martedì 2 ottobre 2018

Alessandro Blasetti


Alessandro Blasetti (3 luglio 1900, 1 febbraio 1987)

Il matto con gli stivali

Alessandro Blasetti è uno dei più importanti e sottovalutati registi del cinema italiano. Vissuto a cavallo della Seconda guerra mondiale, Blasetti fu autore di 34 film, direttore di 8 opere teatrali e attore in 3 pellicole non sue (ne Una vita difficile, di Dino Risi, interpretava se stesso in azione a Cinecittà). 

A partire dagli anni Venti fu critico cinematografico e fondò la rivista Cinematografo. Impegnato nella rinascita del cinema italiano, in crisi a partire dal 1925, Blasetti fondò una cooperativa di produzione, la Augustus, con cui, nel 1929, produsse il suo primo lungometraggio dal titolo Sole. Questa pellicola, di cui rimangono solo frammenti, era, nelle intenzioni, un pamphlet celebrativo delle bonifiche fasciste. 

Intanto un film come Rotaie, di Mario Camerini, segnò la strada per la ripresa del cinema italiano. Un aneddoto si racconta a proposito degli anni bui del cinema italiano, concentrati nel quinquennio 1925 – 1930; i registi D’Ambra e Gallone, sembra avessero intrapreso una sorta di competizione su chi di loro fosse stato in grado di realizzare un film nel minor tempo possibile (Gallone ne realizzò uno in 5 giorni), secondo un motto allora in voga: Non facite arte, facite scarpe.

L’imprenditore Pittalunga, nel frattempo, diventò proprietario dei teatri di posa Cines e decise di chiamare Blasetti per far ripartire la macchina organizzativa del cinema (per quanto Blasetti avesse criticato lo stesso Pittalunga, reo, a suo dire, di aver contribuito alla decadenza del cinema italiano con prodotti scadenti come i numerosi film dedicati a Maciste). 

Il primo film prodotto da Pittalunga e diretto da Blasetti fu Resurrectio che divenne il primo film italiano sonoro da un punto di vista produttivo, ma superato poi da La canzone dell’amore di Gennaro Righelli che lo anticipò nella distribuzione in sala (l’uscita di Resurrectio venne posticipata perchè il film era ritenuto poco commerciale). Era il 1930 e Blasetti entrava nel cuore del cinema italiano con questo melodramma di disperazione e redenzione che aveva per protagonista un direttore d’orchestra in crisi (interpretato da Daniele Crespi). 

Nello stesso anno Blasetti realizzò Nerone, una sorta di teatro filmato al servizio dell’istrionismo della star dell’epoca, Ettore Petrolini. Il film tuttavia non era l’asettica riproduzione di un lavoro teatrale ma si distinse anche per alcune ardite scelte di regia come un movimento di macchina operato sopra gli spettatori con la macchina da presa che si muoveva su ruote di camion. 

Terra madre, sempre del 1930, fu un inno al ritorno alla terra in un racconto in cui il contrasto città campagna vedeva il prevalere di quest’ultima. La storia vede protagonista un duca (dux, padrone) proprietario terriero, che vive in città, il quale si affeziona ai suoi contadini e decide di trasferirsi in campagna. Il film fu un gran successo di pubblico ma, al contrario di Sole, non incontrò il favore della critica. Blasetti intanto andava affinando la sua poetica, dichiarandosi un assertore del cinema come spettacolo popolare (sulla scia anche delle riflessioni dello scrittore Massimo Bontempelli) e il suo lavoro successivo, Palio, andò proprio in questa direzione, offrendoci una storia sanguigna tra le contrade senesi in cui emergeva un contrasto tra popolo e nobiltà. 


