Il
cinema della Prima Guerra Mondiale, un percorso
Introduzione
Il
cinema ha dedicato una quantità enorme di film alla narrazione delle vicende
della Prima Guerra Mondiale. Sono circa un migliaio le pellicole che in ogni
epoca del “secolo breve” (così Hobsbawn definisce il Ventesimo secolo che si
apre con la conclusione della Prima Guerra Mondiale e dunque è metaforicamente
più corto dei 100 anni canonici) e del successivo Ventunesimo secolo si sono
occupate di restituire le atmosfere e il senso di quella immane tragedia.
L’approccio ad una materia così
sconfinata non può che essere parziale e lacunoso ma una linea di condotta
chiara può aiutarci nel trovare un percorso di rivisitazione sensato.
I film
storici in generale hanno un triplice valore: possono essere un prezioso
documento che rappresenta gli eventi storici con adesione alla realtà e dunque
hanno un valore storico nel senso più didattico del termine; possono avere un
valore storico intrinseco, essere cioè la cartina di tornasole di un periodo,
quello della loro realizzazione, i cui contorni emergono pur nella cornice
retrò e storica della narrazione. In sostanza un film ambientato nel 1918 ma
realizzato nel 1970 ha un duplice valore storico tanto per la documentazione
della Grande Guerra tanto quanto per gli echi che in esso si ritrovano, o meno,
della situazione sociale post sessantottina; infine può avere un valore che io
definirei filosofico conducendo lo spettatore ad un percorso di riflessione su
temi e motivi trasversali. Sfiorando kubrickianamente le questioni metafisiche,
un film può proporre grandi domande senza necessariamente dare risposte e i
quesiti più frequenti che emergono dalla filmografia della Grande Guerra sono
riassumibili nelle questioni sul senso della guerra, sulla retorica che ad essa
si accompagna, sulla giustificazione della violenza come strumento per
risolvere le questioni politiche e nazionali, sul senso classista e
generazionale che induce i giovani a morire in guerra per risolvere problemi
avanzati dagli anziani. Le domande potrebbero continuare ancora ma è importante
sottolineare questo mio personale approccio alla materia per comprendere anche
le scelte, ripeto sommarie e perfettibili, di un possibile percorso storico
filmico sul conflitto del 1914 – 1918.
La
battaglia della Somme (1916)
Esempio
di documentario bellico che ebbe un enorme successo in Inghilterra dove attirò
milioni di spettatori al cinema. Le immagini che arrivavano dal fronte erano la
viva testimonianza di quanto stavano facendo i soldati inglesi per la patria.
Il desiderio di conoscere la realtà della guerra era fortissimo ma non tutto
ciò che fu filmato in quel documentario era spontaneo e vero. L’attacco alla
trincea tedesca, ad esempio, era palesemente ricostruito (a partire dalle
trincee basse) in quanto le macchine dell’epoca non erano in grado di garantire
la giusta duttilità per essere al servizio di riprese dinamiche e pericolose.
La loro pesantezza e la difficoltà di utilizzo permetteva soltanto di procedere
con inquadrature statiche che raffiguravano momenti di passaggio tra un
combattimento e l’altro. Questa lacuna documentaria fece si che la concezione
delle battaglie fosse alquanto distorta e lontano dalla realtà e caricò il
cinema della responsabilità di mettere in scena il lato più cruento e crudele
della guerra.
