Incontri ravvicinati del terzo tipo
Titolo originale: Close Encounters of the Third Kind
USA 1977
Regia: Steven Spielberg
Genere: Fantascienza
Durata: 138'
Interpreti: Richard Dreyfuss, Francois Truffaut, Teri Garr, Melinda Dillon, Bob Balaban, Robert Blossom
Una luce abbacinante
interrompe l'overture musicale sul nero, noi spettatori siamo
chiamati ad adeguare il nostro sguardo alla nuova luce, alla nuova
visione che il regista ci propone. E' un invito a guardare verso la
luce, come faranno spesso i personaggi del film e quindi un invito a noi
spettatori a vivere l'esperienza del film secondo il medesimo punto
di vista dei personaggi (in particolare dei protagonisti Roy e
Lacombe).
Deserto di Sonora, luogo al confine con il Messico, luogo
che è battuto dal vento ed impedisce una chiara visione delle cose;
qui si incontrano uomini di diverse lingue, una piccola Babele nella
quale è difficile comunicare; si parla francese, inglese, spagnolo e
si ritrovano aerei americani della Seconda Guerra Mondiale (questi
aerei riprendono vita, come in un film e Spielberg farà vari film in
cui compariranno e riprenderanno vita gli aerei della Seconda Guerra
Mondiale: L’impero del sole, 1942 Attacco ad Hollywood, Salvate il
soldato Ryan).
Siamo dunque in un luogo senza tempo, fuori dallo
spazio e uno degli uomini, colui che sembra avere il polso della
situazione, il signor Lacombe, alias Francois Truffaut, interroga un
testimone e sorride prima ancora che questi possa parlare: vede in
lui qualcosa, qualcosa che lo rende raggiante. Una luce è scesa
nella notte e ha cantato per lui. Su questa luce possiamo fare le
più disparate supposizioni simboliche: l’ispirazione, il sogno, la
fantasia, Peter Pan. Che Truffaut, il regista, l’alter ego di
Spielberg, capisca senza bisogno di traduzione ciò che ha visto
quell’uomo è un indizio importante.
Centro di controllo di
Indianapolis; questo è il luogo della tecnologia, delle macchine che
visualizzano il traffico, che lo registrano, che guidano i vettori
nella giusta direzione. In questo luogo l’apparizione di strane
luci non viene codificata, non trova una spiegazione razionale e
dunque non è degna di essere relazionata (i piloti non vogliono fare
rapporto su quanto hanno visto o intravisto). Al disordine naturale
del deserto risponde la notturna atmosfera di un centro di controllo
in cui i meccanismi di riconoscimento vanno in tilt, si fermano.
Difficoltà di comunicare nel deserto (le diverse lingue), difficoltà
di riconoscere i segni nel centro aereonautico. Agli uni sembrano
mancare gli strumenti, agli altri la capacità di decodificare i segni che arrivano da una nuova dimensione.
Un terzo luogo appare
all’orizzonte. Una casa, un luogo privato immerso nella notte. Un
bambino che dorme ed improvvisamente si sveglia e come in un sogno
vede muoversi i giocattoli intorno a lui. Ha lo sguardo divertito
pieno di meraviglia che solo un bambino può possedere ancora
intatto.
In questo inizio c’è
già il seme della grande metafora del film: Una mente creativa ed
illuminata (il regista, Truffaut), la tecnologia (l’equipe, il cast, il
gruppo di lavoro) e uno sguardo puro, uno sguardo bambino (quello
dello spettatore, ma anche dell'autore, di Spielberg stesso, che è letteralmente rimasto bruciato da quella
visione che si apre di fronte a lui) in grado di cogliere la magia
del messaggio: ecco in sintesi la più grande metafora del cinema sul
cinema, della meraviglia che la fantasia crea di fronte a coloro che
vogliono credere e che Spielberg sta mettendo in scena.
A
chiudere questa introduzione compare Roy, il protagonista, un uomo
che ama giocare con i trenini, che non ha voglia di risolvere i
problemi matematici del figlio, che invita tutta la famiglia ad
andare al cinema a vedere Pinocchio (Un film che aiuta a crescere)
e permette al figlio di vedere I dieci comandamenti in tv
(sta passando proprio la sequenza del passaggio del mar Rosso) contravvenendo alle diposizioni della madre che vorrebbe vedere i
figli a letto presto (I dieci comandamenti durano 4 ore!).
Roy
è lo spettatore adulto che ha lo sguardo del bambino e può cogliere
la meraviglia della visione. Come Pinocchio, Roy ha un suo paese dei
balocchi da raggiungere, in parte già costruito in casa sua
(l’enorme plastico del trenino con quella montagna ai margini e se
proprio dobbiamo risolvere un problema azioniamo il trenino). I
dieci comandamenti ci rimandano al Charlton Heston, Mosè, che
risale il monte Sinai per ricevere le tavole della Legge, quel Mosè
che deve convincere il suo popolo ad attraversare il mare che si apre
(vogliamo più meraviglia di questa?). La salita al monte sarà nel
destino di Roy che avrà in quella ascesa il contatto con la
trascendenza, con la meraviglia che è insita e si materializza nella
capacità creativa dell’uomo.
