mercoledì 8 gennaio 2014

Hugo Cabret

Hugo Cabret


Regia: Martin Scorsese
Titolo originale: Hugo
Paese di produzione: USA
Anno: 2011      Durata: 127 minuti
Soggetto: Brian Selznick    Sceneggiatura: John Logan
Produttore: Martin Scorsese, Johnny Depp, Tim Headington, Graham King
Produttore esecutivo: David Crockett, Barbara De Fina, Christi Dembrowski, Georgia Kacandes, Charles Newirth, Emma Tillinger Koskoff
Casa di produzione:  GK Films, Infinitum Nihil
Fotografia: Robert Richardson   Montaggio: Thelma Schoonmaker
Effetti speciali: Simon Cockren   Musiche: Howard Shore
Scenografia: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo   Costumi: Sandy Powell, Fola Solanke
Interpreti e personaggi:
Asa Butterfield: Hugo Cabret   Chloë Grace Moretz: Isabelle   Ben Kingsley: Georges Méliès   Sacha Baron Cohen: ispettore Gustav   Jude Law: papà di Hugo   Christopher Lee: Monsieur Labisse   Helen McCrory: Mama Jeanne   Michael Stuhlbarg: René Tabard   Marco Aponte: Julien Carette   Emily Mortimer: Lisette   Ray Winstone: zio Claude   Frances de la Tour: Madame Emile   Richard Griffiths: Monsieur Frick   Ben Addis: Salvador Dalì   Robert Gill: James Joyce   Emil Lager: Django Reinhardt   Kevin Eldon: poliziotto

Il mondo è un enorme macchina i cui ingranaggi si intersecano alla perfezione rendendo possibile la vita. 



Sembra un estratto da un testo di Cartesio, ma è in realtà una elementare riflessione che possiamo trarre dalla visione del film Hugo Cabret di Martin Scorsese. E se il mondo è una macchina, anche l'uomo è una macchina che funziona ma che si può inceppare, può venir meno al proprio destino e alla propria funzione per colpa di un meccanismo bloccato, di una rotella fuori posto, di un ingranaggio che si rompe. Così il guardiano, ispettore della stazione, l'apparentemente crudele Gustav (Sacha Baron Cohen) ha una gamba ingabbiata dentro una struttura di metallo e non può camminare come vorrebbe, ha perso autostima in se stesso e ricompensa questa perdita con una crudeltà e una rabbia verso il prossimo che probabilmente non gli appartengono (nel film si cita David Copperfield e da una pagina di Dickens sembra uscire questa figura malvagia, questo moderno cacciatore di orfani). 


Parigi è parte di questo grande meccanismo, è stata per un certo periodo il cuore pulsante del mondo e Scorsese si immerge in quel groviglio di strade ed opere d'arte per arrivare alla stazione centrale luogo simbolo di quel mondo. Qui vive nascosto un bambino che osserva la realtà tra i pertugi di altre macchine, gli enormi orologi della stazione, che nascostamente cura e controlla. Ha uno sguardo curioso e vivo verso il mondo, vede svolgersi di fronte a sè le piccole commedie quotidiane, i corteggiamenti, gli amori che nascono, le piccole storie che una mente fanciulla come la sua potrebbe romanzare o immaginare su pellicola.



Hugo Cabret, questo è il suo nome, è un piccolo Scorsese che "guarda il mondo da un oblò", che ha talento per le macchine e vorrebbe vederle funzionare alla perfezione anche in ossequio ad un comandamento che indirettamente ha ricevuto da suo padre. Nel romanzo, una sorta di splendida graphic novel, di Brian Selznick, Hugo è involontario colpevole della morte del padre e il senso di colpa lo pervade ossessionandolo. Nel film non v'è traccia di questo pesante fardello, il padre muore in un incendio non meglio specificato, l'automa che Cabret si trova a dover riparare è il lascito del padre e il suo funzionamento è la ragione di vita di Hugo, la chiave per dare un senso compiuto all'esistenza del padre ed idealmente proseguirla. 



Hugo, nel suo peregrinare tra ingranaggi di ogni tipo, punta un piccolo chiosco di giocattoli posto nella parte meno vitale della stazione, quella meno affollata, contraltare della rutilante e chiassosa zona centrale. A gestirlo è un vecchio signore che sembra ricercare quella solitudine. Altri meccanismi animano quel chiosco: sono piccoli animali meccanici (un topolino), bambole e giochi per bambini frutto di elementari combinazioni di ingranaggi che Hugo sa padroneggiare con abilità.



