Interpreti: Louise Brooks, Fritz Rasp, Andrè Roanne, Josef Rovensky
Germania 1929; durata 115 minuti
Sceneggiatura di Rudolf Leonhardt, tratto da un romanzo di Margarethe Bohme
Pabst è il regista che insieme a
Murnau e Lang, meglio di ogni altro della sua generazione, ha saputo cogliere e
raccontare la decadenza di una società in disfacimento che, a sua insaputa,
stava avviandosi verso un abisso di orrore ed infelicità. Il suo, in
particolare, è il cinema che mette in scena la disgregazione e il disfacimento
di una Germania sull’orlo del precipizio. L’origine letteraria dei suoi film
non ci deve ingannare perché in Pabst c’è l’urgenza di raccontare il reale e il
contemporaneo. Non fa eccezione Diario di
una donna perduta, film del 1929, tratto dal romanzo di Margarethe Bohme,
che completa un ideale dittico con Lulù,
il vaso di Pandora, (anch’esso tratto da un romanzo) del 1928, entrambi
costruiti attorno alla figura di un’attrice, Louise Brooks, autentica icona del
cinema muto.
G. W. Pabst, nato in Boemia (allora
austriaca) nel 1885 e sopravvissuto alle vicende della Prima Guerra Mondiale,
intraprese la professione di cineasta presso gli studi Froelich di Berlino dove
mosse i primi passi nella regia. Nel 1925 apparve il suo primo capolavoro, La via senza gioia, in cui recitava una
giovanissima Greta Garbo e in cui erano presenti molti dei motivi cari al suo
cinema: ovvero la stretta correlazione tra sesso e potere in una vicenda che si
muoveva tra le miserie della Germania di Weimar. Fin dal suo primo successo,
Pabst incorse nelle reti della censura che non gli perdonava il realismo con
cui affrontava tematiche forti e torbide.
Pabst fu considerato il maestro
del movimento cinematografico tedesco che prese il nome di Nuova Oggettività e
che, intorno al 1925, soppiantò l’esasperata e disturbante emotività
dell’Espressionismo, per rivolgersi alla realtà sociale che diveniva oggetto di
analisi e critica (il realismo francese degli anni Trenta e il Neorealismo
italiano degli anni Quaranta saranno debitori di questo movimento
cinematografico). L’ambientazione urbana, i personaggi borghesi, l’attenzione
ai luoghi più malfamati della socialità (i bordelli, i night club, le taverne),
le storie di strada erano diventati oggetto dell’attenzione dei registi di una
intera generazione e Pabst fu il più celebrato di essi, con opere come L’ammaliatrice (1925), Il giglio nelle tenebre (1927) e I misteri di un’anima (1926).
Nell'opera
di Pabst, in particolare, soprattutto nel periodo del sonoro (che si inaugurò nel
1930 con lo splendido manifesto anti militarista di Westfront), la fotografia, senza il concorso dei riflettori, si
avvaleva della luce naturale, le scenografie artificiali erano sostituite dagli
ambienti esistenti, la musica di sottofondo veniva cambiata con una colonna
sonora costituita dai rumori dell'ambiente e dal dialogo degli attori, il
montaggio era ridotto al minimo e sostituito dai movimenti della macchina da
presa.
All’apice del successo, tra il
1928 e il 1929, l’incontro di Pabst con la Brooks produsse due film che sono
entrati nella storia del cinema (Diario
di una donna perduta e Lulù, il vaso
di Pandora).
Louise Brooks, americana, attrice
di commedie dal 1925 e ballerina, frequentatrice del jet set e amante della
vita mondana, abbandonò Hollywood per lavorare con l’austriaco Pabst. Fecero
epoca la sua capigliatura e i suoi modi spigliati, nonché le vicende della sua
vita privata e i personaggi sensuali che portò sullo schermo le valsero una
grande notorietà, ma anche lo sguardo e l’attenzione malevole di censori e
benpensanti. Non nascose la sua bisessualità (si vantò di una relazione con
Greta Garbo), le sue frequentazioni, e non esitò a posare senza veli per
svariati fotografi. Per qualcuno è la prima vera star femminile della storia
del cinema, precedendo le parabole della Dietrich e della Garbo. Crepax si
ispirò a lei per tratteggiare la sua mitica Valentina.
I due film girati con Pabst fanno
della Brooks l’incarnazione della vamp, della donna fatale, sensuale e
provocante, oggetto continuo dello sguardo maschile. Ma mentre in Lulù è lei il diavolo che provoca e
seduce, conducendo alla perdizione e rovinando chi le sta intorno, nel Diario di una donna perduta è lei la
vittima della sua stessa sensualità involontaria ed innocente, troppo
ingombranti per sfuggire al cinismo di una società maschilista, diabolica e
senza scrupoli che sacrificava vittime innocenti sull’altare del successo e di
uno sfrenato edonismo.
