Un film di Mario Martone
Con Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Anna Mouglalis, Valerio Binasco
Genere: biografico; durata 137 min. - Italia 2014 - 01 Distribution
“E' stato soltanto a causa della viltà degli uomini, che hanno
bisogno di essere persuasi del valore dell'esistenza, che si è
voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato
delle mie personali sofferenze e ci si ostina ad attribuire alle
circostanze materiali della mia vita ciò che si deve soltanto al mio
pensiero. Prima di morire voglio protestare contro questa invenzione
della debolezza e della volgarità e pregare i miei lettori di
applicarsi e distruggere le mie osservazioni e i miei ragionamenti
piuttosto che accusare le mie malattie”
Lettera di Giacomo
Leopardi a Louis de Sinner, 24 maggio 1832
Con il suo film,
Il giovane favoloso, presentato in concorso alla mostra di Venezia del 2014,
Mario Martone ha avuto il coraggio di confrontarsi con una icona
della nostra cultura, un personaggio che ogni italiano sente
intimamente vicino, non foss'altro per la comune fatica di doverlo
studiare sui banchi delle scuole di grado superiore. La parsimonia,
per non dire la diffidenza con cui il cinema italiano aveva aggirato
l'ostacolo di una tale sfida, la dice lunga sulla complessità
dell'operazione. Martone si è preso l'onere di affrontare il
“moloch” inserendolo in un momento del suo percorso personale che
lo aveva visto affrontare le Operette Morali a teatro e il
Risorgimento italiano nel suo precedente film Noi credevamo (vedi lettura in questo blog).
Le vicende di Leopardi insomma non sono estratte dal cilindro in modo
estemporaneo ma trovano una loro precisa collocazione nel mondo del
regista napoletano.
In Noi credevamo
lo sguardo sull'Italia del primo Ottocento era occasione per una
riflessione su quella presente con il ricorso a delle scenografie
talvolta anacronistiche che stavano lì a ricordarcelo. Era uno
sguardo collettivo, un percorso corale a più voci che raccontava le
difficoltà, gli idealismi traditi e le ipocrisie che si celavano
dietro il movimento risorgimentale italiano.
Il Giovane Favoloso è
il controcanto esistenziale di quella visione, è lo sguardo
individuale e tragico che racconta le sofferenze personali di un
personaggio simbolo che gira la stessa Italia, che in quegli anni
preparava l'insurrezione, con lo sguardo di un bambino smarrito, di
un poeta sensibile ed amaramente pessimista.
Gli sguardi collettivi
che rasentano l'oggettività sono qui sostituiti da una visione
profondamente soggettiva, intrisa di sogni, allucinazioni, visioni
frutto della fantasia e dell'intelletto del protagonista. Recanati,
Firenze, Roma, Napoli sono i luoghi che Giacomo attraversa e
rappresentano l'Italia quanto la Firenze, la Palermo e la Torino di
Noi credevamo. Nel percorso storico politico del film
precedente squarci di scenografie temporalmente non plausibili,
composte da scale metalliche e da piloni in cemento armato ci
legavano al presente (soprattutto politico) a doppio nodo; in questo
percorso leopardiano è la musica che ci restituisce sonorità
contemporanee e, per certi versi, stranianti rispetto al contesto. E
l'Italia ritorna, pur sullo sfondo, nelle sue variegate anime: dal
salotto Viesseux, angusto, ipocrita, miope, alla dimora dello zio, il
marchese Antici, romano con le attese di ruffiani, monsignori e varia
umanità in cerca di aiuto, fino alla Napoli della Natura (come la
definisce Leopardi), la Napoli dei vicoli, del colera e dei caffè,
del popolo e dei lupanari; il tutto introdotto dal mondo della
provincia, da quella Recanati troppo angusta e retrograda per un
animo evoluto come quello di Giacomo, immobile nel suo oscurantismo
papalino, sonnolenta e anonima.
Leopardi, chiuso come in prigione
esce dunque “dal natio borgo selvaggio” nella speranza di trovare
quei conforti almeno intellettuali che l'amicizia del Giordani gli
aveva fatto prefigurare. Il confronto provincia – metropoli non
regala alcuna consolazione al giovane favoloso ma diventa un
necessario percorso di formazione personale per chiudere il cerchio
della sua inesausta riflessione sulla vita. La chiusa de La
ginestra, insomma, attesta la conclusione di un percorso di presa
di coscienza che doveva necessariamente passare per il confronto con
la realtà altra, incarnata nei luoghi simbolo della italianità.