J’accuse
di Abel Gance (1918)
Nel
1917, a guerra ancora in corso, Abel Gance iniziò la realizzazione di un film
finanziato dalla Pathè per un milione di Franchi e dal Servizio Cinematografico
dell’Esercito francese. Il film ebbe una gestazione lunga e travagliata e poté
essere presentato a Parigi soltanto nel marzo del 1919, a guerra ormai
ampiamente conclusa. Inizialmente Gance si proponeva di presentarsi come il
cantore di quella che lui definiva la Guerra Rossa (allusione alla marea di
morti e alla scia di sangue che lasciò) con una dichiarazione di intenti che
compariva sui manifesti pubblicitari che preannunciavano il film:
Poichè la grande tragedia rossa non ha avuto
il suo Omero e il suo Rouget de l’Isle, poiché le paure, il sangue e le
sofferenze sparse, le gesta degli eroi e gli occhi stellati dei morti non hanno
ancora trovato scultori e pittori, abbiamo tentato, con umiltà, di creare un
lirismo degli occhi e di far cantare le immagini…
Il
titolo del film, J’accuse, riecheggia di continuo nel dipanarsi di una trama
piuttosto complessa. Semplificandola al massimo possiamo così riassumerla:
Edith
Lazare è sposa del brutale Francois Delphin ma ama segretamente il poeta Jean
Diaz. Allo scoppio della guerra i due uomini, richiamati al fronte, si trovano
a combattere nello stesso battaglione e Jean è luogotenente che, ad un certo
punto, sostituisce Francois in una missione pericolosa uscendone da eroe. Nel frattempo
Edith viene violentata da soldati tedeschi e rimane incinta. Jean si fa cantore
di un pacifismo sempre più forte. Le violenze che vede materializzarsi intorno
a sé lo inducono a gridare il suo inno di accusa. Ma la guerra presenta il
conto anche ai due uomini protagonisti che si trovano feriti l’uno accanto
all’altro. Francois, il marito di Edith muore mentre Jean, il poeta riesce a
far ritorno a casa dove convoca vedove e madri per raccontare loro di una
visione. I morti in guerra stanno per tornare e vogliono chiedere conto ai
sopravvissuti se il loro sacrificio è valso a qualcosa. Finita l’evocazione,
Jean muore.
Gance,
volendo chiarire la sua opera conclusa così si espresse alla stampa:
L’opera ha attinto la sua sensibilità
immediata dagli stessi avvenimenti e quando un fante ha pianto, accusato o
cantato, non ha fatto che continuare i pianti, l’accusa o il riso delle
trincee. J’accuse è un grido virile contro la voce bellicosa delle armi, un
grido obiettivo contro il militarismo tedesco e l’assassinio che esso ha
commesso contro l’Europa civile.
Le
premesse omeriche dunque si stemperarono per dar voce ad un confuso ma evidente
pacifismo di fondo. Gance, nel corso dei due anni che impiegò a realizzare il
film, assorbì correnti e idee che circolarono vorticosamente presso l’opinione
pubblica francese che aveva perso, in gran parte, l’entusiasmo patriottico
dell’inizio della guerra. Non fu un caso che le prime proiezioni del film, nel
1919, provocarono in Francia un moto di sdegno e di protesta negli ambienti
sciovinisti che accusarono Gance di antimilitarismo e disfattismo. Già nel
1915, con il prolungarsi della guerra, l’opinione pubblica aveva iniziato a
distaccarsi dal nazionalismo degli inizi tutto alimentato dalla propaganda anti
tedesca e che vedeva nel Kaiser il nemico del progresso e della democrazia. Il
1916 fu l’anno di Verdun in cui i francesi persero 275.000 uomini. Gli
sciovinisti parlarono di “morti in piedi”, pronti a riprendere le armi e
difendere la giusta causa francese. Ma Gance, che riprese quella metafora, fece
rialzare i morti per esigere i conti dalle retrovie.
L’eco lontana del
socialismo avanzante diede voce ai detrattori della guerra e Gance attinse alla
loro retorica per fare del proprio film un atto di denuncia contro gli orrori
del conflitto. In Francia si moltiplicarono gli scioperi nelle fabbriche e i
casi di ammutinamento nell’esercito (il 4 giugno 1917 la polizia francese sparò
su una folla di donne in sciopero a Parigi). Proprio in questo clima prese
avvio il progetto di Gance che dovette coniugare le esigenze produttive
(utilizzò uomini dell’esercito e fondi del ministero della guerra) a quelle
artistiche che lo vedevano simpatizzare per i movimenti pacifisti. Il film fu,
in questo senso, un groviglio di passioni e sentimenti talvolta contrastanti.
Dall’esaltazione dell’eroismo individuale al finale moraleggiante con i morti
che sfilavano accanto ai vivi sopravvissuti alla guerra.
La polemica insomma
non poteva dispiegarsi pienamente, tanto più che la produzione della Pathè era
in difficoltà a causa di quegli scioperi che si legavano alle proteste contro
la guerra. La casa di produzione licenziò mille operai e fece stampare, nel
1917, le sue pellicole negli Stati Uniti. Il film di Gance, quindi, non poté spingere a fondo la propria protesta mantenendo la sua denuncia su un piano
declamatorio e poetico senza alcun riferimento alle manifestazioni reali contro
il conflitto. Prosciugato del suo potenziale politico, il film si ricorda per
il finale potente e visionario in cui il Poeta Jean (non casualmente) evoca una
visione apocalittica di morti che risorgono e chiedono conto ai vivi del senso
del loro sacrificio. Molti degli uomini che parteciparono alle riprese del film
(soldati dell’esercito francese), temporaneamente congedati dagli orrori del
fronte, divennero, una volta tornati alla guerra, essi stessi vittime del
conflitto.
