Titolo originale: Bowling for Columbine
Regia: Michael Moore
Genere: Documentario
Durata: 110'
Produzione: Stati Uniti 2002
Bowling for Columbine è il quarto
lungometraggio di Michael Moore, realizzato nel 2002 ed è il documentario che
ha consacrato il regista a livello internazionale grazie anche al
riconoscimento ottenuto al festival di Cannes che gli farà da trampolino per il
riconoscimento dell’Oscar come miglior documentario del 2003. Moore stava
pensando a questo film già da diversi anni ma l’occasione propizia, anche
produttivamente, non sembrava arrivare. I fatti dell’11 settembre 2001 hanno
dato una decisiva accelerazione alle intenzioni di Moore e gli hanno permesso
di mettere il dito in una delle piaghe del suo paese. Moore ha un passato da
giornalista e a partire dal 1989 si dedica anima e corpo alla produzione
cinematografica nella forma del documentario in Roger e me e nella forma della commedia fanta politica in Canadian Bacon, in cui immagina un
possibile conflitto tra USA e Canada, alimentato dalla aggressività della politica
americana pronta a trovare nemici ovunque, anche, per assurdo, nel pacifico
vicino di casa.
Tra il 1997 e il 2000 Moore lavora anche per la televisione
producendo due serie televisive, Tv
Nation e The Awful Truth, che
mescolano l’inchiesta televisiva, alla satira e alla classica fiction. Gli
episodi di queste due serie affrontano tematiche di carattere sociale e
problematiche urgenti del mondo americano, dal razzismo, al potere delle
lobbies, dalla prepotenza delle logiche capitalistiche all’ossessione per le
armi.
Proprio quest’ultimo tema, già presente nell’episodio Gun Night di Tv Nation, ritorna e viene sviluppato ed ampliato nel documentario Bowling a Columbine che della strage
alla scuola del titolo (Columbine, appunto, nella città di Littleton) fa il
punto di partenza della propria riflessione.
Quello che Moore vuole proporre
però è qualcosa di più di un semplice instant movie partorito sull’onda
emozionale dei fatti di Littleton. Come egli stesso precisa, Bowling a Columbine vuole essere un film
sulla psiche e l’etica americana. Gli eventi degli ultimi mesi hanno reso
nuovamente attuale il lavoro di Moore che a distanza di 15 anni è ancora un
valido strumento di comprensione di certe dinamiche della società americana. Il
documentario è un saggio cinematografico in cui Moore procede secondo gli
schemi dell’inchiesta per poi lanciare delle frecciate avvelenate verso quelli
che ritiene, più o meno velatamente, i colpevoli di un clima di odio e paura
che attanaglia il suo paese.
Uno dei testi di riferimento di Moore è il libro The culture of fear (il cui autore,
Barry Glassner viene non a caso intervistato) che già dal titolo evidenzia uno
dei caratteri dominanti della cultura americana e che Moore mirabilmente
sintetizza nel cartone animato di metà documentario. Fin dagli scontri con i
nativi, passando per la guerra civile e arrivando ai recenti conflitti in Corea
e Vietnam, la politica americana si è nutrita dell’idea che esista un nemico,
una forza che incarna il Male, da combattere e questa perenne condizione di
difesa è stata trasportata anche nella vita interna producendo un diffuso
sentimento di diffidenza specie verso le etnie minoritarie.
Crollato il muro di
Berlino, insomma, e individuato nel mondo musulmano il nuovo tremendo nemico
esterno, paiono essersi rivoltate verso l’interno le paure del cittadino
americano che ha tramutato questa diffidenza in una vera e propria ossessione.
Il proliferare delle armi “da casa” non basta a giustificare il clima di
violenza che attraversa la società statunitense. Il confronto con il vicino
Canada è emblematico: anche in questo paese proliferano le armi private, la
caccia è lo sport nazionale, si vendono milioni di pistole e fucili, ma il
tasso di omicidi è infinitamente più basso rispetto agli Stati Uniti.
Moore
vede in atto una strategia complessa che ha radici politiche ma ragioni
economiche. Le grandi Lobbies delle armi (la visita alla Lockhead è
emblematica) hanno tutto l’interesse ad alimentare questa cultura della paura,
aiutate da un sistema politico che soffia sul fuoco e da un sistema
giornalistico colluso e pronto al sostegno. Così il cittadino americano è
bombardato di notizie cariche di violenza, che confermano l’idea che gli USA
siano un paese instabile ed insicuro.
