LA TOMBA DI LIGEIA
Titolo originale: LIGEIA
Produzione: Stati Uniti 1965
Genere: Horror
Tratto da un racconto di Edgar Allan Poe
Cast:
Vincent Price (Verden Fell); Elizabeth Shepherd (Lady Rowena e Lady Ligeia); John Westbrook (Christopher Gough); Oliver Johnston (Kenrick); Derek Francis (Lord Trevanion); Ronald Adam (Parson)
Regia: Roger Corman; Produttore: Pat Green; Musiche: Kenneth V. Jones; Sceneggiatura: Robert Towne; Effetti Speciali: Ted Samuels; Montaggio: Alfred Cox
Un’insolita
ambientazione e un budget più alto della media, per le abitudini di Corman,
caratterizza questo film, tratto dal racconto “Ligeia” di Edgar Allan Poe.
Nelle mani del regista americano anche questa storia prende la forma di un
viaggio psicanalitico alla ricerca del lato oscuro della psiche nel tentativo
di rimuovere ciò che di malvagio e pericoloso vi si annida.
A
campeggiare su tutti è questa volta una figura femminile, che si presta, per
così dire, alla seduta psicanalitica. Ligeia-Rowena è la doppia protagonista,
interpretata dalla stessa attrice (una hitchcockiana Elizabeth Shepherd), che ripropone e richiama le vicende
dell’hitchcockiano “La donna che visse due volte”.
Letteralmente
caduta sulla tomba della defunta Ligeia, Rowena si trova scaraventata in un
mondo dove si scatenano forze sovrannaturali che liberano le sue inconsce e
inconfessabili pulsioni. Ligeia, la doppia Rowena, è il tramite che risveglia
queste forze irrazionali che emergono nei sogni e nelle sedute ipnotiche. Uscita
da quel mondo, Rowena può letteralmente risvegliarsi dall’incubo e liberarsi
dalle pulsioni, bruciate metaforicamente con le pareti del castello.
Ligeia
è la defunta moglie di Verden Fell, il padrone di una abbazia diroccata, sulle
cui rovine si trova la sua abitazione. Il film si apre con il funerale della
stessa, funerale contrastato dal locale reverendo che intima a Verden di non
seppellire la donna in terra consacrata. Nel deporre la bara nel terreno Ligeia
apre gli occhi ma è un riflesso incondizionato e Verden velocemente glieli
richiude.
La donna sembra trovare nel gatto il corpo nel quale la sua anima continuerà a vivere, come un sacro animale dell'antica religione egizia, le cui effigie decorano alcune stanze del castello di Verden (i titoli di testa richiamano a questa misteriosa presenza felina e al suo accordarsi con le antiche tradizioni misteriche egizie).
Siamo già in piene atmosfere cormaniane. La paura della sepoltura
prematura, il confronto tra bene e male, l’ossessione della morte, qui
tratteggiata come un indebolimento della volontà di vivere (Schopenhauer). Ben
presto fa la sua comparsa sulla scena l’altra donna, che risulterà il tipico
doppio di Ligeia, tanto somigliante quanto distante: la prima era mora, la
seconda bionda, la prima misteriosa, quasi una divinità egizia, l’altra così
terrena e fragile.
Rowena, che abbandona la via intrapresa dai compagni di una
battuta di caccia alla volpe, si ritrova nel cimitero e, a seguito di una
caduta da cavallo, provocata dal gatto nero-Ligeia, viene sbalzata nel mezzo dei
fiori rossi che adornano la tomba della defunta signora Fell. Anche Rowena è rossa, nel vestito,
e si evidenzia subito il contrasto con il nero che contraddistingue Ligeia (il
colore dei capelli ma anche il colore del gatto).
Rowena è letteralmente sollevata dal manto di fiori e per Verden è come il metaforico realizzarsi di una resurrezione, ma nello stesso tempo ha qui inizio il viaggio di Rowena nel profondo della propria anima, condotta da Verden e destinato al confronto finale con l’alter ego Ligeia.
Significativa
in questo senso, l’attrazione che la donna prova per il gatto prima e per la
volpe poi (che sappiamo essere simboli animaleschi dell’impalpabile presenza
di Ligeia), attrazione che la porterà a salire sul campanile dell’abbazia,
rimanendo stordita dall’improvviso frastuono delle campane stesse (come non
ricordare la vertigine e l’analogo campanile nel “Vertigo” di Hitchcock?).
Lo stesso matrimonio con Verden non risolve immediatamente il conflitto interiore di Rowena (come quello di Marnie nell'omonimo film), la sua attrazione repulsione per qualcosa che ancora deve essere chiarito. Il suo bacio con Verden è punito dal gatto, geloso.
La
presenza di Verden sembra quella di un tramite tra le due facce della stessa
anima, un traghettatore che, sposatosi a Rowena, cercherà di violare
l’inconscio della stessa attraverso una seduta di ipnosi. L’ossessione dello
sguardo è l’altra costante del film. Verden non sopporta la luce del giorno e
copre gli occhi con ingombranti occhiali da sole, è attratto dallo sguardo
magnetico di una delle reliquie egizie che colleziona nel castello, si produce
nell’ipnosi e, nel finale, rimane accecato dagli artigli del gatto che lo
puniscono (lo castrano) per aver osato violare la sacralità dell’icona Ligeia.
Proprio
nel finale si ha la liberazione di Rowena dalle proprie pulsioni inconsce,
pulsioni evidenziate dal sogno che precede la “discesa agli inferi”. Nel sogno
la donna, ossessionata dalla presenza del gatto, giunge di fronte alla propria
immagine nello specchio che si trasforma in quella di Verden per finire con il
coincidere con la presenza di Ligeia che si abbandona ad un bacio saffico con
Rowena.
