mercoledì 20 gennaio 2016

I nostri ragazzi

I nostri ragazzi

Un film di Ivano De Matteo
Con Alessandro Gassman (Massimo), Giovanna Mezzogiorno (Clara), Luigi Lo Cascio (Paolo), Barbora Bobulova (Sofia), Rosabell Laurenti Sellers (Benedetta)
Drammatico;  Durata 92 minuti;  Italia 2014;   01 Distribution

 

Due fratelli, uno avvocato, difende un poliziotto che si è macchiato del delitto di un uomo, l’altro, dottore, cerca di salvare il bambino figlio della vittima dello stesso poliziotto. Due famiglie che corrono parallele e si ritrovano una volta al mese in un ristorante chic di Roma. L’avvocato ha rabbia repressa che sfoga sul sacco di una palestra di boxe, una moglie annoiata e solitaria, il dottore una relazione tra alti e bassi con la moglie. 
 


Entrambi hanno un figlio, un maschio per l’avvocato e una femmina per il dottore, entrambi adolescenti che si frequentano. Ossessionati dalle nuove tecnologie, i due ragazzi passano il tempo guardando web series (matrice comune sembra essere la violenza demenziale che ricercano in serie come Next Stop o Jackass) e spippolando sui loro cellulari, vagamente estraniati dalla realtà che li circonda.

 

Questo il quadro d’insieme che presenta i protagonisti di questo dramma metropolitano, profondamente legato ai tempi che viviamo. Al centro dell’intreccio troviamo due famiglie minacciate nella loro integrità; ma se in uno dei precedenti film del regista Ivano De Matteo, La bella gente, la stessa minaccia proveniva dall’esterno, in questo essa prende corpo tra le mura domestiche portando alla deflagrazione finale attraverso un percorso che resta interno alle figure delle famiglie stesse. Se vogliamo, l’assunto è dunque ancora più amaro perché il materializzarsi del demone della disgregazione ha radici nelle dinamiche naturali e consuete del menage familiare. I piccoli screzi tra i coniugi, le piccole incomprensioni, i silenzi e i conflitti non bastano a giustificare gli eventi che colpiscono i figli delle due famiglie. Quello che è interessante è come il regista eviti facili connessioni causa effetto sulla violenza che esplode ingiustificata, ma non per questo meno barbarica e che vede protagonisti gli adolescenti Michele e Benedetta.

 

Il regista sembra altresì suggerirci che la violenza è insita e latente in una società che in qualche modo cerca di rimuoverla; la sequenza iniziale è significativa; un adulto che perde la bussola per un semaforo rosso non rispettato, un bambino che lo osserva spaventato, l’altro adulto che vistosi aggredito risponde con inaudita violenza. L’incipit ci mostra una sorta di falso indizio: lo spavento del bambino è il segno di un mondo innocente che guarda con terrore alla violenza degli adulti irresponsabili (il titolo del film si apre in dissolvenza sulla immagine del ragazzino innocente ferito a seguito dello sparo dell’automobilista). 
 




L’indizio si rivelerà fuorviante perché in realtà il film racconta esattamente la dinamica opposta, con la lenta scoperta degli adulti di un mondo di violenza che riguarda i figli. Ma, e qui sta il punto, la risposta degli adulti si dimostra inadeguata, coerente, se vogliamo, con quel mondo stesso che la violenza ha, forse involontariamente, seminato e poi raccolto.
Altro elemento interessante sta nel voluto equilibrio che il regista mostra nel suggerire colpe e difetti dei personaggi, distribuendoli con pari puntualità tra maschi, padri e femmine, madri, tra intellettuali e cinici arrivisti, tra figure di donne dinamiche ed altre passive e vagamente depresse. Le due famiglie che sono a contatto, hanno un comune background, entrambe appartengono alla medio-alta borghesia romana, vivono in appartamenti raffinati e frequentano ambienti d’elites, come il simbolico ristorante che è il luogo chiave della vicenda. 

 
 

Certo Clara (Giovanna Mezzogiorno) e Paolo (Luigi Lo Cascio) hanno ambizioni diverse rispetto a Massimo (Alessandro Gassman) e la sua compagna Sofia (Barbora Bobulova); Clara, guida turistica e Paolo dottore incarnano una borghesia colta, con sfumature sinistroidi, vagamente snob, in cerca di una collocazione sociale consona alle loro aspirazioni. Il ristorante chic non fa per loro, certe sfumature del carattere di Massimo proprio non le sopportano, eppure la loro relazione non è esente da pecche; anzi, con il progredire della narrazione, ci rendiamo conto che le incomprensioni che segnano il loro rapporto sono più profonde di quelle, pur evidenti, tra Massimo e Sofia (quest’ultima, al suo primo apparire, viene presentata come una donna semplice, ma fondamentalmente sola) e il finale è figlio proprio, in parte, di quelle incomprensioni.