Vittima al punto che, vestita alla prima apparizione di
un bianco virginale (il vestito della sua Cresima), simbolo dell’innocenza, finisce dentro un riformatorio
lager in cui Pabst mette in scena situazioni di sadismo che diventeranno
familiari nella diffusione delle immagini legate alle peggiori manifestazioni
del nazismo (è impossibile non andare con la mente ai campi di concentramento,
alle kapò, alle vittime in divisa ed inquadrate). E proprio come prefigurazione
degli orrori del nazismo il film è un documento lucido e penetrante, quasi
profetico nella proposizione di certe logiche di potere e sottomissione. La
morale finale, in questo senso, vale da monito (inascoltato) per quanto sarebbe
avvenuto di lì a poco (“solo la disciplina e niente amore non possono salvare
il mondo”).
Thymian, questo il nome del
personaggio della Brooks, è vittima innocente di un mondo maschilista e senza
scrupoli. La sua sensualità, naturale, quasi involontaria, la conduce ad essere
oggetto di sguardo e di desiderio degli uomini. Che sia avvolta nel bianco
candido della veste della Cresima o nel nero seducente nel bordello (dove Pabst
accentua con toni grotteschi la carica degli sguardi desideranti di uomini e
donne; per non parlare dell’aspirante ballerino che osserva dall’alto della sua
satanica barbetta caprina una Thymian che danza per lui senza apparente malizia),
Thymian non può sfuggire al destino di oggetto, vittima.
Ecco allora che, non
avendo vie alternative, si concede a coloro che la insidiano, ma si concede
solo nel corpo e in questo senso vanno letti i suoi svenimenti tra le braccia
di coloro che stanno per abusare di lei. E’ una donna svenuta, inanime che si
lascia andare tra le braccia del nemico; l'abbandono della coscienza come unico antidoto contro la vergogna e i sensi di colpa.
La costante del denaro ritorna come
motore dell’azione in diverse situazioni del film. In una società degradata il
denaro è l’unico riferimento sicuro, ma Thymian non agisce per denaro e lo
dimostra in almeno due occasioni (la mattina seguente al suo primo rapporto con
un cliente del bordello e nel finale con la cessione della sua eredità alla
governante matrigna). Eppure le sue scelte sono indirettamente legate alla
mercificazione del corpo come unica possibilità di riscatto e dunque rientrano
nella logica del capitalismo più bieco.
Il diario, in contrapposizione a queste
dinamiche, rappresenta una intimità e una interiorità che Thymian non vuole
definitivamente soffocare. La salvaguardia di quell’oggetto, evocato come oggetto simbolo fin dal titolo, è la salvaguardia di un barlume di autonomo amor proprio.
L’assalto
dell’aguzzina del riformatorio a quel diario e la strenua difesa di Thymian, in
quella che si può tranquillamente definire come una battaglia in interni, è
proprio l’estremo tentativo di privare la ragazza dell’ultimo oggetto custode
di una sua singolarità, di una sua esclusività che la possa ancora salvare dalla omologazione imposta
in quel luogo.
Ciò che torna in altri capolavori come Metropolis e Tempi
moderni e che è evidentemente sentimento che accomuna menti geniali e sensibili
come quelle di Lang e Chaplin, a cui si aggiunge quella di Pabst, è una sorta
di monito verso quella società di massa che andava irregimentando un’intera
generazione. Pabst ci offre lo squarcio di un mondo in cui esistono due tipi di
omologazione: una volta al successo e schiava del denaro, l’altra, volta all’obbedienza
e al dovere per il dovere, che sembra preconizzare la nascita di una generazione
di cittadini automi, tutti uguali e pronti al sacrificio (dagli operai automi di Lang a quelli pecora di Chaplin il passo è breve).
Tramite Thymian e la
sua estrema “rivolta” finale, Pabst vuole raccontarci della possibilità di una
alternativa che sia tutta nell’adesione ad un modello di vita volto agli
affetti e ai sentimenti e non alla cieca obbedienza e all’interesse. Il suicidio
del cugino, nobile spiantato, è proprio la sconfitta dell’individuo di fronte ad
un modello dominante che schiaccia un personaggio incapace di uscire dalla
logica dell’interesse e del vuoto arrivismo.
L’amico di Thymian, che piange
vedendola umiliata di fronte al padre ed esclama “Adesso sei veramente una
donna perduta” (ma aggiunge anche, significativamente, "Tutti siamo perduti"), incarna una sorta di entità narrante neutra che ci propone una
lettura morale della vicenda. Il padre di Thymian non è migliore della figlia,
ma la ragazza non ha saputo uscire dalla logica in cui il padre l’aveva
infilata divenendo una vinta e una sconfitta essa stessa.
Le macerie della società di
Weimar e l’approssimarsi della tragedia del nazismo aleggiano sulle immagini di
questo capolavoro che si muove tra la consapevolezza dell’inevitabilità della
tragedia e l’aspirazione ad una alternativa che salvi l’umanità. Il riscatto finale di Thymian va proprio in questa illusoria e fatalmente utopica (per quel tempo) direzione.
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