La donna del sogno è la domestica, ma, con un tipico procedimento psicanalitico, per spostamento, è anche la madre di Rowena che le cantava, quando questa era bambina, una filastrocca su una cuffia, che ben è evidenziata nel sogno. Ciò che ha tra le mani la domestica richiama alla simbologia della sessualità femminile con un particolare riferimento a Ligeia evidenziato dalla presenza della volpe. Rowena stringe tra le mani la morbida Ligeia e ciò non può che condurla alla repulsione.
Il bacio saffico con Ligeia è la trasfigurazione simbolica del sogno e comporta l'inevitabile risveglio di Rowena. Risveglio che avviene sempre nel segno di Ligeia, quasi che l'incubo non fosse ancora finito, in quanto Rowena si ritrova sul petto (come un amante con cui ha consumato una notte d'amplessi) la volpe morta (Ligeia) e ai piedi del letto una ciotola di latte (richiamo forse alla maternità).
L’elemento saffico sembra essere la chiave delle angosce, tant’è che
nel finale nuovamente, e questa volta dal vivo, Rowena cade nelle braccia di
Ligeia rimanendone irretita; giace ora sopra la donna gatto e sembra incapace
di liberarsi.
La morte “definitiva” di Ligeia (accompagnata nell'abisso dal cieco, come la sua passione, Verden), del fantasma stesso che come
un’ombra seguiva la bionda nel maniero, può liberare Rowena che si risveglia,
lontana dal luogo degli incubi e delle disvelate remote pulsioni.
LIGEIA
Racconto di Edgar Allan Poe
"E la volonta' consiste in cio'che non muore. Chi conosce i misteri della volonta'e
il suo vigore? Poiche' Iddio non e' che un immenso volere che
pervade tutte le cose con la natura del suo intendimento. L'uomo non si
arrende agli angeli ne' completamente alla morte se non attraverso
la fragilità del suo debole volere." JOSEPH GLANVILL
Non riesco a ricordare per quanto frughi entro la mia anima come
quando e dove precisamente io abbia conosciuto per la prima volta Ligeia. Da allora
molti anni sono trascorsie la mia memoria si e' affievolita attraverso un lungo
soffrire. O forse io non so rammentare ora questi particolari perche' in
verita' il carattere della mia adorata, il suo raro sapere, la sua bellezza
singolare e cosi' calma al tempo stesso, l'eloquenza eccitante inebriante della
sua sommessa voce musicale s'insinuarono nel mio cuore per gradi cosi'
furtivamente e al tempo stesso cosi' inesorabilmente progressivi che forse io
mai li avvertii e li compresi del tutto. Credo tuttavia di averla incontrata
per la prima volta e piu' di frequente in qualche grande antica decadente
citta' presso le rive del Reno. Della sua famiglia devo certamente aver inteso parlare.
Non vi e' dubbio che essa risalga a un'epoca remotissima. Ligeia! Ligeia!
Sprofondato in studi di una natura piu' che altro adatta a soffocare le
impressioni del mondo esterno; e' con questo dolce nome soltanto col nome di
Ligeia che io riesco a riportare davanti agli occchi della mia fantasia
l'immagine di colei che non e' piu'. E proprio ora mentre scrivo subitamente mi
colpisce la constatazione che io non ho mai saputo il casato di colei che mi fu amica e promessa
sposa e che divenne la compagna dei miei studi e infine la moglie del mio
cuore. Fu forse una sfida scherzosa da parte di Ligeia? O forse una prova con
cui ella volle saggiare l'intensita' del mio affetto ch'io non avessi a porle
alcuna domanda su questo punto? O forse fu soltanto un mio capriccio, un'offerta
pazzamente romantica al santuario della piu' appassionata devozione? Ricordo
solo vagamente il fatto in se'quale meraviglia dunque ch'io abbia totalmente
scordate le circostanze che l'originarono o lo seguirono? E se in verita'
quello spirito che si chiama avventura, se mai l'esangue Ashtofet dalle ali di
nebbia dell'idolatra Egitto presiedette, come si narra, ai matrimoni sfortunati,
allora certissimamente la lugubre dea dovette presiedere al mio. Vi e' pero' un
argomento caro sul quale la mia memoria non ha esitazioni. E' la persone di
Ligeia. Era alta di statura piuttosto esile e, negli ultimi tempi della sua
vita, persino emaciata. Invano tenterei di descrivere la maesta' la tranquilla
calma del suo portamento o la inafferrabile leggerezza ed elasticita' del suo
passo. Ella veniva e si allontanava come un'ombra. Mai riuscii ad accorgermi
del suo ingresso nel mio studio segreto, se non per la cara musica della sua
sommessa dolce voce, mentre mi posava sulla spalla la sua mano marmorea. Per la
bellezza il suo volto non fu mai eguagliato da quello di donna alcuna. Era la
radiosita' di un sogno d'oppio, un'aerea spirituale visione piu' trasumanamente
divina delle fantasie che aleggiavano intorno alle anime sonnecchianti delle
figliuole di Delo. Eppure i suoi tratti non avevano quell'impronta regolare che
ci hanno falsamente insegnato ad adorare nelle opere classiche dei pagani.
"Non esiste bellezza squisita"dice Bacone, signore di Verulamio, parlando
con esattezza di tutte le forme e generi di bellezza, "senza una qualche
stranezza di proporzioni". Tuttavia pur vedendo che i lineamenti di Ligeia
non avevano una regolarita' classica, pur notando che la sua grazia era invero
"squisita"e sentendo che questa sua grazia era profondamente pervasa
di "stranezza", tuttavia ho cercato invano di scoprire la irregolarita'
e di fissare la mia concezione personale dello "strano". Studiavo il
contorno dell'alta e pallida fronte: era impeccabile per quanto fredda sia
questa parola applicata a una maesta' cosi' divina! La carnagione rivaleggiava
col piu' puro avorio; dal dolce rigonfiamento della regione sopra le tempie emanava
un'impressione di comando e di riposo a un tempo; e quelle sue trecce di un
nero corvino, lucenti, lussureggianti, arricciantisi in buccoli naturali, che
metteva in risalto tutta la piena vigoria dell'epiteto omerico
"giacinteo"! Osservavo il delizioso profilo del suo naso ma in nessun
luogo, se non negli aggraziati medaglioni ebraici, avevo contemplato una simile
perfezione. Esso aveva la medesima, appena percettibile tendenza all'aquilino, le
stesse armoniosamente curve narici testimonianti del suo libero spirito.