L’ambivalenza
del messaggio si articola attraverso lo sviluppo psicologico dei due
protagonisti maschili, uno convinto patriota e l’altro sensibile poeta che
condivideranno un comune destino, ma vedranno la guerra sotto due ottiche
diverse eppure complementari. Sarà il poeta a gettare il grido di accusa (vede
gli scheletri danzare sui soldati), sarà Francois a combattere nel segno di una
vittoria alata che deve liberare la Francia da un terribile nemico. Alla fine i
vivi e i morti sfileranno sotto l’arco di Trionfo, ennesimo messaggio ambiguo
di un film che è comunque un prezioso documento storico.
Storia del cinema (1909 – 1920), di George Sadoul
Hearts
of the world (Cuori del mondo) di D. W. Griffith (1918)
Il
film di Griffith, all’epoca considerato ormai un maestro indiscusso grazie ai
suoi precedenti Intolerance e Nascita di una nazione, ha un notevole
valore storico perché ci consegna un documento visivo che chiarisce certi
stereotipi sulla Prima Guerra che andavano consolidandosi e che non erano messi
in discussione per motivi propagandistici. Il film, pur incentrato su una
storia sentimentale, mette in scena la Grande Guerra come fosse un conflitto
ottocentesco in cui ancora gli uomini possono ritagliarsi una dimensione eroica
e in cui la battaglia è ancora nel corpo a corpo e nel confronto individuale.
In una sequenza di attacco alle trincee, vediamo infatti i soldati americani
affrontare i tedeschi in una lotta all’arma bianca con le baionette innestate
in un contesto bellico in cui è ancora possibile la visione d’insieme, il campo
lunghissimo del teatro di guerra come se a scrutarlo fosse un generale
napoleonico dalla cima di una altura.
Griffith, che pure aveva vissuto in prima persona la
realtà della guerra in Europa, sembra non conoscerne a fondo i meccanismi e
pare rimasto ad una visione quasi romantica, sicuramente debitrice di certa
iconografia della guerra di Secessione americana. Ma la Grande Guerra è spersonalizzante,
è guerra di massa in cui la tecnologia sconfigge e schiaccia l’uomo, in cui è
impossibile ogni eroismo (non per nulla nell’immaginario della Prima Guerra
l’eroe è il milite ignoto, l’uomo senza volto ed identità), è macelleria di
corpi gettati allo sbaraglio, è confusione spaziale. Griffith in questo senso
ci offre una immagine retrò della guerra e dunque falsa.
L’impossibilità per
gli operatori di riprendere le battaglie nel cuore dell’azione privano quella
guerra di un supporto visivo reale di quello che doveva essere il climax di
quei combattimenti. Saranno soltanto i resoconti dei reduci e una lenta
liberazione dagli intenti propagandistici che permetteranno al cinema di
ricreare con maggior aderenza al vero quel conflitto e restituiranno un senso
di quello che realmente fu quella guerra. Per assurdo dunque è stato il cinema
che ha dovuto ricostruire e restituire la verosimile atmosfera delle battaglie
di trincea e dei tentativi di assalto lungo le cosiddette terre di nessuno. Il
film di Griffith, che dipingeva il nemico tedesco con un’enfasi negativa,
contribuì, inoltre, ad aumentare il numero di coloro che si andarono ad
iscrivere nelle liste di reclutamento per combattere in Europa contro il grande
demone teutonico.
Il prestito (The Bond) di Charles Chaplin (1918)
Charlot soldato (Shoulder Arms) di Charles
Chaplin (1918)
Era
l’8 aprile 1918, di fronte ad una folla mai vista, nel cuore di New York,
Charles Chaplin tenne un discorso pubblico in favore dei buoni emessi dallo
Stato per raccogliere il denaro occorrente alla Guerra in corso in Europa.