La stazione parigina dei treni (Parigi luogo simbolo della nascita del cinema nel 1895; fra l'altro l'incidente del treno che Hugo sogna è avvenuto veramente nell'ottobre proprio del 1895), gli orologi che segnano il tempo, gli ingranaggi, un automa che inventa segni e disegni, immagini, un bambino che osserva, registra nella mente, sogna e vuole dare vita o mantenere in vita quei marchingegni che lo circondano, un vecchio che custodisce un segreto in mezzo a giochi e ninnoli che sembrano stridere con la sua vetusta ed inerme volontà. Scorsese crea un "meccanismo" che diventa una enorme metafora del cinema (lui stesso ad un certo punto compare come fotografo di Melies).


Il cinema è una macchina (e lo studioso Tabard conduce i bambini in un piccolo museo di macchine del cinema e del pre-cinema), creata dai Lumiere a Parigi nel 1895,


ma è una macchina che produce sogni (o ricordi, come nel caso del flashback di Hugo che ripercorre le vicende legate a suo padre illuminato ad intermittenza come se fosse la luce di un proiettore a pervaderlo) a patto di animarla con il cuore (la chiave che anima l'automa è a forma di cuore)


e di viverla con l'entusiasmo di un ragazzino (lo spirito creativo del fanciullino) che vuole emozionarsi al cinema e "vivere avventure" come dice Hugo ad Isabel quando la conduce di nascosto a vedere un film di Harold Lloyd (Preferisco l'ascensore). 



Melies è stato colui che ha creato il cinema come arte del sogno, ha inaugurato il filone fantastico della settima arte, opponendosi al realismo dei Lumiere alla cui proiezione del 28 dicembre 1895 assiste veramente. 


Il suo Viaggio sulla Luna è il primo capolavoro fantastico della storia del cinema, è il prosecutore ideale della letteratura di Jules Verne (che Hugo ammette è l'unico autore letterario che ha letto), incarna un'idea di cinema come macchina della magia e del sogno che Scorsese condivide e vuole omaggiare. Ma la macchina cinema ha bisogno di un animo infantile che la tenga in vita, c'è bisogno dello sguardo ingenuo e puro di Hugo per ridare vita alla magia di un mondo come quello di Melies, la chiave del cuore la riceve da un'altra ragazzina, altrettanto ingenua e sognatrice, ideale grimaldello per riaprire il polveroso cassetto pieno di fantasia custodito nella casa di Melies. 


E questa dimensione fantastica è figlia di una tradizione custodita nelle biblioteche (il cinema figlio del romanzo e la biblioteca è custodita da un mostra sacro del cinema come Cristopher Lee che ad un certo punto guarda Hugo-Martin con un'aria minacciosa, quasi un omaggio alla sua icona di attore che incarnava personaggi spaventosi ed orrorifici come Dracula),


ma anche nell'arte e nella pittura in particolare (diversi sono i quadri che compaiono in bella vista ad ogni angolo della stazione e da un simil Adamo michelangiolesco prende vita la prima proiezione di sequenze tratte da grandi film del cinema muto; è in realtà Prometeo che ruba il fuoco agli dei per dare vita al cinema con il suo fascio di luce che proietta le immagini sullo schermo, e significativamente è Hugo a vedere con la forza dell'immaginazione questo collegamento tra il mito e il cinema; come del resto non potrà che essere Hugo a rivivere nella realtà l'avventura dell'uomo appeso all'orologio vista nel film di Harold Lloyd con quella capacità di totale immedesimazione che solo i bambini possono avere nei confronti degli eroi del grande schermo). 





Il cinema insomma figlio del mito, dell'arte, della letteratura, ma soprattutto figlio di una modernità tecnologica che Scorsese omaggia, ricordandoci che dietro le meraviglie di questa tecnologia (ancora più meravigliosa nei suoi nuovi ed illimitati confini del millennio che viviamo) è necessario tenere in vita un cuore che non permetta alle macchine di soffocare la magia.