Osservavo la dolce bocca. Qui era veramente il trionfo di tutte le cose
celesti: lo splendido contorno del breve labbro superiore, il tenero voluttuoso
sonnecchiare di quello inferiore,le fossette che ridevano il colore che parlava,
i denti che rifrangevano con una quasi sorprendente luminosita' ogni raggio della
celeste luce che cadeva su di loro nel suo sereno e placido e tuttavia piu'
esultante e radioso di tutti i sorrisi. Scrutavo la forma del mento e anche qui
trovavo la serena ampiezza, la morbida maesta' , la pienezza spirituale dei
Greci, il profilo che il dio Apollo rivelo' soltanto in sogno a Cleomene,il
figlio dell'Ateniese e infine mi perdevo negli immensi occhi di Ligeia. Per gli
occhi non esistono modelli nella remota antichita'. Potrebbe anche darsi che
negli occhi della mia amata si nascondesse il segreto cui allude il signor di
Verulamio. Essi erano, devo credere, assai piu' grandi di quanto non siano
solitamente gli occhi della nostra razza. Erano persino piu' pieni che non i
pienissimi delle gazzelle della tribu' che vaga nella Valle di Nurjahad.
Tuttavia era soltanto a intervalli, nei momenti cioe' di intensa emozione che
questo tratto caratteristico diveniva piu' spiccato in Ligeia. E in quei
momenti la sua bellezza appariva (cosi' almeno sembrava forse alla mia accesa fantasia)
simile alla bellezza delle favolose Uri' dei Turcomanni. L'ombreggiatura delle
orbite era di un nero intenso e su di esse si allungavano folte ciglia di color
giaietto. Le sopracciglia lievemente irregolari erano dello stesso colore. La
"stranezza"pero', che io trovavo nei suoi occhi, era di una natura
diversa dalla forma o dal colore, o dalle luminosita' dei tratti e deve essere
in definitiva riferita all'espressione. Ah parola priva di significato! Dietro
la cui vasta distesa di mero suono noi delimitiamo la nostra ignoranza di tanta
parte del mondo spirituale. L'espressione degli occhi di Ligeia! Per quante
lunghe ore io ho meditato su di essa! Quanto ho cercato durante tutta una notte
di mezza estate di scandagliarla! Che cos'era quel qualcosa di piu' profondo
del pozzo di Democrito che si nascondeva entro le pupille della mia amata? Che
cosa era? Una curiosita' ardente appassionata di scoprirlo si impadroni' di me!
Quegli occhi! Quelle grandi, quelle splendenti, quelle divine orbite! Esse
erano divenute per me le stelle gemelle di Leda e io per esse il piu' devoto
degli astrologi. Non esiste punto alcuno tra le molte incomprensibili anomalie
della scienza della mente piu' emozionante ed eccitante del fatto (mai, ch'io sappia,
notato nelle scuole) che nei nostri sforzi per richiamare alla memoria qualcosa
da molto dimenticato spesso ci troviamo proprio sull’orlo stesso del ricordo senza
tuttavia essere in grado in definitiva di ricordare. Cosi' quante volte, nel
mio intenso studio degli occhi di Ligeia, ho sentito approssimarsi la
comprensione piena della loro espressione, l'ho sentita approssimarsi senza che
per altro divenisse completamente mia, per poi alfine sparire del tutto? E (strano,
stranissimo di tutti i misteri!) trovavo, nei piu' comuni oggetti dell'universo,
un cerchio di analogie a quell'espressione. Intendo dire che successivamente al
tempo in cui la bellezza di Ligeia penetro' entro il mio spirito, dimorandovi
poi come in un santuario, io traevo, dalle molte esistenze del mondo materiale,
un sentimento che sempre avvertivo risvegliato in me dalle sue grandi luminose
orbite. E tuttavia non sapevo mai come definire questo sentimento, ne' come analizzarlo
e neppure come valutarlo con sicurezza. Lo coglievo, lasciatemelo ripetere, a volte nella
contemplazione di una vigna in rigogliosa crescita, o nella vista di una falena,
oppure di una farfalla, di una crisalide, di un fluire d'acqua corrente. L'ho
avvertita nell'oceanoe nella caduta di una meteora. L'ho sorpresa negli sguardi
di gente vecchissima e vi sono una o due stelle in cielo (una soprattutto, una
stella di sesta grandezza, doppia e mutevole, che si trova presso la grande
stella della Lyra) che da me osservate al telescopio mi hanno reso consapevole
di questa sensazione. Ne sono stato invaso da alcuni suoni di strumenti a corda
e a volte dai brani di alcuni libri. Tra innumerevoli altri esempi ricordo
precisamente alcune righe nelle quali mi sono imbattuto durante la lettura di
un volume di Joseph Glanvillle quali (forse soltanto per la loro stranezza: chi
puo' dirlo?) sempre mi ispirarono questo sentimento: "E la volonta' consiste
in cio' che non muore. Chi conosce i misteri della volonta'e il suo vigore?