Altri attori famosi come Mary Pickford e Douglas Fairbnaks giravano gli Stati
Uniti con la stessa missione da compiere. Chaplin quel giorno parlò così:
Chiedo a
voi qui presenti di dimenticare tutto sulle percentuali di questo terzo
prestito di guerra. La vita umana è in pericolo, e nessuno deve preoccuparsi
del tasso di interesse che i buoni possono fruttare né di quel che si può
guadagnare acquistandoli. C’è bisogno di denaro per sostenere il grande
esercito e la marina dello zio Sam. In questo momento la Germania sta prendendo
il sopravvento (con la chiusura del fronte Orientale e l’uscita di scena della
Russia in effetti la situazione si era complicata per le forze dell’Intesa.
N.d.r.), e noi dobbiamo avere i dollari che ci permetteranno di intervenire in
Europa e di cacciare quel vecchio diavolo del Kaiser fuori dalla Francia!
Chaplin
proseguì il suo viaggio per due mesi girando mezza America. Al ritorno a
Hollywood si era ormai fatta forza in lui l’idea di realizzare un film sulla
guerra. Non che la sua reputazione fosse immacolata, viste le accuse che gli
erano piovute per la sua reticenza a partire volontario per l’Europa. Chaplin
era cittadino inglese ma residente negli Stati Uniti. In patria venne preso di
mira perché ritenuto renitente alla leva. Addirittura lo scrittore Kipling
spese parole molto dure nei suoi confronti. Chaplin si difese affermando di
essersi iscritto nelle liste della leva inglese ma che lo stato maggiore
dell’esercito riteneva più utile la sua funzione di propaganda e di sostegno
alla campagna sui prestiti di guerra. Dettaglio non da poco era poi la clausola
assicurativa che la major per la quale lavorava aveva stipulato in caso di
morte dell’attore e che era un forte deterrente alla sua partenza per il
fronte. Sulla sua codardia avevano speculato i vignettisti di mezzo mondo
immaginandolo in lotta con il suo bastoncino contro i cannoni del Kaiser. Del
resto il clima verso coloro che non partivano per la guerra era piuttosto
pesante. In Inghilterra gruppi di donne fermavano per strada i giovani civili
consegnando loro una piuma bianca accusandoli di codardia per essersi sottratti
alla coscrizione.
I più
stretti collaboratori di Chaplin cercarono di dissuaderlo dal portare avanti il
progetto del film che mescolava la commedia al dramma di una guerra, per di
più, ancora in corso. Ma Chaplin fu irremovibile per quanto piuttosto indeciso
sull’idea finale (si pensi che girò un primo copione in un mese e poi scartò
completamente tutto il girato riscrivendo un altro canovaccio); il desiderio di
rinnovare la propria immagine di patriota prevalse ed egli, in più, promise di
realizzare un breve film gratuitamente a favore della campagna dei prestiti di
guerra.
Si intitolò The bond (L'obbligazione) e gli portò via un mese di lavoro e di interruzione sul principale
progetto che sarebbe diventato Shoulder
Arms ma all’epoca aveva il titolo temporaneo di Camouflage. In questo breve film
Come set naturale per le trincee Chaplin utilizzò la
campagna attorno a Broadway. Chaplin terminò il film nel settembre del 1918 e
rimase incerto sull’esito di un lavoro che muoveva al riso forse più di ogni
altro suo lavoro precedente. La sua comicità si librava sull’orlo della
tragedia. Il film coniugava l’irresistibile verve comica di Chaplin con
l’evocazione di dettagli della vita di trincea che erano molto vicini alla
realtà (il pacco di viveri da casa, i cecchini, le trincee alluvionate, le
lettere al fronte).
Lungi dal demonizzare il nemico, Chaplin provava ad
esorcizzare il dramma bellico rinchiudendolo in una trama che alla fine
restituiva della tragedia solo l’eco di un incubo. Una sorta di film
consolazione che portava con sé l’aspirazione inconscia di un popolo che
sognava che tale tragedia si concludesse al più presto.
In
una sequenza in particolare Chaplin pare avvicinarsi ad una idea di comunanza
universale anche tra soldati nemici: quando Charlot cattura i nemici tedeschi e
sculaccia un ufficiale prigioniero (che aveva rifiutato una sua sigaretta)
ottiene il plauso dei soldati semplici nemici, nel nome di un cameratismo degli
umili che travalicava i confini delle trincee.
