domenica 10 gennaio 2016

In nome del popolo italiano

In nome del popolo italiano


 

Regia: Dino Risi

Attori: Ugo Tognazzi - Giudice Mariano Bonifazi, Vittorio Gassman - Lorenzo Santenocito,

Yvonne Furneaux - Lavinia Santenocito, Michele Cimarosa - Maresciallo Casciatelli,

Ely Galleani (Ely De Galleani) -Silvana Lazzorini, Pietro Tordi - Prof. Rivaroli,

Simonetta Stefanelli - 'Giugi' Santenocito, Franco Angrisano -Colombo,

Renato Baldini - Rag. Cerioni, Pietro Nuti - Avvocato di Santenocito,

Checco Durante - Pieronti, l'archivista, Maria Teresa Albani - Signora Lazzorini,

Enrico Ragusa - Riziero Santenocito, il padre, Edda Ferronao - Cameriera di Santenocito,

Soggetto: Age , Scarpelli (Furio Scarpelli)   Sce neggiatura: Age , Scarpelli (Furio Scarpelli)
Fotografia: Sandro D'Eva, Carlo Fiore - (operatore)  Musiche: Carlo Rustichelli - Le musiche sono dirette dall'autore e da Gianfranco Plenizio. La canzone "Non dovrei" di Phersu e Rizzati è cantata da Franco Morselli.
Montaggio: Alberto Gallitti  Scenografia: Luigi Scaccianoce   Arredamento: Bruno Cesari
Costumi: Enrico Sabbatini   Aiuto regia: Renato Rizzuto, Claudio Risi - (assistente)                                                                        
Abusivismo edilizio, degrado ambientale (la riva del mare che si presenta come una enorme discarica a cielo aperto), inquinamento sono i primi motivi evidenti del film di Risi. L'inquinamento e il degrado ambientale sono lo specchio del degrado e della corruzione morale di un popolo, già evocato nel titolo, in cui uomini come il pretore Bonifazi sono destinati, inesorabilmente, a cadere nella rete di pescatori senza scrupoli.

 

Il pretore Bonifazi (Tognazzi), integerrimo ed onesto, è promosso giudice istruttore, ed è, a sua insaputa, come preso in una rete da cui non può liberarsi. Bonifazi è come il gabbiano dal cui verso è richiamato: si getta sulla preda con decisione, ma la preda è malata, inquinata e ne resterà anch’esso infetto fino alla morte (nel suo caso alla morte morale e al tradimento delle sue convinzioni). 
 

 

Il suo contraltare è l’ingegner Santenocito, imprenditore senza scrupoli e remore etiche, salvo sputare sentenze contro i giovani fricchettoni dei camping e dei centri sociali, cui occasionalmente dà passaggi in macchina.

 

Bonifazi ha l’Unità e il Manifesto sul letto, è il giudice di sinistra, Santenocito è l’uomo di destra che l’autostoppista apostrofa come fascista. 

 

Le due anime dell’Italia sono subito presentate nell’incipit del film in un alternarsi di punti di vista che sono come contrappuntati dall’alternarsi del colore e del bianco e nero. Gli stessi titoli iniziali scorrono su immagini in bianco e nero di luoghi simbolo della giustizia italiana (il palazzo di giustizia a Roma), un bianco e nero che nel film è utilizzato per definire le sequenze in flash back ambientate nel passato, quasi a voler sottolineare l’anacronistica presenza di una simbologia retorica, direttamente proveniente da un passato carico di aspettative, che stride con la realtà dei fatti e dell’Italia della modernità.
 


Il giudice Bonifazi si mette a lavorare sul caso dell’omicidio di una giovane ragazza, Silvana L. Gli interrogatori che sostiene con i genitori della ragazza e la domestica della stessa sono condotti sul filo di un linguaggio surreale, fatto di idiomi inesistenti, errori grammaticali, termini desueti ed “aulici” che rendono i colloqui grotteschi. E’ un linguaggio che mescola il lessico tipicamente burocratico ad uno popolaresco e colorito. Le evidenti forzature nelle espressioni gergali, la ricercatezza dei termini che non si sposa con la dimensione colloquiale, accentuano il tono di forzata deferenza nei confronti del giudice e ci richiamano, più in generale, ad una idea di falsità ed ipocrisia che permea le relazioni umane (queste alcune delle espressioni usate dai genitor della giovane vittima: …persona di cui ignoriamo l’entità…; invitammo la vedova Casciotti che fece onore al desinare…; …la filiale sollecitudine della nostra bambina…; la nostra piccoletta interruppe presto gli studi inserendosi nel gran calderone…;…ci sarebbe un episodio che lumeggia assai il carattere della nostra pupetta…; e così tralasciò il suo esplicarsi interrompendo il suo percepire e il suo darci…). La mostruosità del lessico va di pari passo con quella dei tipi umani che incrocia il Bonifazi, non ultimi questi genitori sciagurati che non possono (per eccesso di ingenuità) o non vogliono (per eccesso di eogismo e stupidità) cogliere il dramma della figlia (che si prostituiva).