La presa di coscienza è
essenzialmente intima e interiore, non politica nel senso più comune
del termine, non storica né sociale (almeno nell'immagine che ci
restituisce Martone, ma ben sappiamo che anche di spirto civile fu
carica l'esperienza letteraria del poeta; e un accenno di questo lo
abbiamo in uno dei dialoghi tra Giacomo e il Giordani in cui il poeta
afferma: <Non mi parli di Recanati. M'è tanto cara da
somministrarmi idee per un trattato dell'Odio per la patria. La mia
patria è l'Italia, la sua lingua, la sua letteratura...>).
Leopardi, agli occhi del
regista, è, essenzialmente, un fanciullo che vuole crescere per
provare la vita, per assaporarla, per sentirla sulla pelle; le sbarre
del cancello di casa a Recanati su cui simbolicamente si vuole
trafiggere sono per Giacomo, come la celeberrima siepe, i limiti che
gli impediscono “il guardo”, sono le barriere che gli impediscono
questo viaggio nella vita.
Perciò l'abbandono della casa natale è
necessario, è doloroso ed insistito (dalle prove di fuga alle
ricorrenti lettere di sfogo al Giordani che alludono al desiderio di
andare, di partire) e conduce ad un girovagare senza una meta
definitiva altro che non il simbolico nido finale da cui abbandonare
l'esistenza. Questo luogo non poteva che essere come un ritrovato
grembo materno cui il ventre caldo di Napoli, e il Vesuvio in
ispecie, offrono un'immagine potente ed allusiva. Leopardi, in una
ritrovata posizione fetale, è pronto ad esserne inghiottito come
approdo terminale di un processo regressivo che il film in qualche
modo ha raccontato.
Se pensiamo alla
splendida immagine iniziale del racconto, a quei bambini che escono
dalla nebbia e che corrono gioiosi, non può non sovvenirci un
sussulto di sorpresa. Tra quei bambini gioiosi ed atletici c'è anche
il rachitico Giacomo, immaginato stretto nel suo paltò e chinato
sulle sudate carte. E' l'immagine di una felicità infantile, certo
non solare, che in qualche modo Giacomo ha provato, ha gustato e ha
condiviso con i due fratelli a lui più vicini anagraficamente.
Questa piccola comunità dentro la famiglia (Giacomo, Carlo e
Paolina) rappresenta l'essenza della felicità leopardiana, lo
squarcio di luce in una vita di sofferenza e quando, giocoforza, il
poeta dovrà abbandonarla ecco che nel racconto di Martone sembra che
Giacomo vada cercando una sua possibile ricomposizione che ritrova
nel nucleo che si ricrea a Napoli con Ranieri e Paolina (nomen est
omen!).
Ecco allora dispiegarsi il nucleo centrale della riflessione
di Martone. Giacomo ha conosciuto la felicità e l'ha
inequivocabilmente associata ai lieti anni della fanciullezza; il
desiderio di vita e di conoscere il mondo lo hanno spinto lontano dal
nido di origine, ai margini del pulsare più sensuale dell'esistenza
stessa, fino alle soglie di un vero e proprio inferno che è la
suburra napoletana, nella scena del lupanare.
Il corpo che va
contraendosi in una torsione permanente sembra portarlo verso la
direzione opposta della chiusura in se stesso, ma la vita lo richiama
continuamente. Fin dalla apparizione di Teresa/Silvia, Giacomo
conduce come una personale esplorazione del mondo (il suo sostare
perenne di fronte alla finestra è doppiamente emblematico), che
passa attraverso le fughe con il Giordani, la conoscenza di Ranieri e
del suo mondo edonistico e frivolo, l'attrazione per le donne fatali,
come Fanny, e quella ambigua del giovane giocatore di pallone
napoletano (e la mente non può non andare all'attrazione di von
Ashenbach per Tadzio in Morte a Venezia), premessa della
discesa alla più carnale delle seduzioni impersonata
dall'ermafrodito del lupanare (che per una trama ordita, in buona
fede, dall'amico Ranieri, ripete a Giacomo beffardamente in greco,
s'agapò, come se dovesse rivolgersi al filologo e all'intellettuale
e non all'uomo di carne e sensi pulsanti).
Ogni sussulto della carne
è foriero di una inevitabile delusione; come in un inesorabile
pendolo schopenhaueriano la vita di Giacomo corre verso il desiderio
e rimane inesorabilmente frustrata e sconfitta (senza dunque nemmeno
la consolazione della noia per il desiderio appagato, evocata dal
filosofo tedesco). La carne sempre più contorta di Giacomo è
l'immagine di questa putrefazione dei sensi; la regressione
all'infanzia diventa strumento di difesa necessario per salvarsi
dalle delusioni dell'esistenza.