Il finale in cui Charlot si
mette nei panni dei cattivi e in cui i suoi baffetti sono chiusi in una divisa
teutonica sono la premessa di quanto rivedremo ne Il grande dittatore nel quale Hitler come
Guglielmo in Charlot soldato, Chaplin immagina di poter ingannare e catturare rendendolo innocuo; forza dell’utopia del cinema, illusione di un idealista.
Chaplin
di David Robinson
All’ovest
niente di nuovo di Lewis Milestone (1930)
Nel
1929 E. Remarque pubblica il suo romanzo pacifista Niente di nuovo sul fronte occidentale, un anno dopo l’americano
Milestone ne trae un film che come il libro grida con forza il suo messaggio
contro la guerra. Nel 1934 i nazisti bruceranno il libro sulle piazze in segno
di disprezzo per un’opera che strideva contro il rinascente nazionalismo
tedesco. Il professor Kantorek è l’incarnazione del fanatismo di una
generazione cresciuta all’ombra del Kaiser Guglielmo (la cui immagine troneggia
al centro dell’aula) ed intrisa di valori aggressivi mascherati dietro il
patriottismo e il nazionalismo. Kantorek è un seduttore di anime e usa il
proprio ascendente di insegnante per convincere dei giovani ingenui ed incerti
ad imbarcarsi in una impresa più grande di loro.
Sulla lavagna riecheggiano i
versi dell’Iliade e quella invocazione di Kantorek all’amore di patria ha
dunque anche il suggello della Storia e del mito che i giovani tedeschi
dovrebbero rinnovare nella Prima Guerra Mondiale. Le inquadrature che mostrano
Kantorek persuadere gli studenti ad arruolarsi si fanno sempre più stringenti
fino ai primissimi piani del volto di un esaltato professore che pare quasi
ipnotizzare i suoi ascoltatori. Uno di loro immagina l’orgoglio del padre,
altri si fanno trasportare dall’entusiasmo generale.
Mentre fuori sfilano
truppe in parata tra l’entusiasmo generale, all’interno di quel mondo, la
scuola, che dovrebbe formare uomini e cittadini, si sta consumando il dramma di
una educazione al servizio della propaganda volta a sfornare carne da macello
più che anime pensanti (il mix di una educazione sbagliata e di un contagioso
entusiasmo popolare sono letali). I suoi giovani studenti avranno modo
piuttosto velocemente di ricredersi e ad uno ad uno saranno vittime di quel meccanismo
in cui hanno accettato di farsi coinvolgere. In pochi minuti Milestone ci offre
l’immagine più efficace della grottesca spirale che ha colto un intero
continente alla vigilia di un periodo di lutti e sofferenza.
In tutto questo
compare un postino che consegna la posta per l’ultima volta. E’ sorridente,
fiero, è Himmelstoss; per lui la guerra sarà una occasione di rivalsa sociale,
di ascesa. Lo stesso postino lo ritroveremo a guidare ed umiliare le reclute
(borghesi) in un ribaltamento dei ruoli che solo la guerra può produrre.
“Dovete dimenticare quello che eravate” dice emblematicamente l’ufficiale nel
momento che inizia l’addestramento delle sue reclute. Il suo personaggio sarà
sicuramente di ispirazione per la figura dell’addestratore in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick.
Nel finale il giovane soldato, sopravvissuto ai suoi compagni, è nella sua
trincea, prova ad afferrare una farfalla ma un cecchino, senza nome e identità,
senza un motivo lo uccide. La mano del giovane non raggiunge la farfalla, simbolo
di quella vita che vola via effimera proprio come quella di una farfalla. La
retorica di Kantorek echeggia nel finale quando i giovani soldati marciano
nuovamente guardando dietro di sé, ma sullo sfondo le croci bianche ci
ricordano che quelli non sono che morti in marcia, che giovani innocenti
sacrificati sull’altare di idee e principi lontane dalle loro aspirazioni e
dalla giustizia di un mondo pacifico.
Westfront di Georg W. Pabst (1930)
Uno
dei massimi autori del cinema muto Tedesco, l’austriaco G. W. Pabst, esordisce
nel sonoro con un film dalla forte impronta antimilitarista e pacifista, in
chiara controtendenza con il rinascente nazionalismo e militarismo che
porteranno all’avvento del Nazismo. Westfront è un atto di accusa contro la
Prima Guerra Mondiale di cui denuncia l’insensatezza attraverso un messaggio
amaramente simbolico e crudamente realistico nella descrizione della vita nelle
trincee.