Vi sono trasmissioni televisive, serie
come Cops di cui Moore parla nel documentario, che mostrano periferie americane
in mano a bande di delinquenti quasi sempre di colore, che alludono all’idea
che la difesa e financo la vendetta, anche privata, siano legittime. La visita
ai sobborghi di Los Angeles serve a Moore per sottolineare come la violenza sia
talvolta enfatizzata dai media anche in situazioni che vedono un effettivo
decremento degli atti di violenza e come le minoranze etniche siano investite di colpe che accentuano le paura del cittadino medio nei loro confronti. Da ex giornalista, Moore si indigna, sempre
in modo ironico, per la mistificazione e la falsificazione dell’informazione
votata a creare un clima di tensione piuttosto che offrire un sereno quadro
delle vicende contemporanee.
Lui stesso nei suoi documentari insegue un modello
di giornalismo, di tipo civile, che sia costruttivo e votato alla costruzione
di uno spirito di cittadinanza più solidale ed aperto. I suoi documentari
finiscono sempre con il rivolgersi al pubblico affinché tragga da tali opere lo
stimolo per una azione civile ed un effettivo cambiamento della società. Le sue
insomma, non sono semplici radiografie di una situazione, ma hanno la forza
morale di chi ancora crede che sia possibile cambiare le cose (per quanto in
Capitalism a love story, nel finale, Moore si lasci andare ad una affermazione
di stanchezza che è però stata contraddetta dai successivi lavori che hanno
continuato a scavare nei difetti della società americana. Uno degli ultimi suoi
lavori è, ad esempio, Where to invade
next, del 2015, ancora una satira graffiante contro il militarismo del suo
paese).
Lo stile del documentario di Moore è ormai come un marchio di fabbrica:
le interviste sono contrappuntate da inserti di repertorio o parentesi create
dallo stesso autore che come un giornalista d’assalto fa irruzione nei luoghi
più disparati per portare la sua dirompente e dissacrante ironia (dai
supermercati, alle aziende di armi, dalle scuole fino al tempio privato di
Charlton Heston), il tutto volutamente partigiano e votato ad un’idea che è in
antitesi con i poteri forti del suo paese (Moore per lungo tempo è stato una
vera e propria icona dei movimenti anti Bush).
L’uso della musica è
caratterizzato non solo dalla enfatizzazione drammatica degli eventi (Moore
vuole la partecipazione emotiva degli spettatori e così carica di tensione o
drammaticità i momenti più forti dei suoi documentari) ma anche dal
contrappunto ironico: basti pensare alle immagini di violenza accompagnate
dalla canzone What a wonderful world,
ma anche dalla musica di Beethoven, riadattata in stile Arancia Meccanica (film di riferimento per la sua riflessione sulla
violenza) mentre vediamo dei giovani giocare a bowling.
A questo proposito, il
titolo del documentario è già di per sé provocatorio: da una parte le palle del
bowling che colpiscono i birilli richiamano in modo grottesco i giovani caduti
per mano di coetanei che prima della strage nella scuola erano andati a giocare
a bowling; ma Moore ci suggerisce anche come il bowling potrebbe essere la
ragione scatenante di quella violenza, visto appunto che i killer erano soliti
giocarci; ma questa non è nient’altro che una provocazione.
Il bowling, come le
canzoni di Marilyn Manson (intervistato, offre di sé un’immagine che è una
contraddizione vivente: look aggressivo e satanico, ragionamenti distensivi
carichi di buon senso) e i videogiochi violenti sono ragioni superficiali
(inesistenti come nel caso del bowling) che nascondono i veri motivi che sono
alla base dell’escalation di violenza privata che attraversa gli USA.
Non per
nulla il film si apre sui bombardamenti in Kossovo avvenuti la stessa mattina
della strage e Moore, con noi, si chiede se veramente Marilyn Manson abbia più
colpa di Clinton nel generare nei giovani gli istinti più brutali e violenti.
Le fabbriche di armi nella periferia della città, i genitori di alcuni dei
killer che sono soldati o ex soldati ci lasciano intendere che da una nazione
militarizzata e in perenne stato di guerra non c’è da aspettarsi molto di
diverso.
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