Il dottore cui Bonifazi si rivolge per effettuare le analisi sul gabbiano morto nei pressi delle industrie Santenocito, pare uomo cinico e disincantato, che ha il modo romanesco di parlare, anche con tono proverbiale, e sputa una sentenza che sembra esprimere la profonda essenza del film: Io dei cittadini me ne infischio, perché ogni cittadino aspira a diventare industriale ed avvelenatore del prossimo. Voi magistrati non l’avete ancora capito che questo popolo italiano nel nome del quale sentenziate non merita un cacchio, Continuate, continuate a difenderlo…).

 

L’immagine ripetuta della salma della ragazza uccisa, avvolta in bianchi lenzuoli, bionda e giovane, sfruttata dai genitori, vittima di uomini senza scrupoli come Santenocito, diventa l’emblema di una purezza perduta, di una innocenza macchiata (si pensi al flashback in cui vediamo la ragazza indossare un impermeabile bianco, sotto la pioggia battente e inzuppata d’acqua che, come una bambina, invoca il papà e la mamma, di fatto i suoi “protettori”), cui Bonifazi, forse, guarda con malcelata nostalgia. Silvana L. (fra l'altro quasi sempre vestita di un bianco candido, lei già bionda ed innocente come un angelo caduto dal cielo) è proprio l’Italia vituperata ed oltraggiata, morta moralmente ed eticamente.

 



Il film prende, talvolta, la via della metafora visiva, come quando Bonifazi discute animatamente con un pubblico ministero accusato di “strabismo legislativo” (lui evidentemente strabico fisicamente) all’ombra di una enorme statua della giustizia che crolla a terra immediatamente dopo al dialogo incriminato. 

 

Sulla parola Iustitia campeggia un segnale di pericolo con evidente allusione al sistema giudiziario italiano nel suo complesso. Gli operai che provvedono a rimuovere la testa della dea coprono con le mani gli occhi della stessa quasi ad impedirle di vedere lo sfacelo che si sta consumando di fronte a lei. 
 

 

La Giustizia sta crollando e gli italiani festeggiano, mascherandosi come gli antichi romani; tra questi il commendator Santenocito che, in qualche modo, ne incarna i vizi peggiori. 

 

La sagoma nera del carabiniere (simbolo di un’Italia che faticosamente cerca di difendere la legalità e la giustizia) che si muove tra i finti romani risulta ancora più isolata nel complesso delle tuniche bianche predominanti. La musica leggera sovrasta la scena della convocazione giudiziaria di Santenocito. Mentre l’imprenditore viene condotto via, la festa prosegue e noi la vediamo incastonata tra due colonne, quasi i limiti di un palcoscenico su cui va in scena la frivolezza e la leggerezza (non innocenti) italiane.
 

 

Nella sede provvisoria del palazzo di giustizia Santenocito è condotto con il suo vestito da centurione romano mentre un usciere va declamando alcuni versi della poesia “Lo specchio der governo” di Gioacchino Belli.

Lo specchio der governo (poesia integrale e, in neretto, i versi declamati dall’usciere)

Cuanno se vede ch’er Governo nostro

cammina senza gamme, e ttira via:

cuanno se vede che mmanco Cajjostro 

saprebbe indovinà cche ccosa sia:



cuanno er Zommo Pontescife cià mmostro 

che cqualunque malanno che sse dia

s’abbi d’arimedià co un po’ d’inchiostro,

co un po’ d’incenzo e cquattro avemmaria:



cuanno se vede che lo Stato sbuzzica, 

e cch’er ladro se succhia tutto er grasso,

e ’r Governo lo guarda e nnu lo stuzzica;



tu allora che lo vedi de sto passo,

di’ cch’er Governo è ssimil’a una ruzzica,

che ccurre cure sin che ttrova er zasso.


