Alessandro Blasetti (3 luglio 1900, 1 febbraio 1987)
Il matto con gli stivali
Alessandro Blasetti è uno dei più
importanti e sottovalutati registi del cinema italiano. Vissuto a cavallo della
Seconda guerra mondiale, Blasetti fu autore di 34 film, direttore di 8 opere
teatrali e attore in 3 pellicole non sue (ne Una vita difficile, di Dino Risi, interpretava se stesso in azione
a Cinecittà).
A partire dagli anni Venti fu critico cinematografico e fondò la
rivista Cinematografo. Impegnato
nella rinascita del cinema italiano, in crisi a partire dal 1925, Blasetti
fondò una cooperativa di produzione, la Augustus,
con cui, nel 1929, produsse il suo primo lungometraggio dal titolo Sole. Questa pellicola, di cui rimangono
solo frammenti, era, nelle intenzioni, un pamphlet celebrativo delle bonifiche
fasciste.
Intanto un film come Rotaie,
di Mario Camerini, segnò la strada per la ripresa del cinema italiano. Un
aneddoto si racconta a proposito degli anni bui del cinema italiano,
concentrati nel quinquennio 1925 – 1930; i registi D’Ambra e Gallone, sembra
avessero intrapreso una sorta di competizione su chi di loro fosse stato in
grado di realizzare un film nel minor tempo possibile (Gallone ne realizzò uno
in 5 giorni), secondo un motto allora in voga: Non facite arte, facite scarpe.
L’imprenditore Pittalunga, nel
frattempo, diventò proprietario dei teatri di posa Cines e decise di chiamare Blasetti per far ripartire la macchina
organizzativa del cinema (per quanto Blasetti avesse criticato lo stesso
Pittalunga, reo, a suo dire, di aver contribuito alla decadenza del cinema
italiano con prodotti scadenti come i numerosi film dedicati a Maciste).
Il
primo film prodotto da Pittalunga e diretto da Blasetti fu Resurrectio che divenne il primo film italiano sonoro da un punto
di vista produttivo, ma superato poi da La
canzone dell’amore di Gennaro Righelli che lo anticipò nella distribuzione
in sala (l’uscita di Resurrectio
venne posticipata perchè il film era ritenuto poco commerciale). Era il 1930 e
Blasetti entrava nel cuore del cinema italiano con questo melodramma di
disperazione e redenzione che aveva per protagonista un direttore d’orchestra
in crisi (interpretato da Daniele Crespi).
Nello stesso anno Blasetti realizzò Nerone, una sorta di teatro filmato al
servizio dell’istrionismo della star dell’epoca, Ettore Petrolini. Il film
tuttavia non era l’asettica riproduzione di un lavoro teatrale ma si distinse
anche per alcune ardite scelte di regia come un movimento di macchina operato
sopra gli spettatori con la macchina da presa che si muoveva su ruote di camion.
Terra madre, sempre del 1930, fu un
inno al ritorno alla terra in un racconto in cui il contrasto città campagna
vedeva il prevalere di quest’ultima. La storia vede protagonista un duca (dux,
padrone) proprietario terriero, che vive in città, il quale si affeziona ai
suoi contadini e decide di trasferirsi in campagna. Il film fu un gran successo
di pubblico ma, al contrario di Sole,
non incontrò il favore della critica. Blasetti intanto andava affinando la sua
poetica, dichiarandosi un assertore del cinema come spettacolo popolare (sulla
scia anche delle riflessioni dello scrittore Massimo Bontempelli) e il suo
lavoro successivo, Palio, andò
proprio in questa direzione, offrendoci una storia sanguigna tra le contrade
senesi in cui emergeva un contrasto tra popolo e nobiltà.
Intanto il produttore
Pittalunga morì e il suo posto alla direzione della Cines fu preso dal letterato Emilio Cecchi il quale cercò di
imprimere una svolta alla linea produttiva indirizzando gli sforzi verso un
cinema di qualità e d’arte. Blasetti, divenuto nel frattempo docente alla prima
Scuola Nazionale di Cinema e fondatore del Cineclub Italico (che permetteva ai
cineasti di poter vedere i film stranieri in lingua originale e senza censura),
continuò a sfornare film a ritmi piuttosto sostenuti. Nel giro di poco più di
due anni girò infatti Tavola dei poveri
(film metafora su veri e finti poveri), 1860
(un resoconto dell’impresa garibaldina in Sicilia) e poi due altre pellicole di
cassetta, andate perdute, come Il caso
Haller e L’impiegata di papà,
girati entrambi in pochi giorni.
