martedì 30 ottobre 2018

Diario di una donna perduta

Regia: G. W. Pabst
Interpreti: Louise Brooks, Fritz Rasp, Andrè Roanne, Josef Rovensky
Germania 1929;  durata 115 minuti
Sceneggiatura di Rudolf Leonhardt, tratto da un romanzo di Margarethe Bohme




Pabst è il regista che insieme a Murnau e Lang, meglio di ogni altro della sua generazione, ha saputo cogliere e raccontare la decadenza di una società in disfacimento che, a sua insaputa, stava avviandosi verso un abisso di orrore ed infelicità. Il suo, in particolare, è il cinema che mette in scena la disgregazione e il disfacimento di una Germania sull’orlo del precipizio. L’origine letteraria dei suoi film non ci deve ingannare perché in Pabst c’è l’urgenza di raccontare il reale e il contemporaneo. Non fa eccezione Diario di una donna perduta, film del 1929, tratto dal romanzo di Margarethe Bohme, che completa un ideale dittico con Lulù, il vaso di Pandora, (anch’esso tratto da un romanzo) del 1928, entrambi costruiti attorno alla figura di un’attrice, Louise Brooks, autentica icona del cinema muto.


G. W. Pabst, nato in Boemia (allora austriaca) nel 1885 e sopravvissuto alle vicende della Prima Guerra Mondiale, intraprese la professione di cineasta presso gli studi Froelich di Berlino dove mosse i primi passi nella regia. Nel 1925 apparve il suo primo capolavoro, La via senza gioia, in cui recitava una giovanissima Greta Garbo e in cui erano presenti molti dei motivi cari al suo cinema: ovvero la stretta correlazione tra sesso e potere in una vicenda che si muoveva tra le miserie della Germania di Weimar. Fin dal suo primo successo, Pabst incorse nelle reti della censura che non gli perdonava il realismo con cui affrontava tematiche forti e torbide.


Pabst fu considerato il maestro del movimento cinematografico tedesco che prese il nome di Nuova Oggettività e che, intorno al 1925, soppiantò l’esasperata e disturbante emotività dell’Espressionismo, per rivolgersi alla realtà sociale che diveniva oggetto di analisi e critica (il realismo francese degli anni Trenta e il Neorealismo italiano degli anni Quaranta saranno debitori di questo movimento cinematografico). L’ambientazione urbana, i personaggi borghesi, l’attenzione ai luoghi più malfamati della socialità (i bordelli, i night club, le taverne), le storie di strada erano diventati oggetto dell’attenzione dei registi di una intera generazione e Pabst fu il più celebrato di essi, con opere come L’ammaliatrice (1925), Il giglio nelle tenebre (1927) e I misteri di un’anima (1926). 

Nell'opera di Pabst, in particolare, soprattutto nel periodo del sonoro (che si inaugurò nel 1930 con lo splendido manifesto anti militarista di Westfront), la fotografia, senza il concorso dei riflettori, si avvaleva della luce naturale, le scenografie artificiali erano sostituite dagli ambienti esistenti, la musica di sottofondo veniva cambiata con una colonna sonora costituita dai rumori dell'ambiente e dal dialogo degli attori, il montaggio era ridotto al minimo e sostituito dai movimenti della macchina da presa.

All’apice del successo, tra il 1928 e il 1929, l’incontro di Pabst con la Brooks produsse due film che sono entrati nella storia del cinema (Diario di una donna perduta e Lulù, il vaso di Pandora).


Louise Brooks, americana, attrice di commedie dal 1925 e ballerina, frequentatrice del jet set e amante della vita mondana, abbandonò Hollywood per lavorare con l’austriaco Pabst. Fecero epoca la sua capigliatura e i suoi modi spigliati, nonché le vicende della sua vita privata e i personaggi sensuali che portò sullo schermo le valsero una grande notorietà, ma anche lo sguardo e l’attenzione malevole di censori e benpensanti. Non nascose la sua bisessualità (si vantò di una relazione con Greta Garbo), le sue frequentazioni, e non esitò a posare senza veli per svariati fotografi. Per qualcuno è la prima vera star femminile della storia del cinema, precedendo le parabole della Dietrich e della Garbo. Crepax si ispirò a lei per tratteggiare la sua mitica Valentina.

I due film girati con Pabst fanno della Brooks l’incarnazione della vamp, della donna fatale, sensuale e provocante, oggetto continuo dello sguardo maschile. Ma mentre in Lulù è lei il diavolo che provoca e seduce, conducendo alla perdizione e rovinando chi le sta intorno, nel Diario di una donna perduta è lei la vittima della sua stessa sensualità involontaria ed innocente, troppo ingombranti per sfuggire al cinismo di una società maschilista, diabolica e senza scrupoli che sacrificava vittime innocenti sull’altare del successo e di uno sfrenato edonismo. 