Le luci della città si
spengono, come si spengono le luci in sala al momento dell’inizio
della proiezione. Se siamo disposti ad avere lo sguardo bambino di
Roy si aprirà di fronte a noi il miracolo della meraviglia, del
fantastico che si fa reale, che canta per noi. Gli Ufo possono
finalmente comparire. Compaiono pure le scritte di due grandi
multinazionali americane: sono insegne pubblicitarie, gli spot prima
del film!
Roy, chiamato al lavoro,
si è perso, non sa trovare la strada ha abbandonato ogni percorso
sicuro, si lascia trasportare, come noi spettatori ci affidiamo al
regista che ci conduce nel suo mondo e perdiamo il contatto con la
nostra realtà quotidiana. Anche lui è nella nebbia, come nella
sabbia portata dal vento era immerso Lacombe. Una dimensione di
sospensione della realtà, di perdita delle coordinate
spazio-temporali. Si accendono le luci alle spalle di Roy (il
proiettore?) e l’ombra delle sue dita è proiettata su una
superficie bianca (lo schermo che viene letteralmente tirato giù da
Roy). Non poteva che essere lui, lo spettatore bambino, il primo a
vedere il meraviglioso, l’incredibile, l’UFO.
Roy cerca disperatamente
di condividere la sua visione, ma moglie e figli (che non volevano
andare al cinema la domenica) non vedono ciò che lui vede. Di quella
esperienza porta addirittura i segni sul volto, quelli di una
scottatura.
Il contatto con questa
dimensione irreale produce un linguaggio (quello della musica per i
sordi), veicola un messaggio (la misteriosa attrazione per una forma
piramidale che ancora non riesce a decodificare). Sono gli indiani ad
aver udito il messaggio (comunità di uomini ingenui, pre
capitalistici), Truffaut si fa da tramite per il mondo scientifico,
ma ai convenuti sulla collina non è dato vedere niente di
meraviglioso.
Roy e il bambino hanno un feeling, in compenso la
moglie di Roy non vuole sentire ragioni: il marito ha perso il lavoro.
La fuga nel sogno non è se non per spiriti puri, per spiriti bambini
il cui stupore stride con le ragioni di un mondo che sembra confinare
altrove il meraviglioso.
Mentre gli scienziati
decodificano il messaggio secondo una scansione matematica, il
bambino, la madre e lo stesso Truffaut tramutano le loro emozioni in
rappresentazioni, in musica e disegni. Il germe dell’ispirazione
artistica ha preso possesso di loro.
Il bambino viene
letteralmente rapito. Una enorme nuvola compare all’orizzonte e
ricorda la nuvola che si ergeva sopra il mar Rosso nel film I
dieci comandamenti. Un analogo prodigio sta per compiersi e il
bambino esclama: giocattoli! Egli è rapito da un enorme Peter Pan che lo
conduce lontano dalla realtà, nell’isola che non c’è che
è la montagna misteriosa nel Wyoming, la Torre del Diavolo. Ma
mentre Wendy e i suoi fratellini torneranno a casa per poter
ritrovare la famiglia e finalmente crescere, Roy, che alla fine
volerà verso l’isola che non c’è, non tornerà più deciso ad
abbandonare questo mondo per la fuga nel sogno e nel meraviglioso. Il
bambino si chiama Barry e ricorda tremendamente quel James Matthew
Barrie autore di Peter Pan.
Roy, toccato dalla Grazia
della fantasia riesce a vedere la sua montagna nella schiuma da
barba, nel purè, nella pagina di un giornale, metafora della
capacità di creare, di dare vita a mondi e realtà, manipolando
l’esistente (che è ciò che fa appunto il cinema), con anche la
frenesia dell’artista (il risveglio dell’impeto creativo in Roy è
seguito dalla frustrazione per la sua incapacità di riprodurre ciò
che l’ispirazione suggerisce e poi dalla letterale esplosione
finale, evocata con un passaggio di montaggio analogico, nel cartone animato alla tv, con cui Roy raggiunge
l’obiettivo, la realizzazione del sogno creativo perfetto: la
montagna nella sua forma ideale) che vede l’incompiuto,
l’irrisolto.
In parallelo si muove un apparato scientifico militare
che cerca di imbrigliare quella magia, di escluderla allo sguardo, di
imprigionarla in un ambito rassicurante. Tornerà questo motivo nel
laboratorio in cui rinchiuderanno ET. E’ il principio di realtà, di
coloro che sono scettici (la moglie, i giornalisti) e di coloro che
vogliono nascondere (i soldati e gli scienziati).
