappiamo che anche di spirto civile fu carica l'esperienza letteraria del poeta; e un accenno di questo lo abbiamo in uno dei dialoghi tra Giacomo e il Giordani in cui il poeta afferma: <Non mi parli di Recanati. M'è tanto cara da somministrarmi idee per un trattato dell'Odio per la patria. La mia patria è l'Italia, la sua lingua, la sua letteratura...>).


Leopardi, agli occhi del regista, è, essenzialmente, un fanciullo che vuole crescere per provare la vita, per assaporarla, per sentirla sulla pelle; le sbarre del cancello di casa a Recanati su cui simbolicamente si vuole trafiggere sono per Giacomo, come la celeberrima siepe, i limiti che gli impediscono “il guardo”, sono le barriere che gli impediscono questo viaggio nella vita.


Perciò l'abbandono della casa natale è necessario, è doloroso ed insistito (dalle prove di fuga alle ricorrenti lettere di sfogo al Giordani che alludono al desiderio di andare, di partire) e conduce ad un girovagare senza una meta definitiva altro che non il simbolico nido finale da cui abbandonare l'esistenza. Questo luogo non poteva che essere come un ritrovato grembo materno cui il ventre caldo di Napoli, e il Vesuvio in ispecie, offrono un'immagine potente ed allusiva. Leopardi, in una ritrovata posizione fetale, è pronto ad esserne inghiottito come approdo terminale di un processo regressivo che il film in qualche modo ha raccontato.




Se pensiamo alla splendida immagine iniziale del racconto, a quei bambini che escono dalla nebbia e che corrono gioiosi, non può non sovvenirci un sussulto di sorpresa. Tra quei bambini gioiosi ed atletici c'è anche il rachitico Giacomo, immaginato stretto nel suo paltò e chinato sulle sudate carte. E' l'immagine di una felicità infantile, certo non solare, che in qualche modo Giacomo ha provato, ha gustato e ha condiviso con i due fratelli a lui più vicini anagraficamente.


Questa piccola comunità dentro la famiglia (Giacomo, Carlo e Paolina) rappresenta l'essenza della felicità leopardiana, lo squarcio di luce in una vita di sofferenza e quando, giocoforza, il poeta dovrà abbandonarla ecco che nel racconto di Martone sembra che Giacomo vada cercando una sua possibile ricomposizione che ritrova nel nucleo che si ricrea a Napoli con Ranieri e Paolina (nomen est omen!).


Ecco allora dispiegarsi il nucleo centrale della riflessione di Martone. Giacomo ha conosciuto la felicità e l'ha inequivocabilmente associata ai lieti anni della fanciullezza; il desiderio di vita e di conoscere il mondo lo hanno spinto lontano dal nido di origine, ai margini del pulsare più sensuale dell'esistenza stessa, fino alle soglie di un vero e proprio inferno che è la suburra napoletana, nella scena del lupanare.


Il corpo che va contraendosi in una torsione permanente sembra portarlo verso la direzione opposta della chiusura in se stesso, ma la vita lo richiama continuamente. Fin dalla apparizione di Teresa/Silvia, Giacomo conduce come una personale esplorazione del mondo (il suo sostare perenne di fronte alla finestra è doppiamente emblematico), che passa attraverso le fughe con il Giordani, la conoscenza di Ranieri e del suo mondo edonistico e frivolo, l'attrazione per le donne fatali, come Fanny, e quella ambigua del giovane giocatore di pallone napoletano (e la mente non può non andare all'attrazione di von Ashenbach per Tadzio in Morte a Venezia), premessa della discesa alla più carnale delle seduzioni impersonata dall'ermafrodito del lupanare (che per una trama ordita, in buona fede, dall'amico Ranieri, ripete a Giacomo beffardamente in greco, s'agapò, come se dovesse rivolgersi al filologo e all'intellettuale e non all'uomo di carne e sensi pulsanti).



Ogni sussulto della carne è foriero di una inevitabile delusione; come in un inesorabile pendolo schopenhaueriano la vita di Giacomo corre verso il desiderio e rimane inesorabilmente frustrata e sconfitta (senza dunque nemmeno la consolazione della noia per il desiderio appagato, evocata dal filosofo tedesco). La carne sempre più contorta di Giacomo è l'immagine di questa putrefazione dei sensi; la regressione all'infanzia diventa strumento di difesa necessario per salvarsi dalle delusioni dell'esistenza.