Intanto il produttore Pittalunga morì e il suo posto alla direzione della Cines fu preso dal letterato Emilio Cecchi il quale cercò di imprimere una svolta alla linea produttiva indirizzando gli sforzi verso un cinema di qualità e d’arte. Blasetti, divenuto nel frattempo docente alla prima Scuola Nazionale di Cinema e fondatore del Cineclub Italico (che permetteva ai cineasti di poter vedere i film stranieri in lingua originale e senza censura), continuò a sfornare film a ritmi piuttosto sostenuti. Nel giro di poco più di due anni girò infatti Tavola dei poveri (film metafora su veri e finti poveri), 1860 (un resoconto dell’impresa garibaldina in Sicilia) e poi due altre pellicole di cassetta, andate perdute, come Il caso Haller e L’impiegata di papà, girati entrambi in pochi giorni.


Il 1934 vide l’uscita del film Vecchia guardia con cui Blasetti, all’apice della sua militanza politica, omaggiò lo squadrismo fascista e lo spirito della Marcia su Roma. In quell’anno nasceva la Direzione Generale della Cinematografia, un ente statale che promuoveva investimenti nel cinema, indicando una linea d’azione che prevedeva la realizzazione di film di pura evasione, che presero corpo nella serie di pellicole dei cosiddetti “colletti bianchi”. Proprio la Direzione Generale prese di mira il film di Blasetti che aveva avuto il torto di rispolverare vecchi scheletri nell’armadio che il fascismo stava faticosamente cercando di ripulire. Se i cattolici insomma apprezzarono la pellicola ritenendola adatta per tutti, i militanti del regime videro riemergere i fantasmi di uno squadrismo che si era voluto riporre nell’armadio delle cose ingombranti del fascismo. Blasetti, per farsi perdonare, mise in scena un’opera teatrale dal titolo 18BL nella quale si esaltava l’anima buona di quella stagione del fascismo, raccontando una storia ambientata su uno dei camion che portavano i fascisti a Roma per la marcia del 1922. Il dramma, un kolossal con oltre 2000 comparse, fu un insuccesso clamoroso ed ebbe un’unica rappresentazione all’aperto a Firenze. Questo tentativo di redenzione non bastò a Blasetti per riconciliarlo con la Direzione che decise di affidare il kolossal cinematografico del momento, Scipione l’Africano, a Carmine Gallone, negando, allo stesso tempo, la possibilità di realizzare un altro progetto, a cui Blasetti teneva molto e che era l’Ettore Fieramosca, che realizzerà soltanto alcuni anni dopo (nel 1938) in quanto era prevista l’uscita di un film analogo come Condottieri di Luis Trenker. 


Blasetti si dovette accontentare di dirigere un film sulla marina in tempo di pace, Aldebaran, e 2 film di evasione, che lui stesso definirà “cretini”, come La contessa di Parma e Retroscena. Nel 1938, finalmente, Blasetti realizzò l’Ettore Fieramosca a cui pensava già da tempo. Nella storia della disfida di Barletta egli volle cantare un inno all’unificazione italiana e all’eroismo patrio, celebrando così, anche all’estero, la gloria fascista. Vittorio Mussolini difese a spada tratta la pellicola dalle critiche, non sempre giustificate, mossegli dalla stampa italiana con cui Blasetti non ebbe mai un rapporto troppo sereno (in Retroscena Blasetti mise in scena una beffa ad un critico musicale, evocando le proprie vicissitudini con i critici cinematografici che lo stroncavano). 

Era il 1939, all’approssimarsi della guerra, dopo le leggi razziali e la svolta fascista verso l’orbita d’influenza tedesca, entrò in vigore una legge protezionistica verso i nostri prodotti cinematografici che impediva ai film delle majors americane di essere importati. Tale provvedimento fece impennare la produzione di film nostrani che passò da 50 a 100 film nel 1942. In questi tre anni Blasetti realizzò tre film in costume: L’avventura di Salvator Rosa, La corona di ferro e La cena delle beffe. La prima pellicola raccontava delle vicende della Napoli di Masaniello interpretato dall’attore del momento, Gino Cervi. La corona di ferro era una fiaba pacifista, con una corona che, nel cuore del Medioevo, viaggiava da Bisanzio verso Roma e il Papa, con due protagonisti (Luisa Ferida e Osvaldo Valenti) che salirono all’onore della cronaca anche per la loro storia d’amore, raccontata recentemente nel film Sanguepazzo

La cena delle beffe, forse il suo capolavoro, ambientata nella Firenze del Rinascimento, passò alla storia per il primo nudo nella storia del cinema italiano (quello della protagonista femminile Clara Calamai) e per quella atmosfera torbida ed ambigua che fece gridare allo scandalo la critica cattolica che vi vide, nemmeno troppo allusivamente, ritratti comportamenti libertini, omosessuali ed incestuosi (anche ne La corona di ferro vi erano allusioni, ma più mascherate). 