Il 1934 vide l’uscita del film Vecchia guardia con cui Blasetti, all’apice
della sua militanza politica, omaggiò lo squadrismo fascista e lo spirito della
Marcia su Roma. In quell’anno nasceva la Direzione Generale della
Cinematografia, un ente statale che promuoveva investimenti nel cinema,
indicando una linea d’azione che prevedeva la realizzazione di film di pura
evasione, che presero corpo nella serie di pellicole dei cosiddetti “colletti
bianchi”. Proprio la Direzione Generale prese di mira il film di Blasetti che
aveva avuto il torto di rispolverare vecchi scheletri nell’armadio che il
fascismo stava faticosamente cercando di ripulire. Se i cattolici insomma
apprezzarono la pellicola ritenendola adatta per tutti, i militanti del regime
videro riemergere i fantasmi di uno squadrismo che si era voluto riporre nell’armadio
delle cose ingombranti del fascismo. Blasetti, per farsi perdonare, mise in
scena un’opera teatrale dal titolo 18BL
nella quale si esaltava l’anima buona di quella stagione del fascismo,
raccontando una storia ambientata su uno dei camion che portavano i fascisti a
Roma per la marcia del 1922. Il dramma, un kolossal con oltre 2000 comparse, fu
un insuccesso clamoroso ed ebbe un’unica rappresentazione all’aperto a Firenze.
Questo tentativo di redenzione non bastò a Blasetti per riconciliarlo con la
Direzione che decise di affidare il kolossal cinematografico del momento, Scipione l’Africano, a Carmine Gallone,
negando, allo stesso tempo, la possibilità di realizzare un altro progetto, a
cui Blasetti teneva molto e che era l’Ettore
Fieramosca, che realizzerà soltanto alcuni anni dopo (nel 1938) in quanto
era prevista l’uscita di un film analogo come Condottieri di Luis Trenker.
Blasetti si dovette accontentare di
dirigere un film sulla marina in tempo di pace, Aldebaran, e 2 film di evasione, che lui stesso definirà “cretini”,
come La contessa di Parma e Retroscena. Nel 1938, finalmente,
Blasetti realizzò l’Ettore Fieramosca
a cui pensava già da tempo. Nella storia della disfida di Barletta egli volle
cantare un inno all’unificazione italiana e all’eroismo patrio, celebrando
così, anche all’estero, la gloria fascista. Vittorio Mussolini difese a spada
tratta la pellicola dalle critiche, non sempre giustificate, mossegli dalla
stampa italiana con cui Blasetti non ebbe mai un rapporto troppo sereno (in Retroscena Blasetti mise in scena una
beffa ad un critico musicale, evocando le proprie vicissitudini con i critici
cinematografici che lo stroncavano).
Era il 1939, all’approssimarsi della
guerra, dopo le leggi razziali e la svolta fascista verso l’orbita d’influenza tedesca,
entrò in vigore una legge protezionistica verso i nostri prodotti
cinematografici che impediva ai film delle majors americane di essere
importati. Tale provvedimento fece impennare la produzione di film nostrani che
passò da 50 a 100 film nel 1942. In questi tre anni Blasetti realizzò tre film
in costume: L’avventura di Salvator Rosa,
La corona di ferro e La cena delle beffe. La prima pellicola
raccontava delle vicende della Napoli di Masaniello interpretato dall’attore
del momento, Gino Cervi. La corona di
ferro era una fiaba pacifista, con una corona che, nel cuore del Medioevo,
viaggiava da Bisanzio verso Roma e il Papa, con due protagonisti (Luisa Ferida
e Osvaldo Valenti) che salirono all’onore della cronaca anche per la loro
storia d’amore, raccontata recentemente nel film Sanguepazzo.