Poiche' Iddio non e' che un immenso volere che pervade tutte le cose con la
natura del suo intendimento. L'uomo non si arrende agli angeli, ne'
completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole
volere". Un lungo trascorrere di anni e di meditazioni successive mi hanno
consentito infatti di rintracciare un lontano rapporto tra questo brano del
moralista anglo-sassone e una parte del carattere di Ligeia. Una intensità di
pensiero, di azione, di eloquio era forse in lei il risultato, o per lo meno un
indice, di quella volitivita' titanica che durante la nostra lunga intimita'
mai aveva dato altra e piu' immediata testimonianza della propria esistenza. Di
tutte le donne che io ho conosciute, Ligeia, l'esteriore calma, la sempre
serena Ligeia, era invece tanto piu' violentemente dilaniata dai turbinosi
avvoltoi della cupa passione. E di questa passione io non ero in grado di
misurare l'abisso se non per la sovrannaturale dilatazione di quegli occhi che
mi rapivano e mi sgomentavano ad un tempo, per la melodia, la modulazione la
precisione e la placidita' quasi magiche della sua voce bassissima e per la
selvaggia energia (resa doppiamente efficace dal contrasto col modo con cui
erano espresse) delle indomite parole che ella solitamente proferiva. Ho gia'
accennato al sapere di Ligeia: esso era immenso, quale mai ho veduto in donna
alcuna. Era versatissima nelle lingue classiche e sin dove si estendeva la mia
conoscenza personale nei riguardi dei moderni idiomi europei io non l'ho mai
colta in fallo. Del resto quando mai ho colto in fallo Ligeia su un argomento
qualsiasi della piu' ammirata semplicemente perche' la piu' astrusa, della
tanto vantata erudizione delle accademie? Con quanto singolare conturbante
vigore questo lato della natura di mia moglie ha attratto la mia attenzione, in
quest'ultimo periodo di tempo soprattutto! Ho detto che il suo sapere era quale
io mai avevo conosciuto in donna alcuna; ma dove esiste l'uomo che abbia
esplorato e con successo tutti gli sconfinati campi delle scienze morali, fisiche,
matematiche? Io a quel tempo non vedevo cio' che ora invece distinguo
chiaramenteche cioe' le cognizioni di Ligeia erano enormi, erano stupefacenti, tuttavia
ero abbastanza conscio dela sua infinita supremazia per rimettermi con fiducia
infantile alla sua guida attraverso il caotico mondo della ricerca metafisica
della quale io ero intensamente occupato durante i primi anni del nostro
matrimonio. Con quale senso di trionfo, con quale inebriante gioia, con quale
sensazione eterea di speranza sentivo, mentre ella si chinava su di me in studi
rari e poco noti, quel meraviglioso panorama allargarsi dinanzi a me per lenti
gradi; come sentivo che attraverso quel luogo, splendido sentiero non ancora
percorso da alcuno, io avrei potuto finalmente muovere innanzi verso la meta di
una saggezza troppo divinamente preziosa per non essere proibita!
Quanto doloroso deve essere stato l'affanno con cui, alcuni anni
piu' tardi, io vidi le mie tanto attese speranze mettere le ali e fuggire! Senza
Ligeia ero come un bambino che si aggira tastoni la notte. La sua Presenza, le
sue letture semplicemente rendevano vividamente luminosi i molteplici misteri
del trascendentalismo nel quale eravamo immersi. Senza il radioso splendore dei
suoi occhi, le lettere fiammee e dorate divenivano piu' opache del piombo
saturnio. Ed ecco che quegli occhi brillarono sempre meno di frequente sulle
pagine da me compulsate. Ligeia si ammalo'. I suoi occhi smarriti lucevano di
un troppo... troppo glorioso fulgore; le pallide dita di lei assunsero la
translucida cereita' della tombale vene azzurrine della sua eccelsa fronte si inturgidivano
e si afflosciavano d'impeto con l'avvicendarsi della finanche piu' lieve
emozione. Compresi che ella sarebbe morta e lottai disperatamente in ispirito
con il funebre Azrael. Ma il dibattersi appassionato di mia moglie era con mio
stupore ancor piu' energico del mio stesso. Molti lati della sua natura austera
mi avevano fatto supporre che per lei la morte sarebbe giunta senza i suoi
consueti terrori; ma non fu cosi'. Le parole sono impotenti a rendere con esattezza
la tenacia di resistenza con cui ella lotto' con l'Ombra. Io gemevo d'angoscia
a quella vista miserevole. Avrei voluto calmarla farla ragionare; ma di fronte
all'intensita' del suo disperato desiderio di vita, di vita, di vita soltanto, conforto
e ragione erano pari alla piu' forsennata delle follie. Nondimeno soltanto in
ultimo, tra gli spasimi e i contorcimenti convulsi del suo ardente spirito, la
serenita' esteriore del suo comportamento si scosse. La sua voce si era fatta
piu' dolce, piu' sommessa, tuttavia io non desideravo soffermarmi sullo sconnesso
significato delle sue parole proferite con tanta placidita'. Il mio cervello
vacillava mentre ascoltavo rapito una melodia piu' che Terrena e concetti e
aspirazioni che esseri mortali mai avevano conosciuti prima. Ch'ella mi amasse
non avrei dovuto dubitarloe mi sarebbe stato facile accorgermi che in un animo
quale il suo l'amore sarebbe regnato con una passione non comune. Ma soltanto
nella morte compresi appieno la forza del suo affetto. Per lunghe ore, tenendomi
la mano, ella mi riverso' i traboccamenti di un cuore la cui devozione piu' che
appassionata sfiorava l'idolatria. Cosa avevo fatto per meritare di essere benedetto
da cosi' sublimi confessioni? Cosa avevo fatto per meritare di essere maledetto
con la privazione della mia adorata proprio nell'ora in cui ella si rivelava a
me? Ma non reggo al pensiero di dovermi dilungare su questo argomento.
Lasciatemi dire soltanto che nell'abbandono piu' che femminile di Ligeia a un
amore ahime' del tutto immeritato, del tutto indegnamente ricevuto, io
riconobbi infine il principio del suo agognare con cosi' disperata energia a
quella vita che ora stava fuggendo da lei tanto rapidamente. E' questo
disperato agognare e' questa appassionata veemenza di desiderio di vita, di
vita soltanto, che io non ho potere per raffigurare, non linguaggio capace ad
esprimere. Al colmo della notte in cui ella mi lascio'mi chiamo'
perentoriamente al suo capezzale e mi fece ripetere alcuni versi da lei
composti non molti giorni prima. Le obbedii. Eccoli:
Guarda! E'
una notte sfarzosa
di
questi ultimi anni solitari!