La fine del consenso fascista permise a Blasetti di muoversi con maggior libertà sganciandosi dalle logiche della glorificazione virile. Così Gino Cervi, abituato a vestire i panni dell’eroe tragico, finì per interpretare quelli ben più dimessi di un normale commesso viaggiatore di dolciumi nel primo film di Blasetti post fascista, Quattro passi tra le nuvole, in cui tornavano i temi della nostalgia bucolica per la campagna, che il regista già aveva espresso in Terra madre. L’atmosfera era però cambiata: la guerra aveva lasciato il segno, la speranza si era affievolita e lo stesso sogno di ritrovare un’Arcadia perduta era lontano dal realizzarsi. Lo stile del film, specie nelle sequenze iniziali, fu però innovativo, tanto da influenzare il nascente Neorealismo. Altrettanto cupo fu Nessuno torna indietro, film girato mentre Roma era bombardata e il fratello di Blasetti moriva al fronte. Fin dal titolo un film dalle atmosfere funeree. Blasetti non si piegò al compromesso finale del fascismo e non si trasferì a Salò. 

La sua militanza passata fu messa in disparte a guerra finita quando, in un clima di generale amnistia, egli poté tornare a lavorare, realizzando tre film per la casa di produzione cattolica Urbis Universalia. Il primo di questi, Un giorno nella vita, fu un racconto ancora legato alle vicende della guerra, in cui si narrava di un gruppo di partigiani che, rifugiatisi dentro un convento, furono scoperti e raggiunti dai nazisti. L’irruzione della guerra nella pace, il sacrificio delle suore, ma anche la negazione della necessità della vendetta furono i temi di un film che sembrò aprire nuove prospettive di speranza. Nell’anno Santo Blasetti realizzò Fabiola, un kolossal, costato 700 milioni di Lire, che pur profumando di propaganda liberal – cattolica si ritagliò spazi di sorprendente libertà creativa (scene di sesso, nudità) grazie anche all’apporto, in fase di sceneggiatura, di alcuni autori di ispirazione comunista. L’imponenza delle scene di massa contribuì all’enorme successo della pellicola. 

Prima Comunione fu il terzo film prodotto dalla Universalia e rappresentò la virata verso la commedia rosa alla Reneè Clair, la cui leggerezza riconciliò Blasetti con una visione più serena del mondo. Tra il 1952 e il 1954, Blasetti realizzò due film a episodi che anticiparono la moda di questo genere di commedie, il cui boom avverrà negli anni Sessanta. Altri tempi e Tempi nostri si rivelarono uno zibaldone di storie tratte da racconti letterari in cui si inaugurò una felice stagione del divismo made in Italy, con la Lollobrigida mattatrice, rappresentando un erotismo e una sessualità più solari e spensierati di quelli esibiti negli anni Trenta e Quaranta. 


In Peccato che sia una canaglia e La fortuna di essere donna, Blasetti lanciò alcune delle star che avrebbero segnato la storia a venire del cinema italiano, come Sophia Loren, Marcello Mastroianni e Vittorio de Sica, raccontando un’Italia che andava cambiando e in cui il ruolo della donna, sempre più attiva ed intraprendente, andava modificandosi. Nel 1957 scrisse con Zavattini Amore e chiacchiere, un atto di accusa contro l’italiano medio, fanfarone ed inconcludente. L’intento moralistico tornerà anche nel film del 1967 Io, io, io...e gli altri, in un periodo in cui Blasetti aveva iniziato a lavorare anche per la televisione. 

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