Il protagonista, il soldato tedesco Karl, che deve sopportare le
disumane condizioni di vita delle trincee, torna a casa in licenza e trova la
moglie nelle braccia di un altro. A sofferenza si aggiunge sofferenza: la
guerra non soltanto distrugge le vite umane ma disgrega lo stesso tessuto
sociale, allentando i principi morali e i legami affettivi.
In un finale
straziante, ambientato in un ospedale militare in cui è ricoverato lo stesso
protagonista (Karl, morente, rivede in sogno la moglie che gli chiede perdono e
lui afferma che la colpa è di tutti, nessuno escluso), il regista mostra corpi
straziati, menti sconvolte, ma anche gesti di fratellanza tra soldati nemici
feriti che acuiscono il senso dell’inutilità di quella strage (un soldato
francese stringe tra le sue mani quelle di Karl e lo chiama camerata). Il film
si chiude con la scritta “Fine?!” accompagnata dal suono delle esplosioni, in
una sorta di commiato sospeso da una domanda che pare presagire i futuri drammi
che coinvolgeranno l’Europa. Pabst, per buona parte della durata del regime
nazista girò i suoi film in Francia.
Storia
del cinema e dei film di David Bordwell
Les croix de bois di Raymond Bernard (1931)
The road to glory di Howard Hawks (1936)
Un
film chiave nella rappresentazione della Prima Guerra Mondiale è il francese Le croix de bois (le croci di legno)
tratto da un romanzo di Roland Dorgeles del 1919 in cui erano narrate le
vicende autobiografiche dell’autore che aveva vissuto l’esperienza del fronte
franco – tedesco. Il film diventa un prototipo per gli altri del genere
(debitore ne sarà sicuramente Kubrick a sua volta influenzato anche da Hawks
che farà un remake delle Croci dal titolo The
road to glory del 1936; Orizzonti di gloria nell’originale inglese si
intitola Paths of glory con
riferimento, paths - i sentieri, al titolo di Hawks) al punto che alcune
sequenze delle battaglie verranno inserite in vari documentari sulla Prima
Guerra come fossero riprese dal vero degli eventi.
Il film si apre sulla
gioiosa partenza dei soldati accompagnati dall’entusiasmo delle folle e dalla
fiducia in un evento breve e positivo. Ma il regista ci mette subito in
guardia: quei soldati in partenza diventeranno altrettante croci, una delle
quali ha incisa l’epigrafe In memoriam, monito per le future generazioni.
Un
uomo, confuso tra la folla festante, è sicuro che questa guerra frutterà miliardi
alla Francia; un manifesto ricorda ai cittadini di non indebolire lo spirito
con ingiustificate emozioni (di paura aggiungiamo noi); la fila dei giovani che
si arruolano è chiusa però da una breve dissolvenza in cui compare il volto
sofferente di una donna, simbolo delle madri che perderanno i figli in guerra.
Vi è dunque nel film, insito fin dall’inizio, un sentimento di profondo
scetticismo verso la retorica della guerra. In una Francia che ancora non aveva
smaltito l’euforia nazionalistica dei trattati di Versailles, il film di
Bernard è un atto di accusa e un monito affinché non si cada nuovamente nella
tentazione di intraprendere nuovi “risolutori” conflitti.
La
sequenza della battaglia dura 14 minuti ed è costruita seguendo un criterio di
realismo che Bernard persegue con scelte stilistiche precise. Intano si perde, piuttosto
velocemente, l’ordine spaziale della scena. Dopo un carrello iniziale sui
soldati in attesa dell’attacco, quando si entra nella terra di nessuno, il
montaggio perde le più elementari regole di raccordo e così i cannoni tedeschi
sparano indifferentemente da destra verso sinistra e da sinistra verso destra;
i soldati, spesso inquadrati contro luce, diventano sagome indistinguibili;
tedeschi e francesi diventano interscambiabili, egualmente ombre o fantasmi
destinati alla morte.
Bernard si ritaglia una intrusione extra diegetica con la
scritta che sottolinea l’assurda durata di quella battaglia: 10 giorni. Una
scritta che aumenta di volume. Il comandante che deve dare l’ordine d’attacco
misura il tempo con il suo orologio, il cui dettaglio viene ripetuto per
elevare il climax di tensione che precede la carneficina (echi di questa
sequenza si ritrovano in Hawks e in Kubrick).