Una
coorte angelica, alata, avvolta
in veli,
sommersa in lagrime
siede in
un teatro a contemplare
uno
spettacolo di speranze e di timori
mentre
l'orchestra suona capricciosamente
la
musica delle sfere.
Mimi, foggiati
a sembianza della Deita' eccelsa
brontolano
e mormorano sommessi
e qua e
la' volteggiano:
semplici
marionette sono coloro che vanno e vengono
al
comando di immense cose informi
che
spostano la scena innanzi e indietro
sbattendo
dalle loro ali di condor
invisibile
Dolore!
Quale
variopinto dramma! Oh, rassicurati
non
sara' dimenticato!
Ne' lo
sara' il suo fantasma inseguito in eterno
da una
folla che non sapra' afferrarlo
entro un
cerchio eternamente ritornante
al
medesimo identico punto
e molto
e' Pazzia e molto e' Peccato
e Orrore
e' l'anima della trama.
Ma
guardatra la folla dei mimi
una
strisciante forma s'insinua!
Una cosa
rosso sangue che esce torcendosi
fuori
della scenica solitudine!
Si
torce! Si torce! Con mortali spasimi
i mimi
divengono suo cibo
e i
serafini singhiozzano alla vista di zanne vermicanti
imbevute
di umano cruore.
Spente, spente
sono le luci, spente tutte!
E su
ciascuna rabbrividente forma
il
sipario, lenzuolo funebre
scende
col fragore di un uragano
e gli
angeli, pallidi, esangui
inalzandosi,
svelandosi, affermano
che
l'opera e' la tragedia "L'Uomo"
e il suo
eroe e' il Conquistatore Verme.
- O Dio! - quasi urlo' Ligeia, balzando in piedi e tenedo alte le
braccia in un gesto spasmodico, mentre io terminavo di leggerle questi versi. -
O Dio! O Divino Padre! Devono queste cose sempre inesorabilmente essere? Non
puo' il Conquistatore essere almeno una volta conquiso? Non siamo noi parte e
particelle di Te? Chi, chi conosce i misteri della volonta'e il suo vigore?
L'uomo non si arrende agli angeli, nè completamente alla morte, se non
attraverso la fralezza del suo debole volere. Poi, come se quello scoppio di
commozione l'avesse annientata, lascio' ricadere le sue bianche braccia e si
riadagio' solennemente sul suo letto di morte. E mentre ella esalava l'ultimo
respiro, usci' dalle sue labbra, misto ai suoi supremi aneliti, un mormorio
sommesso. Accostai il mio orecchio alla sua bocca e vi colsi ancora una volta
le parole finali del passo di Glanvill: "L'uomo non si arrende agli angeli,
ne' completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere".
Cosi' Ligeia mori'e io, ridotto a un pugno di polvere calpestata dal Dolore, non
potei piu' sopportare la desolazione solitaria della mia dimora nella sfocata
decadente citta' sulle sponde del Reno. Non mi mancava cio' che il mondo chiama
ricchezza. Ligeia mi aveva portato in dote molto di piu' di quanto solitamente
tocca in sorte ai mortali. Percio' in capo ad alcuni mesi, dopo aver
vagabondato stancamente e senza meta, acquistai e riattai un'abbazia di cui non
faro' il nomein una delle contrade piu' selvagge e meno frequentate della bella
Inghilterra. Le tetraggine e la squallida grandiosita' della costruzione, l'aspetto
pressoche' incolto della tenuta, le malinconiche e antichissime memorie
connesse a entrambe, avevano molta affinita' con i sentimenti di totale
abbandono che mi avevano spinto in quella regione insocievole e remota del
paese. Mentre pero' all'esterno l'abbazia tutt'avvolta nel suo verzicante
decadimento, subi' pochissimi mutamenti io mi sbizzarrii all'interno con una
perversita' fanciullesca e fors'anco con una vaga speranza di alleviare le mie
sofferenzein uno sfoggio di sfarzo piu' che regale. Io infatti mi ero inebriato
sin dalla fanciullezza di simili follie e ora queste ritornavano ad assillarmi quasi
che il dolore mi avesse portato a un prematuro vaneggiamento senile.
Ahime'comprendo come si potesse persino avvertire un principio di pazzia nei
drappeggiamenti sgargianti, fantastici, nelle monumentali sculture egizie, negli
stipiti, nel mobilio di un gusto audacissimo, nei disegni manicomiali dei
tappeti d'oro trapunto! I lacci dell'oppio mi avevano avvinto e ridotto in
servitu' e le mie fatiche e i miei studi si erano colorati del riflesso dei
miei sogni. Non mi soffermero' pero' a narrare particolareggiatamente di queste
assurdita'. Lasciate che vi parli soltanto di quell'unica camera, per sempre
maledetta, dove in un momento di alienazione mentale io portai all'altare come
mia sposa, a succedere alla non dimenticata Ligeia, la biondochiomata e
occhiazzurrina Lady Rowena Trevanion di Tremaine. Non vi e' parte sia pur
minima dell'architettura e della decorazione di quella camera nuziale che io
non abbia ben visibile dinanzi agli occhi. Dov'erano gli spiriti dell'altera
famiglia della sposa allorche' per pura sete di oro essi consentirono che una
fanciulla, una figlia tanto amata varcasse la soglia di una stanza così'
ornata? Ho detto che ricordo minutamente tutti i particolari di quella stanza
(per quanto io possieda pochissima memoria su argomenti di grave momento)eppure
non vi era un sistema, un ordine purchessia, in quello sfoggio fantastico, che
potesse avere una presa sulla memoria. La stanza era posta entro un'alta torre dell'abbazia
merlata, era di forma pentagonale e assai vasta. Tutta la faccia meridionale
del pentagono era occupata da un'unica finestra un'immensa lastra intatta di
cristallo veneziano, una singola invetriata tinteggiata di una sfumatura
plumbea, cosicche' i raggi sia del sole sia della luna penetrandovi attraverso
cadevano sugli oggetti contenuti all'interno con un lividore spettrale. Sulla
parte superiore di questa sterminata finestra si stendeva l'intrico di una
foltissima vite vergine arrampicantesi sin li' lungo le massicce mura della
torre. Il soffitto di quercia tetra era altissimo, a volta, elaboratamente
ornato dei piu' strani e piu' grotteschi esemplari di un capriccio semigotico semidruidico.