La cena delle
beffe, forse il suo capolavoro, ambientata nella Firenze del Rinascimento,
passò alla storia per il primo nudo nella storia del cinema italiano (quello
della protagonista femminile Clara Calamai) e per quella atmosfera torbida ed
ambigua che fece gridare allo scandalo la critica cattolica che vi vide,
nemmeno troppo allusivamente, ritratti comportamenti libertini, omosessuali ed
incestuosi (anche ne La corona di ferro
vi erano allusioni, ma più mascherate).
La fine del consenso fascista permise a
Blasetti di muoversi con maggior libertà sganciandosi dalle logiche della glorificazione
virile. Così Gino Cervi, abituato a vestire i panni dell’eroe tragico, finì per
interpretare quelli ben più dimessi di un normale commesso viaggiatore di
dolciumi nel primo film di Blasetti post fascista, Quattro passi tra le nuvole, in cui tornavano i temi della
nostalgia bucolica per la campagna, che il regista già aveva espresso in Terra madre. L’atmosfera era però
cambiata: la guerra aveva lasciato il segno, la speranza si era affievolita e
lo stesso sogno di ritrovare un’Arcadia perduta era lontano dal realizzarsi. Lo
stile del film, specie nelle sequenze iniziali, fu però innovativo, tanto da
influenzare il nascente Neorealismo. Altrettanto cupo fu Nessuno torna indietro, film girato mentre Roma era bombardata e il
fratello di Blasetti moriva al fronte. Fin dal titolo un film dalle atmosfere
funeree. Blasetti non si piegò al compromesso finale del fascismo e non si
trasferì a Salò.
La sua militanza passata fu messa in disparte a guerra finita
quando, in un clima di generale amnistia, egli poté tornare a lavorare,
realizzando tre film per la casa di produzione cattolica Urbis Universalia. Il
primo di questi, Un giorno nella vita,
fu un racconto ancora legato alle vicende della guerra, in cui si narrava di un
gruppo di partigiani che, rifugiatisi dentro un convento, furono scoperti e
raggiunti dai nazisti. L’irruzione della guerra nella pace, il sacrificio delle
suore, ma anche la negazione della necessità della vendetta furono i temi di un
film che sembrò aprire nuove prospettive di speranza. Nell’anno Santo Blasetti
realizzò Fabiola, un kolossal,
costato 700 milioni di Lire, che pur profumando di propaganda liberal – cattolica
si ritagliò spazi di sorprendente libertà creativa (scene di sesso, nudità)
grazie anche all’apporto, in fase di sceneggiatura, di alcuni autori di
ispirazione comunista. L’imponenza delle scene di massa contribuì all’enorme
successo della pellicola.
Prima Comunione
fu il terzo film prodotto dalla Universalia e rappresentò la virata verso la
commedia rosa alla Reneè Clair, la cui leggerezza riconciliò Blasetti con una
visione più serena del mondo. Tra il 1952 e il 1954, Blasetti realizzò due film
a episodi che anticiparono la moda di questo genere di commedie, il cui boom
avverrà negli anni Sessanta. Altri tempi
e Tempi nostri si rivelarono uno
zibaldone di storie tratte da racconti letterari in cui si inaugurò una felice
stagione del divismo made in Italy, con la Lollobrigida mattatrice,
rappresentando un erotismo e una sessualità più solari e spensierati di quelli
esibiti negli anni Trenta e Quaranta.
In Peccato
che sia una canaglia e La fortuna di
essere donna, Blasetti lanciò alcune delle star che avrebbero segnato la
storia a venire del cinema italiano, come Sophia Loren, Marcello Mastroianni e
Vittorio de Sica, raccontando un’Italia che andava cambiando e in cui il ruolo
della donna, sempre più attiva ed intraprendente, andava modificandosi. Nel
1957 scrisse con Zavattini Amore e chiacchiere, un atto di accusa contro l’italiano
medio, fanfarone ed inconcludente. L’intento moralistico tornerà anche nel film
del 1967 Io, io, io...e gli altri,
in un periodo in cui Blasetti aveva iniziato a lavorare anche per la
televisione.
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