L’audio dei bombardamenti è
martellante, gli effetti esplosivi estremamente realistici. Bernard ci restituisce la
confusione di quegli attimi in cui gli uomini sono veramente come formiche al
massacro. Kubrick opterà per una scelta visiva più ordinata, con quel carrello
laterale che accompagna l’attacco al Formicaio. La direzione dei soldati è
chiara, la posizione del nemico altrettanto (per quanto invisibile e quasi
metafisico). In Bernard questo non avviene, la geografia del luogo è confusa
come lo è la percezione spaziale dei soldati all’attacco, storditi dal fumo e
dai rumori. Questo ricercato realismo rientra nel progetto di Bernard di offrire
della guerra l’immagine vera depurata dei trionfalismi e della retorica
nazionalistica.
Nella
versione di Hawks, che usa largamente il materiale più spettacolare girato da
Bernard, dalle sequenze della battaglia fino a quelle dell’ospedale in una chiesa
(che era già presente in Westfront di Pabst), la componente eroica è
certamente più forte e il colonnello Roche muore addirittura insieme al padre
che si era arruolato sotto falso nome e largamente fuori età (come a
sottolineare la trasversalità generazionale nella necessità del sacrificio per
la patria).
La matrice hollywoodiana si può riscontrare anche nell’importanza
data alla figura femminile (la avvenente crocerossina Monique, contesa tra due
ufficiali, di cui non si manca di sottolineare la carica erotica)
e nel finale
che esalta l’orgoglio patriottico e il valore dei soldati coinvolti nel
conflitto, ricordando che il battaglione (passato in rivista dal colonnello,
mentre extra diegeticamente risuonano le note della Marsigliese), di cui fanno
parte i protagonisti, è stato creato da Napoleone.
Il motivo di condanna morale
della guerra praticamente scompare e basta un confronto tra gli incipit dei due
film per cogliere appieno la differenza (le metafore visive del film di Bernard
sono eluse da Hawks che entra subito nel vivo dell’azione). Il motivo ripetuto
della tromba della carica ci rimanda ai topos del cinema western in cui la
tromba è collegata, oltre che al tema dell’eroismo, anche all’idea della
giustizia che trionfa sul male.
In una delle sequenze iniziali, tra l’altro, è
rappresentato un bombardamento da parte di uno Zeppelin tedesco, una delle rare
ricostruzioni cinematografiche di azioni del genere.
L’uomo
che ho ucciso di Ernst Lubitsch (1932)
Nel
pieno di una ondata di revanscismo e nazionalismo germanico, il tedesco
Lubitsch (ma stabilmente ormai al lavoro nello studio system americano)
realizza per la Paramount un film decisamente controcorrente e che paga con
l’insuccesso commerciale questo suo coraggio. Tratto da una piece teatrale (un
remake verrà realizzato da Francois Ozon nel 2017 con il titolo di Frantz),
L’uomo che ho ucciso è la storia
della ricerca di un perdono e di una redenzione tutta individuale e personale
di chi, suo malgrado è sopravvissuto agli orrori della guerra portando il
proprio contributo di sangue. La storia del giovane soldato francese che uccide il tedesco
Walter Holderlin in una lotta di trincea e che si reca in Germania per chiedere
perdono ai suoi familiari, è una sorta di accorata richiesta, carica di speranza, che il capitolo
dei rancori e delle vendette si chiuda una volta per sempre.
Accomunato dalla
passione per la musica, il carnefice si introduce in casa della vittima e
diventa figlio al posto di Walter riuscendo nel miracolo di riconciliare se
stesso e i genitori del soldato tedesco con la vita. Nel segno della musica
(Paul suona il violino di Walter di fronte ai suoi genitori commossi) avviene
il miracolo del perdono che l’immagine della Madonna con il figlio morto tra le
braccia evoca nella sequenza iniziale, sequenza straordinaria nella sua
efficacia cinematografica di condensare in pochi ma chiarissimi passaggi visivi
il senso di sdegno per la guerra e il desiderio di riconciliazione religiosa
con la vita.