Dal ricettacolo piu' centrale di questa malinconica volta pendeva, mediante
un'unica catena d'oro a lunghi anelli, un immenso bruciaprofumi del medesimo
metallo, di modello saraceno e tutto traforato in modo che ne uscisse e ne
entrassero torcendosi come se fossero impregnate di una vitalita' serpigna
lingue di fuoco multicolori in successione continua. Sparsi qua e la' in vari
punti vi erano alcuni divani e candelabri dorati di foggia orientalee vi era
pure il talamo, il talamo nuzialedi fattura indiana, bassoscolpito in solido
ebano e ricoperto di un baldacchino color del drappo funebre. In ciascun angolo
della camera troneggiavano giganteschi sarcofaghi di granito nero tolti alle
tombe dei re nella lontana Luxor, con i loro antichi coperchi adorni di
immemoriali sculture. Ma, ahime'! nei panneggiamenti della stanza consisteva soprattutto
la piu' fantastica delle mie follie. Le immense pareti, di altezza gigantesca, persino
sproporzionate, erano ricoperte da cima a fondo di una tappezzeria pesante, massiccia,
ricadente in vaste pieghe di una stoffa che ricorreva uguale come tappeto sul
pavimento, come coperta dei divani e del letto d'ebano, come baldacchino del
talamo e che si ripeteva in ampie volute nei cortinaggi che ombreggiavano parzialmente
la finestra. Era un tessuto sfarzosamente tramato d'oro. Qua e la', a
intervalli regolari, era tutto punteggiato di figure arabescate, larghe circa
trenta centimetri e intessute nella stoffa di disegni del piu' intenso nero. Queste
figure pero' rivelavano il vero aspetto dell'arabesco solo se osservate da un
unico punto. Grazie a un artificio ormai comune e del resto noto in periodi
anche remotissimi dell'antichita', esse erano state trapuntate in modo da
apparire mutevoli alla vista. Per chi entrasse nella stanza potevano sembrare
semplici mostruosita', ma avanzando ulteriormente, questa apparenza
gradatamente svaniva e a ogni passo che muoveva innanzi il visitatore si vedeva
circondato da una successione interminabile di quelle forme spettrali che appartengono
alla superstizione dei Normanni o sorgono nei colpevoli sonni dei monaci.
Questo effetto fantasmagorico era reso ancora piu' intenso dall'introduzione di
una forte continua corrente di vento artificiale spirante dietro i panneggi e
che dava al tutto un'animazione paurosa e inquietante. In tale atmosfera, in
una camera nuziale come quella, io trascorsi con la signora di Tremaine le
empie ore del primo mese del nostro matrimonio. Le trascorsi con non poca
inquietudine. Che mia moglie paventasse l'irosa ombrosita' del mio carattere, che
tentasse di scansarmi e mi amasse assai poco, questo non potevo fare a meno di
notarlo, ma anziche' dispetto il suo timore di me mi procurava piacere. Io la
odiavo con un odio piu demoniaco che umano. Il mio ricordo rivolava (oh! con
quale intensita' di rimpianto!) a Ligeia, l'amatissima, l'augusta, l'incomparabile,
la sepolta. Mi rapivo, nel ricordo della sua purezza, del suo sapere, della sua
eccelsa eterea natura, del suo appassionato idolatra amore. Allora veramente il
mio spirito brucio' tutto e completamente libero di tutti i fuochi di lei e
oltre. Nell'eccitazione dei miei sogni oppiati (poiche' ero ormai abitualmente
incatenato ai ceppi della droga) io invocavo forte il suo nome nel silenzio
della notte, oppure durante il giorno tra gli ombrosi recessi delle valli, quasiche',
nella disperata angoscia, nell'austera
passione, nel divorante ardore del mio desiderio per la donna scomparsa io
potessi ricondurla sul sentiero che ella aveva abbandonato (ah, era mai
possibile che fosse per sempre?) su questa terra.
Verso il principio del secondo mese del nostro matrimonio, lady
Rowena fu presa da un male improvviso dal quale non si riebbe che molto
lentamente. La febbre che la consumava, rendeva penose le sue notti, e, nel
turbamento del dormiveglia, essa parlava di suoni e di movimenti che avvenivano
qua e là nella stanza della torre che io finii per attribuire all'eccitamento
della sua fantasia o forse alle fantasmagoriche influenze della stanza. Poi
entrò in convalescenza e finalmente si ristabilì.
Tuttavia non passò molto tempo, che un
nuovo e più violento attacco la fece ricadere sul suo letto di dolore; e da
questo la sua costituzione, che era stata sempre debole, non si risollevò più
completamente. Da quell'epoca le sue malattie furono di natura allarmante, con
ricadute anche più allarmanti, che sfidavano parimenti la scienza e gli sforzi
dei medici. Durante l'aggravarsi del cronico male che apparentemente si era
impadronito della sua persona al punto da non poterne essere sradicato coi
mezzi umani, non potevo fare a meno di osservare come del pari crescevano
l'irritazione nervosa e l'eccitabilità del suo temperamento alle più piccole
cause di paura. Riprese a parlare, e sempre con più frequenza e maggiore
pertinacia, di rumori - rumori leggeri - e di quegli insoliti movimenti delle
tappezzerie ai quali aveva alluso un tempo.