Anche Santenocito si presenta di fronte al giudice Bonifazi pronunciando frasi composte di un lessico inusuale, artificioso, stucchevole (Gli abusi autoritaristici in paesi a conduzione totalitaria sono deprecazionabili, il prevaricazionismo implicante il maggior indice di repressività è quello fruente del massimo libito demandatogli dalla designazione collettiva, caro signore…), ancora più grottesco tenuto conto del mascheramento dell’imprenditore. La sua capacità oratoria va di pari passo con l’ipocrisia e la cialtroneria evidenti.


La signorilità e l’eleganza, diremmo quasi antiquaria, del palazzo in cui vive la famiglia di Santenocito (le colonne, i baldacchini, i ritratti di cardinali e uomini di potere del passato), stride con la bassezza morale che contraddistingue il personaggio. Le enormi stanze (riprese talvolta con il grandangolo proprio per esasperarne le dimensioni) in cui si muovono i componenti della famiglia (l’isterica moglie Lavinia e la disillusa figlia) accentua la distanza affettiva che li separa, frutto dell’egoismo e del cinismo del capofamiglia che esplode in tutta la sua evidenza allorquando questi fa condurre il vecchio padre (isolato in un’ala del palazzo dove sente il dolce suono di un violino provenire da un altrove indefinito) in manicomio per difendere l’alibi costruitosi (la sera dell’omicidio della ragazza avrebbe giocato a scopetta con il padre che però pericolosamente non ricorda).
 

 

Il moralismo ostentato con la figlia, condito di consigli bonari ed esistenziali, cozza con il livore e l’odio che prova per la moglie e questa sua doppiezza si materializza nella sequenza in cui l’uomo si guarda sconsolatamente allo specchio sussurrando a se stesso l’idea che la pietà non può accordarsi con il potere. La moglie è complice della situazione e capisce che è meglio un suocero in manicomio che un marito in carcere. 
 

 

L’arrivo del giudice Bonifazi nella villa coincide con la partenza del nonno (se ne va un’ambulanza ed entra un’auto delle forze dell’ordine) ed è introdotta, significativamente, dalla presenza di una cameriera che sta cercando di pulire il disordine provocato dal “sequestro” del nonno (Bonifazi vede lo sporco ed è inutile nasconderlo…). 


Il giudice continua a muoversi con il suo motorino tra il traffico di un mondo in cui compaiono starlette disposte a tutto pur di raggiungere la notorietà ed imprenditori corrotti e senza scrupoli. La sua integrità (forse è un po' stereotipata l’idea del giudice di sinistra, idealista ed integerrimo, lontano da certe logiche) è messa a dura prova e nel dialogo con Santenocito sulla spiaggia (un dialogo che avviene sotto la pioggia e tra i rifiuti, dunque nel mezzo di un ambiente degradato e degradante) emerge la stanchezza di chi è stufo di essere il difensore di leggi che proteggono una società che fa schifo…composta da uomini vili e volgari come il suo interlocutore. 
 
 

Ma la fragilità della posizione di Bonifazi è tutta in quel suo caracollare con il motorino tra auto in fila e crepe e frane al bordo della strada la cui manutenzione è affidata a personaggi come Santenocito. 


Noi siamo sempre complicizzati, in mancanza di meglio, da una strizzatina d’occhio” è la frase con cui Santenocito cerca di smorzare la forza delle argomentazioni di Bonifazi che sta cercando di incriminarlo. In realtà tra i due quello assediato, letteralmente, pare proprio il giudice, circondato da testimonianze che vanno nella direzione opposta ai suoi principi e continuamente blandito dalle affermazioni dell’imprenditore che, nella loro sfrontatezza, colgono, purtroppo, spesso nel segno. E’ Bonifazi, solo nella sua missione, il vero indagato del film, è lui sotto assedio tanto che il suo ufficio è dentro ad una caserma presidiata dai soldati proprio come se necessitasse di essere difeso da attacchi esterni. 


E’ straordinaria comunque l’attualità dei temi e dei motivi con cui viene inquadrata l’Italia degli anni Settanta e che ha tante, troppe somiglianze con quella attuale. L’intreccio di corruzione, malaffare, cialtroneria, disonestà, la collusione tra poteri che si incarnano in Santenocito, figura che si moltiplica nel finale del film negli italiani di ogni ordine e grado che festeggiano la vittoria della nazionale. 

Mentre la voce dello speaker di un notiziario televisivo commenta i premi ricevuti da imprenditori come Santenocito e parla di sviluppo del paese e piena occupazione, vediamo un padiglione industriale vuoto e desolato. Quei personaggi che guidano l’economia del paese non hanno alcun vero interesse per il benessere del paese, ma soltanto per il proprio (la denuncia di Risi non potrebbe essere più decisa). 
 