Così Giacomo nella parte conclusiva della sua esperienza napoletana torna a mostrare quei comportamenti pseudo infantili che avevano caratterizzato la sua permanenza a Recanati. Se là egli era incapace di utilizzare un coltello da tavola, di orinare in modo autonomo, se lo stesso Monaldo con lui si comportava come un padre avrebbe fatto con un bambino piccolo (pensiamo al tentativo di fuga in carrozza in cui Monaldo scopre il figlio fuggente e lo guarda, illuminato da una torva luce rossastra, come fosse Mangiafoco che striglia Pinocchio; e pensiamo al successivo castigo con Giacomo seduto su una sedia al centro di una stanza dove si è inscenata una improvvisata inquisizione alla presenza di padre e zio);



a Napoli Giacomo torna a fare il bambino disubbidiente che mangia il gelato nonostante le proibizioni del medico, che si fa prendere in braccio da Ranieri per essere portato a letto, fa le bizze per non cambiarsi la biancheria, si fa coccolare da Paolina che trascrive i suoi lavori e poi assiste, da una sorta di culla personale, al sublime spettacolo dell'eruzione del Vesuvio con cui si conclude di fatto la parabola narrativa del film.




Ma gli stessi amori che Giacomo coltiva platonicamente stentano ad uscire da una dimensione poco più che adolescenziale (pensiamo all'ingenuo sogno del guerriero Leopardi, in armatura cinquecentesca, che lotta e vince la guerriera Fanny).


L'incontro con Teresa/Silvia, vista e rimirata dalla finestra della biblioteca paterna, conduce Giacomo ad un primo confronto con l'ideale vagheggiato e bastano due brevissime battute della giovane ragazza per comprendere l'abisso di sensibilità e di condizione sociale che divideva i due ragazzi. La contadina semplice e un po' sfrontata di fronte al giovane nobile erudito, scopre con una sola battuta l'abisso che li separa e certifica la dimensione puramente ideale dell'amore di Giacomo per lei.


Lo stesso amore per Fanny, in apparenza più maturo, è in realtà sospeso nella speranza, tutta di Giacomo, che la nobildonna sappia cogliere e vedere in lui l'anima bella (romanticamente parlando), il genio sublime, il sensibile uomo di lettere e poesia; così la scoperta della statua di Psiche, nel salotto fiorentino (che amava senza vedere, come spiega Giordani)


configura questa speranza che non si materializza e che, in una sorta di contrappasso, evapora proprio quando, dopo la breve illusione anche di un menage a trois (vedi la scena del gioco della mosca cieca, presa di petto da Jules e Jim, in cui Fanny è veramente per un lungo attimo la Psiche che non vede, perchè bendata, e che poi si ritrae, quasi disgustata, al toccare la gobba del malcapitato poeta) lo sguardo di Giacomo si posa su ciò che non dovrebbe vedere, l'abbraccio passionale tra Fanny e Ranieri. Proprio come Psiche l'amore di Giacomo sfuma quando la realtà fa la sua intrusione ed illumina l'amata per quello che è.


Giacomo osserva e registra il mondo ma ne è inesorabilmente escluso. Nessuna Psiche è pronta ad amarlo senza “vedere”.
Così la regressione finale è tutta in quel corpo che lentamente si attorciglia su se stesso, si contorce e ripiega nella vana speranza che un simulacro del nido d'origine, ricreato a Napoli con i fratelli Ranieri, possa ricondurlo a toccare vaghe stelle di felicità perduta nell'infanzia.
In questo senso il film dissemina il percorso di citazioni e declamazioni poetiche che confermano questa visione tematica forte.


Per tutti vogliamo citare le parole che accompagnano l'ultima sequenza di Recanati, in cui Giacomo rivede se stesso bambino che gioca con i fratelli:
Dato che l'andamento e le usanze, e gli avvenimenti,
e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili, io tengo
afferrati con ambo le mani questi ultimi avanzi e queste
ombre di quel benedetto e beato tempo in cui sperava
e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva,
ed è passato né tornerà mai più, certo mai più, vedendo
con eccessivo terrore che insieme con la fanciullezza è finito
il mondo, e la vita per me, e per tutti quelli che pensano
e sentono. Sicchè non vivono fino alla morte, se non quei
molti che restano fanciulli tutta la vita.


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