Così Giacomo nella parte
conclusiva della sua esperienza napoletana torna a mostrare quei
comportamenti pseudo infantili che avevano caratterizzato la sua
permanenza a Recanati. Se là egli era incapace di utilizzare un
coltello da tavola, di orinare in modo autonomo, se lo stesso Monaldo
con lui si comportava come un padre avrebbe fatto con un bambino
piccolo (pensiamo al tentativo di fuga in carrozza in cui Monaldo
scopre il figlio fuggente e lo guarda, illuminato da una torva luce
rossastra, come fosse Mangiafoco che striglia Pinocchio; e pensiamo
al successivo castigo con Giacomo seduto su una sedia al centro di
una stanza dove si è inscenata una improvvisata inquisizione alla
presenza di padre e zio);
a Napoli Giacomo torna a fare il bambino
disubbidiente che mangia il gelato nonostante le proibizioni del
medico, che si fa prendere in braccio da Ranieri per essere portato a
letto, fa le bizze per non cambiarsi la biancheria, si fa coccolare
da Paolina che trascrive i suoi lavori e poi assiste, da una sorta di
culla personale, al sublime spettacolo dell'eruzione del Vesuvio con
cui si conclude di fatto la parabola narrativa del film.
Ma gli stessi amori che
Giacomo coltiva platonicamente stentano ad uscire da una dimensione
poco più che adolescenziale (pensiamo all'ingenuo sogno del
guerriero Leopardi, in armatura cinquecentesca, che lotta e vince la
guerriera Fanny).
L'incontro con
Teresa/Silvia, vista e rimirata dalla finestra della biblioteca
paterna, conduce Giacomo ad un primo confronto con l'ideale
vagheggiato e bastano due brevissime battute della giovane ragazza
per comprendere l'abisso di sensibilità e di condizione sociale che
divideva i due ragazzi. La contadina semplice e un po' sfrontata di
fronte al giovane nobile erudito, scopre con una sola battuta
l'abisso che li separa e certifica la dimensione puramente ideale
dell'amore di Giacomo per lei.
Lo stesso amore per
Fanny, in apparenza più maturo, è in realtà sospeso nella
speranza, tutta di Giacomo, che la nobildonna sappia cogliere e
vedere in lui l'anima bella (romanticamente parlando), il genio
sublime, il sensibile uomo di lettere e poesia; così la scoperta
della statua di Psiche, nel salotto fiorentino (che amava senza
vedere, come spiega Giordani)
configura questa speranza che non si
materializza e che, in una sorta di contrappasso, evapora proprio
quando, dopo la breve illusione anche di un menage a trois (vedi la
scena del gioco della mosca cieca, presa di petto da Jules e Jim,
in cui Fanny è veramente per un lungo attimo la Psiche che non vede,
perchè bendata, e che poi si ritrae, quasi disgustata, al toccare la
gobba del malcapitato poeta) lo sguardo di Giacomo si posa su ciò
che non dovrebbe vedere, l'abbraccio passionale tra Fanny e Ranieri.
Proprio come Psiche l'amore di Giacomo sfuma quando la realtà fa la
sua intrusione ed illumina l'amata per quello che è.
Giacomo osserva e
registra il mondo ma ne è inesorabilmente escluso. Nessuna Psiche è
pronta ad amarlo senza “vedere”.
Così la regressione
finale è tutta in quel corpo che lentamente si attorciglia su se
stesso, si contorce e ripiega nella vana speranza che un simulacro
del nido d'origine, ricreato a Napoli con i fratelli Ranieri, possa
ricondurlo a toccare vaghe stelle di felicità perduta nell'infanzia.
In questo senso il film
dissemina il percorso di citazioni e declamazioni poetiche che
confermano questa visione tematica forte.
Per tutti vogliamo citare
le parole che accompagnano l'ultima sequenza di Recanati, in cui
Giacomo rivede se stesso bambino che gioca con i fratelli:
Dato che l'andamento e le
usanze, e gli avvenimenti,
e i luoghi di questa mia
vita sono ancora infantili, io tengo
afferrati con ambo le
mani questi ultimi avanzi e queste
ombre di quel benedetto e
beato tempo in cui sperava
e sognava la felicità, e
sperando e sognando la godeva,
ed è passato né tornerà
mai più, certo mai più, vedendo
con eccessivo terrore che
insieme con la fanciullezza è finito
il mondo, e la vita per
me, e per tutti quelli che pensano
e sentono. Sicchè non
vivono fino alla morte, se non quei
molti che restano
fanciulli tutta la vita.
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