Lo squarcio aperto dalla guerra, in particolare dalla Prima Guerra Mondiale, è una ferita che lo società di massa ha inferto a se stessa dilaniando con altre macchine le macchine buona che l'uomo ha saputo creare. Melies abbandona il suo mondo proprio a causa della Guerra che ponendo gli uomini di fronte a troppa realtà, crudele e disumana, ha tolto agli uomini stessi la voglia e l'ingenuità di credere ai sogni che lui stesso contribuiva a creare. 


Con la celluloide delle pellicole ora si producevano tacchi da scarpe, il cinema trasmetteva crude immagini di uomini in marcia, i corpi erano dilaniati (come quello di Gustave), i fuochi d'artificio erano divenuti fuochi letali. 






Scorsese, come già ne L'età dell'innocenza, torna alla Belle Epoque precedente la guerra, come ad una età infantile del mondo (l'età in cui vedere la sequenza di un treno avvicinarsi ad una stazione e indirettamente alla platea poteva indurre la paura che lo stesso fuoriuscisse dallo schermo, aneddoto di una proiezione dei Lumiere citato anche in un film di Fantozzi), 


un'età ancora in grado di stupirsi e meravigliarsi (anche in Hugo Cabret vi è, come nel film tratto dal romanzo della Wharton, una scena che rievoca l'idea di una società di massa indifferente ed indaffarata che si muove compatta e terribilmente potente, in questo caso investendo i poveri bambini abbandonati a se stessi). Le ferite della guerra mondiale aprono scenari di angoscia e dolore fino ad allora inimmaginati e una certa magia sembra essersi persa come in un mondo perduto che è soltanto possibile rievocare e mantenere in vita con omaggi occasionali e nostalgici (Hugo conduce Isabel al cinema dove è in corso un festival di film dell'epoca del muto). 


E' questo il controcanto malinconico dell'operazione Cabret, specie quella cinematografica di Scorsese. Dietro l'apparente happy end (solo nei film c'è l'happy end ci ricorda proprio Melies, quasi fosse una regola cui dover obbedire ma anche soltanto come atto formale e dunque meramente apparente) si nasconde una amara consapevolezza che l'umanità ha perso la sua innocenza, il suo spirito di meraviglia che rimangono fenomeni da baraccone, curiosità antiquarie da far sopravvivere con la consapevolezza che uno sguardo puro e genuino non sarà più possibile 




(lo stesso Hugo col suo sguardo bambino ha alle spalle la morte del padre, la scomparsa della madre, quella dello zio e il suo cammino verso la nuova casa di Melies è irto di incubi e minacce materializzate da quel cimitero di statue ectoplasmatiche che deve attraversare ogni volta che vuole giungere a casa del vecchio regista). 


Del resto l'automa è, per buona parte del film, una sorta di fantasma (in alcuni momenti con tanto di lenzuolo che lo copre) e nella inquadratura finale ci guarda e vorremmo che ci parlasse, ci strizzasse un occhio, ci aprisse nuovi orizzonti di fantasia, ma resta irrimediabilmente immobile, fissandoci col suo sguardo che esprime, ora più che mai, tutta la sua inestricabile artificiosità. Siamo disposti a credere che si muoverà? Scorsese lascia a noi il compito di interrogarci.


Un'altra interessante lettura del film potrebbe venirci dalla figura del padre di Hugo, interpretato da Jude Law che già avevamo conosciuto come Lucignolo in A.I. di Spielberg. Anche nel film di Spielberg di parlava di automi e Jude Law era il compagno birichino del novello Pinocchio. Hugo è la riproposizione di quel mito. Novello Pinocchio, col suo doppio meccanico che è l'automa, prodotto dal padre Geppetto, 



rimane solo ad avere a che fare con il mondo e si trova chiuso in una nuova balena, il ventre di Parigi, la pancia degli orologi (significativo che il titolo arrivi dopo un movimento di macchina, e 13 minuti di film, che isola Hugo dentro un enorme orologio, accentuandone la solitudine e l'isolamento) 


alla ricerca del padre perduto che ritrova dentro la balena stessa attraverso il meccanismo dell'automa che riesce a far ripartire. L'aver parlato col padre, l'averne interiorizzato il messaggio è il viatico indispensabile per l'avventura verso l'età adulta e l'emancipazione definitiva dagli adulti. Quella finale inquadratura dell'automa immobile sarebbe la consacrazione della definitiva separazione dal doppio burattino-manichino che tale rimane di fronte ad un Hugo-Pinocchio che può prendere il volo dell'esistenza.