Una notte, verso l'ultimo scorcio di
settembre, essa attirò con più enfasi del solito la mia attenzione su quel
soggetto desolante. Si era svegliata proprio allora da un sonno inquieto mentre
io, diviso fra l'ansietà e un vago terrore, stavo spiando i moti del suo volto
emaciato. Mi trovavo seduto su uno dei divani indiani, accanto al letto
d'ebano. Essa si levò a metà, e in un ansioso balbettio parlò a voce bassa e
grave di certi suoni che aveva udito, ma che io potevo udire, di certi
movimenti che aveva visto, ma che io non potevo vedere. Il vento correva veloce
dietro alle tappezzerie, e io (sebbene, Io confesso non lo credessi
completamente) volevo dimostrarle che quei sospiri appena articolati e quei
dolci e lenti cambiamenti delle figure delle pareti erano non che l'effetto
naturale della solita corrente d'aria. Ma il pallore mortale che invase il suo viso bastò a
provarmi che i miei sforzi per rassicurarla sarebbero stati inutili. Essa
pareva venir meno e nessun domestico si trovava nelle vicinanze. Mi rammentai
allora del posto dove era stata messa una bottiglia di vino che le era stato
ordinato dai medici, e attraversai in fretta la stanza per andarla a prendere.
Ma, passando sotto la luce dell'incensiere, due
circostanze straordinarie attirarono la mia attenzione. Io avevo sentito che
una cosa palpabile, quantunque invisibile, era passata leggermente accanto alla
mia persona; e vidi sul tappeto d'oro, nel centro del riflesso proiettato
dall'incensiere, un'ombra, un'ombra debole, indefinita, dall'aspetto angelico,
quale avrebbe potuto essere l'ombra d'un'ombra. Ma trovandomi in preda
all'effetto di una dose esagerata d'oppio, non detti grande importanza a queste
cose, e non ne parlai a Rowena. Trovai il vino, e, traversata nuovamente la
camera, ne colmai un bicchiere che accostai alle labbra esauste di mia moglie.
Essa si era intanto un po' riavuta e prese il bicchiere da sé, mentre io mi
lasciavo andare sul divano con occhi fissi su di lei. Fu allora che intesi distintamente un lieve rumore di passi
sul tappeto e vicino al letto; e un secondo dopo, mentre Rowena portava il vino
alle labbra, vidi, se non ho sognato di vederlo, cadere nel bicchiere, come da
un'invisibile sorgente sospesa nell'atmosfera della stanza, tre o quattro
grosse gocciole di fluido brillante, color di rubino. Se io lo vidi, Rowena non
lo vide. Essa bevve il vino senza esitare e io mi guardai bene di parlarle
d'una circostanza, che, dopo tutto, doveva essere soltanto la suggestione di
una valida immaginazione resa morbosamente attiva dai terrori di mia moglie,
dall'azione dell'oppio e dall'ora. Non posso
tuttavia nascondere a me stesso che, subito dopo la caduta di quelle gocce di
rubino, un rapido peggioramento si dimostrò nelle condizioni di mia moglie, al
punto che, la terza notte appresso, le mani dei servi preparavano il suo corpo
per la tomba, e la quarta notte io vegliavo, solo, la sua salma avviluppata nel
lenzuolo mortuario, nella fantastica stanza che l'aveva accolta giovane sposa.
Bizzarre visioni prodotte dall'oppio si agitavano come ombre davanti a me.
Posavo Io sguardo inquieto sui sarcofaghi agli angoli della stanza, sulle
mobili figure del parato e sul serpeggiamento delle fiamme multicolori della
lampada. Poi, nel richiamare alla mente le circostanze di un'altra notte, il
mio sguardo cadde sul punto sotto il riflesso dell'incensiere dove avevo viste
le lievi tracce di un'ombra.
L'ombra, comunque, non c'era più, e
respirando con maggior libertà portai gli occhi sulla pallida e rigida figura
distesa sul letto. Allora si affollarono in me mille ricordi di Ligeia, e
affluì al mio cuore, con la tumultuosa violenza di una cascata, la piena del dolore
ineffabile col quale avevo contemplato lei, chiusa nel suo sudano. La notte
avanzava e col cuore sempre pieno dei più amari pensieri, di cui lei, mio unico
e supremo amore, era l'oggetto, rimanevo con gli occhi fissi sul corpo di
Rowena.
Poteva essere la mezzanotte, forse prima o
forse un po' dopo, poiché non avevo badato allo scoccar dell'ora, quando un
singhiozzo basso e leggero, ma molto chiaro, mi trasse di soprassalto dal mio
fantasticare. Sentii che veniva dal letto d'ebano; dal letto di morte. Tesi
l'orecchio in un'agonia di terrore superstizioso, ma il suono non si ripeté.
Forzai la vista a scoprire un movimento qualsiasi nel cadavere, ma non vidi
nulla. Pure era impossibile che mi fossi ingannato. Avevo inteso il suono, per
quanto debolissimo, e il mio spirito era ben desto. Allora tenni risolutamente
e con perseveranza l'attenzione fissa sul corpo. Passarono molti minuti prima
che si producesse qualche circostanza che potesse gettare la luce sul mistero.
Finalmente apparve evidente che una leggera colorazione, appena sensibile, era
salita alle gote e filtrava lungo le piccole vene depresse delle palpebre. In
preda a un orrore e a un terrore indicibili, che nessuna parola dell'umano
linguaggio potrebbe rappresentare, sentii arrestarsi le pulsazioni del mio
cuore e irrigidirmisi le membra. Epperò il sentimento del dovere mi rese infine
il mio sangue freddo. Non potevo più a lungo dubitare che avevamo fatto troppo
precipitosamente i preparativi funerari; Rowena viveva ancora. Era necessario
tentar subito qualcosa; ma la torre era completamente isolata dalla parte
dell'abbazia dove abitavano i domestici; nessuno di essi era alla portata della
mia voce, né io avevo il modo di chiamarli in mio aiuto, senza abbandonare per
vari minuti la camera, e a questo non mi potevo azzardare. Mi sforzai dunque di
richiamare da solo alla vita quell'anima ancora alitante. Dopo un breve periodo
fu però evidente che era avvenuta una ricaduta: il colore disparve dalle gote e
dalle palpebre lasciandovi un pallore più diaccio del marmo: le labbra si
richiusero e strinsero nella spettrale espressione della morte: un freddo
viscido e repulsivo si distese rapidamente su tutta la superficie del corpo e
sopravvenne l'abituale rigidità cadaverica. Con un brivido ricaddi sul divano dal
quale ero stato così stranamente tratto e di nuovo m'abbandonai alle mie
appassionate contemplazioni di Ligeia.