Una volta consumatasi la
divina frenesia creativa di Roy (folle e deciso nella sua
composizione del plastico della Devils Tower), il modello coincide
con l’ideale, la vera Devils Tower che compare su uno schermo tv,
in una sequenza che magistralmente sfrutta la profondità di campo,
per condurci al cuore della rivelazione decisiva del film. Roy ha
raggiunto ciò che agli altri è precluso, può dirigersi verso la
zona proibita dove il sogno diventa realtà. Può anch’egli volare
verso l’isola che non c’è. Ma è la direzione sbagliata per
molti; Roy è letteralmente contromano, controcorrente, un animale
strano. La folla non può e non vuole vedere perché non crede alla
visione, o meglio crede ad altro che viene dispensato (la paura di un
veleno tossico). Roy e la madre di Barry devono rompere molti
steccati per raggiungere la meta.
<Perché siete qui>, chiede
Lacombe-Truffaut a Roy: <sei forse un artista, un pittore?> Lacombe
capisce Roy e sorride quando lo vede fuggire dalle grinfie dei
soldati. Lui ha più diritto di noi di stare qua, dice ad un collega,
Lacombe sa, coloro che vogliono credere sono più importanti di
coloro che vogliono capire (che gli scienziati siano i critici, i
semiologi, gli studiosi che vogliono razionalizzare l’evento della
visione? E Lacombe, ad un certo punto, usa proprio il termine
visione!). Lacombe, Roy e i 12 (come gli apostoli, a sottolineare la
sacralità dell’evento) giunti da ogni parte condividono lo stesso
sguardo.
I soldati vogliono anestetizzare coloro che salgono sul
monte, come i critici vogliono anestetizzare il senso della
meraviglia della visione, come la ragione volesse imbrigliare lo
stupore, ma è troppa la forza dell’Eros che fa ascendere i
personaggi verso la vetta. In fondo, questa seconda parte del film,
può essere anche letta come la riproposizione dl mito platonico di
Eros, della forza del cavallo nero (le passioni terrene) che frena
l’impeto del cavallo bianco (l’aspirazione celeste); solo pochi
riescono a liberarsi e librarsi verso l’amore celeste, in questo
caso l’amore per il meraviglioso che è in noi, il fanciullino
nascosto che emerge con forza.
Le luci che illuminano la
vetta paiono quelle che segnalano le sale cinematografiche americane
quando si preparano ad un evento, le stesse che si alzano sulla sigla
della Paramount.
Quello che si apre, poi, di fronte agli occhi di Roy
e Lorraine è veramente lo spazio di un set cinematografico, con luci
e operai che si muovono per allestire la messa in scena. Le prove
microfono, la voce da un altoparlante che richiama i figuranti al
loro posto. Le luci si abbassano, c’è l’invito a guardare verso
il cielo, si sollevano appalusi in lontananza, sembra veramente
l’inizio di uno spettacolo. A coordinare il tutto è il “regista”
Truffaut che può finalmente disvelare la propria identità. Il set è
pieno di apparati di riproduzione, di registrazione e di rilevamento
(si scorgono macchine da presa ovunque).
La musica diventa il
tramite comunicativo tra le entità ultraterrene e gli uomini, il
ponte di questi ultimi verso l’altra dimensione. Nel set può
avvenire qualsiasi cosa, come l’arrivo di un’astronave madre che
come una novella arca restituisce al mondo uomini e donne scomparsi e
provenienti da altri tempi. Truffaut allora fa una domanda
fondamentale a Roy: <Cosa ci fa lei qui?> E la risposta non potrebbe
essere più chiara: <Voglio vedere se tutto ciò sta accadendo
realmente>. Roy crede ed è immerso in quella realtà ed in fondo ogni
spettatore dallo sguardo puro vuole andare al cinema perché vuole
credere in quello che vede, sospendendo ogni diffidenza e mollando
gli ormeggi verso il mondo della fantasia.
Monsieur Neary, io la
invidio. Truffaut capisce la meraviglia negli occhi di Roy e la
invidia come si invidia l’ingenua innocenza di un bambino che ha
voglia di volare via. Truffaut è colui che ha costruito quel
microcosmo per permettere l’incontro tra gli spettatori e il
meraviglioso, ma la luce invade totalmente Roy che è letteralmente
rapito da quella visione, nell’estasi della piena simbiosi tra
l’umano e il trascendente. Altri, benedetti da Dio, sono i
fortunati che intraprendono questo straordinario viaggio e bordo
dell’astronave, ma è Roy che è letteralmente rapito (allarga le
braccia simulando il gesto dell’alieno che era sceso per primo
dall’astronave), circondato da alieni bambini e il cui ultimo
sguardo, felice, va a cercare quello di Barry.
E’ il momento chiave
del film: Roy, completamente trasfigurato ritrova pienamente e
definitivamente il suo sguardo bambino e Spielberg, genialmente,
introduce nel tessuto musicale, nel momento che Roy guarda Barry,
l’accenno sonoro alla sigla della Disney, vero mondo di sogni che
ha rapito intere generazioni di spettatori bambini. Proprio Barry,
salutando l’astronave con un addio, chiude di fatto il film, il suo
è l’ultimo sguardo umano che compare sullo schermo, lo sguardo
bambino che accompagna la partenza degli alieni.
Nessun commento:
Posta un commento