Sofia appare come una donna fragile, passiva, lasciata a se stessa, Carla (che cucina, mentre Sofia ha una colf che sbriga le faccende) al contrario pare una donna attiva e sicura di sé. Gli eventi del film modificheranno la percezione iniziale dello spettatore. Le stesse dinamiche narrative si ritrovano nella costruzione dei personaggi maschili. Massimo si presenta come una figura aggressiva (scarica la tensione su un sacco da boxe in palestra), scontrosa, non sincera e distaccata (la compagna lo accoglie con affetto e lui risponde con un atteggiamento insofferente), è un avvocato privo di scrupoli che difende i carnefici, si circonda di oggetti eleganti (l’arredamento della casa, l’automobile) e frequenta ambienti raffinati; Paolo sembra non guardare troppo alle apparenze e, al contrario del fratello, cura le vittime innocenti (i bambini) e sembra non inseguire i clichè di uno status simbol da esibire; il suo rapporto con la moglie pare incanalato nei canoni di una normale affinità e complicità, eppure, alla lunga le crepe più grandi nasceranno proprio in casa di Paolo.

 

Da sottolineare la rilevanza delle ambientazioni dentro cui si muovono i personaggi: la casa di Massimo ha una eleganza asettica (con quel bianco abbacinante e le linee geometriche che inglobano gli spazi) e la raffinatezza dei quadri sottolinea, per paradosso, la freddezza dell’insieme che sembra ricalcare quella delle relazioni umane che si dipanano al suo interno. Più anonima, ma proprio per questo più calda, la scenografia che descrive l’abitazione di Paolo e Clara. Dentro questi spazi formalmente ineccepibili, “ideali” (come la città del quadro che campeggia alle spalle di Paolo e Clara e che richiama, con un omaggio metacinematografico, anche il film di Lo Cascio, La città ideale) si muovono anche i figli che hanno in realtà spazi privati in cui rintanarsi di fronte a schermi digitali. 

 

Benedetta e Michele sono due “tipi qualunque” che al pari di molti coetanei si trovano ad interagire continuamente con i marchingegni elettronici coltivando una cultura parallela a quella degli adulti, fatta di web series e trasmissioni demenziali in cui la violenza è parossistica e parodistica, ma non per questo, meno evidente ed esibita (mentre Michele e Benedetta si appassionano a serie come Next stop e Jackass, Clara non si perde una puntata di Chi l’ha visto?, programma che, come sottolineato dalla stessa presentatrice offre immagini e situazioni crude non adatte ad un pubblico giovanile). Clara è l’adulto che non vede, che non sa. Quel monito a dividere le situazioni adulte da quelle adolescenziali è un avviso a lei stessa, che non a caso proprio da quella trasmissione inizierà ad aprire gli occhi, per poi clamorosamente richiuderli nell’amarissimo finale. 
 

 

La barriera tra ciò che riguarda gli adulti e ciò che riguarda i figli si è disintegrata, i figli sono dentro a ciò che solo un adulto dovrebbe vivere, la violenza barbarica annulla la distanza con il mondo degli adulti che sono costretti ad aprire gli occhi. Chi l’ha visto? Diventa una domanda metaforica posta a Clara, che esige una risposta, ma Clara, e come lei gli adulti che la circondano, non sembrano in grado di trovare risposte adeguate ed efficaci. Clara non ha il coraggio di uccidere un astice, il figlio si. Piccoli segni si presentano alla madre ma costei non vuole vedere, le basta un sorriso per credere che il figlio è ancora un bambino innocente ed immacolato.
 

 
Clara, messa di fronte al fatto compiuto, inizia un percorso di revisione del proprio mondo che va però nella direzione della rimozione, della ripulitura dallo sporco piuttosto che nella direzione di una profonda presa di coscienza (che fondamentalmente avrà, alla fine, soltanto Massimo). Chiusa la porta della stanza del figlio bisogna iniziare a ripulire come suggerito dal montaggio che ci mostra, nella sequenza successiva, degli spazzini al lavoro. 
 