Così passò un'ora, quando (come può essere
possibile?) per la seconda volta ebbi la percezione di un vago rumore dalla
parte del letto. Al colmo del terrore, ascoltai. il suono si ripeté ancora una
volta: era un sospiro. Mi precipitai verso il cadavere e vidi - vidi
distintamente - un tremito muovere le labbra. Un minuto dopo esse si schiusero,
scoprendo la linea brillante dei denti. Ora era stupore che prese a lottare nel
mio petto col terrore profondo che vi aveva sin allora regnato. Mi sentivo
offuscare la vista e oscurare la ragione; e fu con uno sforzo violento che alla
fine trovai ancora il coraggio di rimettermi all'opera che il dovere m'imponeva.
Ora un incarnato parziale appariva sulla fronte, sulle gote e sulla gola: un
tepore sensibile aveva pervaso tutto il corpo, c'era anche una lieve pulsazione
al cuore. Mia moglie viveva: e con un raddoppiamento d'ardore mi sforzai di
riportarla alla vita. Fregai e bagnai le tempie e le mani, e misi in atto
quanto l'esperienza e le mie non poche letture di scienza medica potevano
suggerirmi. Ma invano. A un tratto il colore disparve, le pulsazioni cessarono,
ritornò alle labbra l'espressione della morte e tutto il corpo ritrovava un
momento dopo il suo gelo glaciale, il suo colore livido, la sua intensa
rigidità, il suo aspetto appiattito e tutte le orribili caratteristiche di chi
già da vari giorni abita nella tomba. Ricaddi così nelle mie visioni di Ligeia, e di nuovo (come
stupirsi se nel mentre scrivo rabbrividisco?), di nuovo un singhiozzo soffocato dal letto
d'ebano mi colpi l'orecchio. Ma a che scopo rendere uno per uno gli orrori
inconcepibili di quella notte? Perché fermarsi a raccontare come, una volta
dopo l'altra, sin quasi al grigiore dell'alba si ripeté questo spaventoso
dramma di risurrezione; come ogni terrificante ricaduta sembrava una morte più
rigida e più irrevocabile e ogni nuova agonia una lotta contro un nemico
invisibile; e come ogni lotta era seguita da non so quale strana alterazione
della fisionomia? Affrettiamoci a concludere. La
maggior parte della terribile notte era passata, quando colei che era stata
morta, si mosse di nuovo, e questa volta con maggiore energia, benché si
destasse da una dissoluzione più spaventosa nella sua irreparabilità. Avevo
ormai da un pezzo tralasciato ogni sforzo e ogni movimento, e rimasi inchiodato
rigidamente sul divano, in preda a un turbine di emozioni violente, di cui
forse la meno terribile e la meno divorante era quella di uno spavento supremo.
Il cadavere, ripeto, si mosse e con molto più vigore di prima. I colori della
vita risalivano al suo viso con una singolare energia, le membra si lasciavano
andare, e se non fossero state le palpebre pesantemente chiuse e i drappi
funerari che davano ancora alla figura il carattere sepolcrale, potrei aver
sognato che Rowena avesse veramente spezzate del tutto le catene della morte.
Ma se anche allora non accolsi interamente quella idea, non potei più dubitarne
quando alzatosi dal letto, a deboli passi vacillanti, con gli occhi chiusi, e
il fare di uno perso nel sogno, quell'essere avvolto nel sudano si avanzò
palpabilmente sino in mezzo alla stanza.
Non tremai -, non mi mossi -, poiché una
folla di immagini inesprimibili connesse con l'aspetto, la statura e
l'andamento della figura, passando furiosamente attraverso il mio cervello, mi
avevano paralizzato, mi avevano agghiacciato come una pietra. Non mi mossi, ma
contemplai l'apparizione. Nei miei pensieri era un disordine pazzo, un tumulto
implacabile. Era davvero Rowena vivente che mi stava dinanzi? Davvero Rowena,
lady Rowena Trevanion di Tremaine, dai capelli biondi e dagli occhi azzurri?
Perché, perché ne dubitavo? La benda funerea le
serrava pesante la bocca; come poteva, dunque, non essere la bocca della
rediviva signora di Tremaine? E le gote avevano proprio le rose di quando la
sua vita era in pieno fiore; erano veramente le gote rosee della vivente
signora di Tremaine. E il mento, con la fossetta, come quando era in salute,
perché non poteva essere il suo? Ma era
dunque diventata più alta durante la sua malattia? Quale pazzia inesprimibile s'impadronì
di me a quell'idea? Un balzo, ed ero ai suoi piedi. Ritraendosi dal mio
contatto essa lasciò cadere dal capo il lugubre lenzuolo che l'avviluppava; e
nell'aria agitata della camera si svolse una enorme massa di lunghi capelli in
disordine: erano più neri
dell'ali corvine della mezzanotte. Allora
lentamente si aprirono gli occhi della :.figura che mi stava dinanzi.
"Eccoli dunque finalmente!" gridai ad alta voce.
"Potrei mai ingannarmi? Questi sono gli occhi, gli occhi neri, gli occhi
selvaggi, gli occhi del mio amore perduto... di lady... di lady Ligeia".
Nessun commento:
Posta un commento