La soluzione del caso avviene quando di nuovo Bonifazi è tornato al palazzo di giustizia, ancora un cantiere in verità; un ritorno simbolico che sembra garantire le buona riuscita dell’operazione ( per quanto, quando interroga il maggiordomo dell’imprenditore Del Tommaso, colluso con Santenocito, che sta finalmente raccontando la verità, la voce di questi sia disturbata dai rumori che provengono dall’esterno; la verità fatica ad emergere, il rumore sta per sovrastarla, Bonifazi deve chiudere con forza la finestra). 
 


La corruzione è l’unico iter per sveltire le procedure, dice Santenocito presentando il suo nuovo progetto di lottizzazione di un terreno adiacente al mare. La sua voce è contrappuntata dalle immagini dei carabinieri che stanno arrivando per arrestarlo;
 

 

all’orizzonte si sta profilando la partita Italia Inghilterra la cui eco accompagnerà le scene finali del film. La giustizia ha compiuto il suo corso ma qualcos’altro distrae gli italiani, qualcos’altro sta stordendone la coscienza: la partita di calcio. Tanti Santencito si muovono deliranti a festeggiare; Santenocito rappresenta tutti gli italiani… 

 

Bonifazi che vagava sempre più isolato tra le strade deserte della capitale, ed era un uomo solo che sembrava condurre una battaglia isolata si trova nuovamente circondato ed assediato, ma anche lui non è più lo stesso di prima; quello che compie nel finale, un vero atto di ingiustizia (la distruzione delle prove che scagionerebbero il Santencito), ne corrompe la purezza: pure lui ha capitolato, è venuto meno ai propri principi, si confonde tra la folla che festeggia e, a quel punto, non è poi così migliore di quelli che lo circondano. La cinica logica del dottore, che invitava il giudice a non ostinarsi a difendere cittadini che non meritavano tale trattamento, ha avuto la meglio, il giustizialismo ha prevalso sulla giustizia e sulla legge.

 
 
In un mondo dai contorni morali ed etici corrotti e ribaltati, l’ingiustizia di Bonifazi diventa giustizia, con l’amaro retrogusto di una sconfitta o quantomeno di un atto fondamentalmente inutile e fine a se stesso. Dando ragione alle remore morali esposte da Cartesio nella sua “Morale provvisoria”[1], potremmo dire che Bonifazi non ha cambiato il mondo, ma il mondo ha cambiato Bonifazi. Un mondo che è uguale a se stesso se è vero che alle immagini di degrado che hanno aperto il film si contrappongono quelle altrettanto degradanti del finale con la sporcizia che invade le strade di Roma e alcune beffarde scritte (come quella di un cartellone pubblicitario il cui slogan è: Roma è anche tua, aiutaci a tenerla pulita…di una attualità disarmante) che rendono ancora più amaro l’insieme.

 

Nel contesto sempre uguale la situazione si ribalta, Santenocito è la voce della verità che riecheggia come un tarlo nella mente di Bonifazi (Lei è prevenuto verso persone come me…Se fossi della sua stessa idea politica troverebbe il modo di scagionarmi…); gli italiani per cui Bonifazi dovrebbe riabilitare la figura di Santenocito non meritano niente, proprio come diceva il dottore, perché anche loro sono tanti Santenocito e allora, alla fin fine, nessuno ha vinto e giustizia non è fatta.
 


A chiudere le frasi che la bionda ed ingenua fanciulla traduceva dall’inglese (quell’Inghilterra che battiamo nel calcio ma certo non nella civiltà sembrerebbe dirci Risi quando ci mostra i tifosi che distruggono una macchina inglese sulle cui fiamme Bonifazi farà bruciare la verità), che Bonifazi legge dal suo diario e che segnano un ulteriore contrappunto morale alla vicenda.

L’allegra cicala ha passato l’estate cantando; Si raccoglie ciò che si semina; Tutto è bene quel che finisce bene.




 


[1] La morale provvisoria cartesiana si compone di principi fondamentalmente legati alla razionalità e al buon senso. Ogni uomo dovrebbe, primieramente, seguire le leggi e i costumi dello stato in cui vive, quindi, perseverare con risoluzione nella decisione presa, sebbene essa possa sembrare dubitabile nel corso dell'esecuzione,  cercare di dominare se stessi piuttosto che la fortuna e di cambiare i propri desideri piuttosto che l' ordine esterno delle cose e infine dedicare tutta la vita allo sviluppo della ragione e alla ricerca della verità . 

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