Vittima al punto che, vestita alla prima apparizione di un bianco virginale (il vestito della sua Cresima), simbolo dell’innocenza, finisce dentro un riformatorio lager in cui Pabst mette in scena situazioni di sadismo che diventeranno familiari nella diffusione delle immagini legate alle peggiori manifestazioni del nazismo (è impossibile non andare con la mente ai campi di concentramento, alle kapò, alle vittime in divisa ed inquadrate). E proprio come prefigurazione degli orrori del nazismo il film è un documento lucido e penetrante, quasi profetico nella proposizione di certe logiche di potere e sottomissione. La morale finale, in questo senso, vale da monito (inascoltato) per quanto sarebbe avvenuto di lì a poco (“solo la disciplina e niente amore non possono salvare il mondo”). 



Thymian, questo il nome del personaggio della Brooks, è vittima innocente di un mondo maschilista e senza scrupoli. La sua sensualità, naturale, quasi involontaria, la conduce ad essere oggetto di sguardo e di desiderio degli uomini. Che sia avvolta nel bianco candido della veste della Cresima o nel nero seducente nel bordello (dove Pabst accentua con toni grotteschi la carica degli sguardi desideranti di uomini e donne; per non parlare dell’aspirante ballerino che osserva dall’alto della sua satanica barbetta caprina una Thymian che danza per lui senza apparente malizia), Thymian non può sfuggire al destino di oggetto, vittima. 




Ecco allora che, non avendo vie alternative, si concede a coloro che la insidiano, ma si concede solo nel corpo e in questo senso vanno letti i suoi svenimenti tra le braccia di coloro che stanno per abusare di lei. E’ una donna svenuta, inanime che si lascia andare tra le braccia del nemico; l'abbandono della coscienza come unico antidoto contro la vergogna e i sensi di colpa. 


La costante del denaro ritorna come motore dell’azione in diverse situazioni del film. In una società degradata il denaro è l’unico riferimento sicuro, ma Thymian non agisce per denaro e lo dimostra in almeno due occasioni (la mattina seguente al suo primo rapporto con un cliente del bordello e nel finale con la cessione della sua eredità alla governante matrigna). Eppure le sue scelte sono indirettamente legate alla mercificazione del corpo come unica possibilità di riscatto e dunque rientrano nella logica del capitalismo più bieco. 



Il diario, in contrapposizione a queste dinamiche, rappresenta una intimità e una interiorità che Thymian non vuole definitivamente soffocare. La salvaguardia di quell’oggetto, evocato come oggetto simbolo fin dal titolo, è la salvaguardia di un barlume di autonomo amor proprio. 



L’assalto dell’aguzzina del riformatorio a quel diario e la strenua difesa di Thymian, in quella che si può tranquillamente definire come una battaglia in interni, è proprio l’estremo tentativo di privare la ragazza dell’ultimo oggetto custode di una sua singolarità, di una sua esclusività che la possa ancora salvare dalla omologazione imposta in quel luogo. 



Ciò che torna in altri capolavori come Metropolis e Tempi moderni e che è evidentemente sentimento che accomuna menti geniali e sensibili come quelle di Lang e Chaplin, a cui si aggiunge quella di Pabst, è una sorta di monito verso quella società di massa che andava irregimentando un’intera generazione. Pabst ci offre lo squarcio di un mondo in cui esistono due tipi di omologazione: una volta al successo e schiava del denaro, l’altra, volta all’obbedienza e al dovere per il dovere, che sembra preconizzare la nascita di una generazione di cittadini automi, tutti uguali e pronti al sacrificio (dagli operai automi di Lang a quelli pecora di Chaplin il passo è breve). 



Tramite Thymian e la sua estrema “rivolta” finale, Pabst vuole raccontarci della possibilità di una alternativa che sia tutta nell’adesione ad un modello di vita volto agli affetti e ai sentimenti e non alla cieca obbedienza e all’interesse. Il suicidio del cugino, nobile spiantato, è proprio la sconfitta dell’individuo di fronte ad un modello dominante che schiaccia un personaggio incapace di uscire dalla logica dell’interesse e del vuoto arrivismo. 



L’amico di Thymian, che piange vedendola umiliata di fronte al padre ed esclama “Adesso sei veramente una donna perduta” (ma aggiunge anche, significativamente, "Tutti siamo perduti"), incarna una sorta di entità narrante neutra che ci propone una lettura morale della vicenda. Il padre di Thymian non è migliore della figlia, ma la ragazza non ha saputo uscire dalla logica in cui il padre l’aveva infilata divenendo una vinta e una sconfitta essa stessa. 




Le macerie della società di Weimar e l’approssimarsi della tragedia del nazismo aleggiano sulle immagini di questo capolavoro che si muove tra la consapevolezza dell’inevitabilità della tragedia e l’aspirazione ad una alternativa che salvi l’umanità. Il riscatto finale di Thymian va proprio in questa illusoria e fatalmente utopica (per quel tempo) direzione.


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