Un film di Alejandro González Iñárritu.
Con Leonardo Di Caprio, Tom Hardy, Domhnall Gleeson, Will Poulter, Forrest Goodluck.
Titolo originale The Revenant. Avventura
Durata 156 min. - USA 2015. - 20th Century Fox
The revenant è un film di grandi paesaggi, di distese incontaminate
e panorami mozzafiato, ma è anche una partitura sonora complessa ed
affascinante in cui convergono musiche, suoni e voci che accompagnano le azioni
dei personaggi. Voci sussurrate che suggeriscono un senso altro, che indicano
una presenza spirituale che è la vera costante della vicenda. Certi passaggi
del film hanno chiari richiami con il cinema di Malick (The new world, La sottile
linea rossa), ed ancora più a ritroso possiamo scorgervi echi di Kurosawa e
Tarkovski. E proprio come in certo cinema di questi ultimi, Inarritu aspira a
raccontare una storia universale che ci conduca al cuore della natura umana e
dell’essenza stessa dell’umanità.
I personaggi si muovono in spazi
sterminati, piccole figure che ci rimandano a certi quadri romantici, perdute
in una immensità naturale che apre a spazi altri, trascendenti.
In questa
immensità due corpi si abbracciano e sono quelli di un padre e di un figlio che
non vogliono abbandonarsi. “E’ tutto ok figlio, tu vorresti che tutto fosse
finito… Io sono qui, ma non ti arrendere, finché
puoi respirare combatti, respira, continua a respirare…” queste sono le
parole in voce off che scorrono su immagini di felicità e di dolore allo stesso
tempo, immagini di un bambino sorridente, di una donna serena, ma anche di un
villaggio in fiamme e di una piccola creatura inerte tra le braccia del padre.
Hugh Glass, il protagonista, rivede nel passato il senso del proprio dramma (la
perdita della moglie) ma anche il senso del proprio futuro, lottare fino a che
c’è respiro per la sopravvivenza del proprio figlio. Il paradiso perduto del
proprio villaggio e della propria famiglia (Glass, bianco, aveva vissuto con
una tribù Pawnee) ritornano come motivi ossessivi dei pensieri del personaggio,
quasi che a essere redivivi fossero in prima istanza proprio quei ricordi così
vividi.
La macchina da presa lentamente
si muove, galleggia in un ambiente di acqua, l’elemento predominante della
vicenda. L’acqua è la vita, è lo scorrere della stessa, ma è anche il simbolo
del ritorno alla natura, al liquido amniotico primordiale dopo la morte.
Proprio come il segno della spirale sulla borraccia di Glass allude alla
ciclicità della vita, così lo scorrere dell’acqua, onnipresente, segna questi
passaggi temporali fino ad accogliere i cadaveri dei personaggi nel loro
riassorbimento nella materia del Tutto (il figlio di Glass, Hawk e il malvagio
Fitzgerald tra gli altri).
Si respira un senso panteistico tanto più forte
quanto più si mostra l’uomo vicino alla ferinità e alla primitività. Un uomo
che è come gli animali che lo circondano che è selvaggio al pari di tutto il
resto, come ci ricorda la scritta sulla tavola al collo dell’indiano impiccato
dai trapper francesi (“Noi siamo tutti selvaggi”).
Lo stesso Glass, orribilmente
dilaniato dalle unghie di un’orsa, non è molto diverso da questa: tanto
l’animale quanto l’uomo combattono per difendere i propri cuccioli; Glass aveva
ucciso un soldato che aveva cercato di uccidergli il figlio, l’orsa difende,
per lo stesso motivo, il territorio dall’attacco del cacciatore. In entrambi i
casi la difesa è strenua ma vana: Glass dovrà assistere impotente all’uccisione
del figlio, l’orsa perirà lasciando i suoi cuccioli abbandonati a se stessi. Entrambi, al termine della lotta che li vede protagonisti, rotolano insieme per la stessa discesa, rimanendo avvinghiati, quasi abbracciati.
Le
stesse logiche segnano l’agire all’interno della Natura che sembra assistere
maestosamente indifferente. Tra le sagome degli alberi i personaggi cercano di
guardare il cielo in cerca di un segno, di una presenza che li proietti oltre
la pura dimensione materiale e naturale, ma non sembra esserci conflitto tra
Natura e Spirito che si compenetrano in un unicum panteistico;
il padre che
abbraccia il figlio è come il tronco dell’albero, agisce come l’animale e gli
animali sono presenze misteriose (vedi i continui dettagli degli occhi dei
cavalli) che alludono ad altro, che rappresentano altro (come nell’emblematico
racconto di Fitzgerald che parla di un uomo che vede la Grazia materializzarsi
in uno scoiattolo).
Dio è in ogni cosa, sembra dirci Inarritu sulle orme di
Giordano Bruno, è spirito dentro ogni cosa e spirito sopra ogni cosa. La cometa
che scende dal cielo di fronte a Fitzgerald è quel segno di trascendenza che ci
riporta alla Mens Super Omnia (lo Spirito bruniano sopra ogni creatura), il
comparire dei bisonti in un’aura magica di fronte a Glass, ci riporta invece
alla Mens Insita Omnibus (lo Spirito insito nel tutto).