 

La madre spia Michele per cercare di ritrovare l’immagine cristallizzata del figlio, la sua icona fissa del bambino che ha cresciuto; il suo semplice sorriso basta a Clara per consolarsi e convincersi che quella immagine è ancora valida; scoprendo il delitto, viene meno, per la madre, ogni riferimento spazio temporale (di colpo il bambino è scomparso) così da perdere letteralmente l’equilibrio. Il loro dialogo è come l’inizio di una partita a carte.

 

I padri (fratelli) intanto, appoggiati ai piloni che fermano le onde, si raccontano la verità che arriva come un mare in tempesta. Anche loro hanno bisogno di sostenersi metaforicamente su quelle armature frangiflutti per salvarsi dalla tempesta interiore che sta per annientarli.
 

 

“Io lo conosco mio figlio” è il refrain che accompagna i dialoghi tra gli adulti smarriti. Perché il film racconta proprio questo: lo smarrimento di una generazione di padri e madri che stenta a capire e riconoscere i figli. Il film non mette a fuoco le ragioni della follia dei ragazzi; troppo superficiali gli indizi della loro dipendenza da una realtà virtuale in cui la violenza è gioco e viceversa. Il film si occupa degli adulti e della messa in discussione delle loro certezze. Nel confronto continuo, che caratterizza la seconda parte, tra marito e moglie, e tra compagno e compagna, il regista sottolinea la difficoltà di una convergenza materializzando queste discrasie con un gioco di inquadrature e messa in scena dei personaggi che raramente si trovano a fuoco insieme.
 


 

Non solo, ma lo stesso spettatore è, talvolta in difficoltà nel cogliere i passaggi dei dialoghi, come quando la voce innocente del piccolo figlio copre le parole che si dicono Massimo e Sofia; in una casa improvvisamente vuota Sofia si trova ad essere una intrusa negli affari che riguardano la figliastra Benedetta. 
 

 

Clara è incastonata in una immagine in cui prevale il nero alle sue spalle. Paolo vede nella madre del piccolo che ha in cura le stesse paure ed ansietà che attanagliano la moglie, ma è proprio Clara che richiama Paolo alle sue responsabilità, aprendo quella crisi di coscienza che sarà la causa scatenante della reazione finale del marito. 


Improvvisamente Paolo si scopre assente come padre di Michele, mentre Massimo va lentamente maturando una coscienza (lui vede sfuocata la foto che lo ritrae con la figlia, non ci vede più chiaro; al contrario di Clara è in grado di rimuovere la falsa immagine della figlia bambina per sostituirla con la nitida figura di Benedetta spietata killer); questa coscienza è però pericolosa ed inaccettabile, addirittura fatale (come mostrerà il finale). 
 

 

 

Paolo urla nel vuoto, invece Massimo, di fronte al palazzo di giustizia (che vediamo con veloce movimento di macchina) ammette di aver sbagliato tante volte con la figlia (un senso di giustizia lo pervade).
 



 

Massimo, insomma, è l’unico che scopre fino in fondo la vera natura dei loro figli, accettandone fino in fondo le conseguenze ed includendo se stesso nel computo delle colpe che hanno contribuito a portare a quella situazione. Queste diverse consapevolezze dei protagonisti di fronte al fatto compiuto si materializza nella sequenza finale del ristorante; i quattro sono divisi e anche le inquadrature ce li mostrano a due a due o uno di fronte all’altro, ma senza mai metterli a fuoco contemporaneamente.
 





Tutti questi motivi si intrecciano con una ulteriore e fondamentale domanda: il degrado morale, l'assenza di punti fermi va imputata a una gioventù ormai lasciata in balia dei social network o ha le sue radici in un falso perbenismo incapace di reggere il confronto con la realtà? I genitori di Michele e Benedetta non sono 'cattive persone', non possono neppure imputare alla società (visto il loro status) un degrado morale ed etico a cui attribuire le malvage azioni dei propri figli. Dentro di loro alberga però (e ha messo radici) la convinzione di poter aggirare ogni ostacolo azzittendo qualsiasi sussulto di coscienza. Paolo vira repentinamente nel momento che la moglie lo pone di fronte alle sue responsabilità e ai suoi silenzi assordanti. Si sente un padre assente e dunque acqueta una colpa macchiandosene di una più grande. Massimo, al contrario, è conscio delle proprie responsabilità e dei propri errori e quando si trova di fronte al frutto di questi, non sa negare l’esigenza di correggerli aderendo alla verità e alla giustizia. Mentre le due donne restano sulle posizioni che le hanno contraddistinte fin da subito, i due fratelli sono i veri protagonisti della vicenda chiamati ad una svolta radicale nelle loro convinzioni.



 

 

 

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