Uomini abbrutiti che
sembrano usciti dalle tele di Bruegel (vedi in particolare le scene nella
locanda del forte) si muovono in questa dimensione aggrappandosi agli affetti
(Glass), all’ordine (il capitano), al sogno (Fitzgerald); e tutti, chi più chi
meno, sono destinati a fallire, a veder crollare le proprie speranze a non
veder realizzato ciò per cui combattono;
peggio ancora, vedono rivelarsi di
fronte a loro (è il caso di Glass) l’insensatezza, la vacuità e l’evanescenza
dei propri progetti che, una volta realizzati (la vendetta finale) non
conducono a niente che possa minimamente regalare una consolazione o un barlume
di felicità (Glass, cui Fitzgerald morente ricorda la magra consolazione della
vendetta: “Hai fatto tutta questa
strada solo per la tua vendetta, dice Fitzgerald moribondo, allora goditela
perchè non c’è niente che può renderti tuo figlio…”, una volta compiuto
il proprio percorso vede ricomparire l’immagine della moglie che lo guarda, ma
è una apparizione breve e sfuggente che lascia l’uomo di nuovo solo con se
stesso, smarrito ed incredulo, pronto a guardarci negli occhi a chiedere
comprensione e pietà).
Inarritu, insomma, in questo mondo hobbesiano di un uomo
ferino allo stato di natura, abbraccia il pessimismo del grande filosofo
inglese, rendendolo ancora più cupo e senza uscita. Ciò che è stato non torna,
ciò che esiste nel presente è precario (ogni riposo, ogni sogno di Glass è
bruscamente risvegliato da una realtà che lo richiama alla pura lotta per la
sopravvivenza) ciò che si intravede nel futuro è chimerico ed evanescente.
Saremmo tentati di parlare di un film apocalittico, in cui l’angelo della
vendetta non sana i peccati degli uomini; i compagni di Glass salgono verso un
monte nominato Arcangelo Gabriele, mentre questi lotta per continuare a
sopravvivere, fino a che non è proprio lui ad incarnare l’idea della vendetta e
della giustizia vetero testamentaria, di un Dio che punisce gli uomini per le
loro colpe. Anche l’angelo buono che Glass incontra perisce per mano umana
(l’indiano che lo aiuta con un senso angelico di carità e solidarietà) e nel
bel mezzo di tutto, compare una chiesa semidistrutta, un luogo violato in cui
una campana si muove ma non suona (anche se sovente nel tessuto sonoro del film
sentiamo l’echeggiare di suoni che ci rimandano a quelli di campane, campane
del giudizio);
qui l’angelo indiano e poi Glass hanno di fronte un Cristo
crocifisso ma anche un Lucifero che mangia gli uomini, come di fronte ad un
giudizio universale che inchioda gli uomini alle loro colpe. L’illusione di
potersi salvare abbracciando gli affetti più cari, svanisce e si scioglie come
il ghiaccio a primavera, Glass si ritrova ad abbracciare un tronco di albero
secco, arido che non dà frutto.
E’ una umanità dolente, affranta, senza
illusioni e senza scampo quella che anima i gelidi paesaggi di The revenant. Glass risorge dalla tomba
(quella mano che esce dalla terra ha echi romeriani, e Glass è un vero zombie
vendicatore)
e striscia sofferente verso la salma inerme del figlio, raccoglie
una manciata di terra e poi abbraccia il figlio quasi soffiando su di lui il
proprio alito vitale; Glass per un attimo è immagine di Dio, il Dio della
Genesi che dona il soffio vitale all’uomo (Dio poi formò l'uomo con la
polvere della terra e soffiò sul suo volto un soffio vitale, e l'uomo divenne
un essere vivente), ma la sua è una breve illusione perché il figlio non
può tornare a vivere, il figlio non può rigenerarsi; e allora Glass è in quel
momento profondamente umano nella sua impotenza e fragilità, nel suo essere
imperfetto e limitato.
Beffardamente, quasi allo stesso tempo, Fitzgerald
arringa il giovane Bridge dicendogli: “Io sono Dio per te perché ti ho salvato due
volte”. Salvare e rimettere al mondo avvicina a Dio, ma non colma la distanza
(e il film di Inarritu sembra quasi voler fermamente ricordare i limiti
dell’uomo in un periodo storico in cui la scienza sta aprendo orizzonti
inaspettati che conducono l’uomo verso nuove frontiere e prospettive).
Proprio Fitzgerald si pone come
l’uomo che di fronte al silenzio di Dio reagisce con il cinismo e la rabbia di
chi non ha niente da perdere (così si esprime nel raccontare di un
avventuriero: “E si dà il caso che Dio è
uno scoiattolo, una grasso scoiattolo…e quando pensavo di aver trovato la
grazia, ho sparato a quel figlio di puttana e me lo sono mangiato.” ) e diventa
l’inevitabile capro espiatorio del sacrificio finale, dell’olocausto offerto da
Glass a Dio (“Solo di Dio è la vendetta”; riecheggiano le parole dell’indiano
incontrato in precedenza).
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