I
cannoni che continuano a sparare (doppia allusione agli scoppi di festa ma
anche al riecheggiare delle cannonate mortali della guerra), mentre le campane
suonano a festa per l’anniversario della vittoria francese, sono un monito (che
verrà ribadito durante il film che allude al prepararsi di una nuova guerra) e
stridono con l’aria di festa che le parate evocano. La scritta di un ospedale
che richiama al silenzio (o che, ambiguamente, pone l'ospedale stesso in un angolo
silenzioso, messo a tacere) ci conduce tra le camerate di quel luogo di
sofferenza in cui i cannoni, che sparano forse per la festa, sono ordigni che
terrorizzano i pazienti.
Una chiesa gremita di soldati, in divise scintillanti, che pregano ma mostrano le armi, le pistole, le sciabole in uno stridente
contrasto che si fa più evidente quando con un carrello in avanti Lubitsch
stringe sul dettaglio di un crocifisso in cui l’immagine della sagoma del
Cristo sofferente si accompagna al rumore delle cannonate, quasi che anch’esso
fosse vittima di quelle esplosioni. L’ipocrisia di celebrare la morte e la
sofferenza si smaschera allorché i tronfi ufficiali abbandonano la chiesa in
cui rimane un uomo nascosto e inginocchiato, veramente pentito e sofferente. Il
dettaglio degli stivali luccicanti, delle sciabole che toccano il pavimento
accentua il contrasto (alla Eizenstein) tra la sacralità del luogo e la
profana presenza dei militari portatori di morte. Il parroco che li benedice è
dalla loro parte in questo incipit che denuncia (come ne La corazzata Potemkin) la correlazione tra poteri religioso,
politico e militare.
Nel
cuore del film, il discorso del padre di Walter, riunito con gli amici in una
taverna, che ha accolto il giovane francese tra le mura di casa e deve
difendersi dalle maldicenze del paese, i cui cittadini paiono ancora pervasi da
un profondo odio di tipo sciovinistico, risulta come il definitivo atto di
accusa nei confronti di chi è veramente stato il colpevole di quella inutile
strage, ovvero di quei padri che hanno mandato a morire i figli con enfasi ed
entusiasmo: Noi i padri! Qui e dall’altra
parte. Noi eravamo troppo anziani per combattere, ma non lo eravamo per odiare.
Noi siamo i responsabili.
Il
film, dopo l’insuccesso iniziale, fu rieditato dalla Paramount e cambiò due
volte il titolo: Broken Lullaby e,
nel 1936, The Fifth Commandment.
Presentato alla prima edizione della mostra di Venezia non venne distribuito in
Italia per la proibizione del regime fascista che ne censurò le evidenti
tematiche anti militariste e pacifiste.
Il sergente York di Howard Hawks (1941)
Cinque anni dopo Road to glory, Hawks torna al periodo della Prima Guerra Mondiale per celebrarne uno degli eroi, il sergente Alvin York (nel film Albert York), interpretato da Gay Cooper. Ne realizza un film sontuoso che fa manbassa di premi Oscar e che incarna alla perfezione lo spirito americano sul punto di essere nuovamente chiamato alla prova della guerra (il film esce nelle sale mentre sta per approssimarsi l’ingresso degli USA nel secondo conflitto mondiale). La storia di York è letta da Hawks come riproposizione dell’ascesa del self made man, dell’americano qualunque, dell’uomo virtuoso dell’America delle campagne, devota e lavoratrice (il protagonista non sa cosa sia una metropolitana).
York non è irreprensibile ma un evento miracoloso lo converte verso una visione rigorosamente religiosa della vita (egli diventa la pecorella smarrita che rientra nel gregge che è evocata dal pastore nell’omelia della sequenza iniziale in chiesa). Un fulmine, come per San Paolo e Lutero, si abbatte su York la cui devozione deve misurarsi con il dilemma della partecipazione alla guerra.
Egli è un obiettore di coscienza, ma è costretto ugualmente a partire trovandosi di fronte ad un bivio esistenziale: seguire alla lettera i comandamenti biblici, in specie quello del non uccidere, oppure abdicare al dovere e al sacrificio per la patria? Hawks circonda il protagonista di personaggi che lo inducono alla riflessione, che lo conducono sulla retta via. In particolare gli ufficiali della caserma di addestramento sono disegnati come bonari, tolleranti e comprensivi (molto poco realistico specie quando l’ufficiale indulgente concede a York una licenza per tornare a casa e riflettere meglio sui suoi dubbi); uno di loro, come il pastore del suo paese, si prende a cuore il giovane e cerca di risolverne i dilemmi esistenziali. Il buon soldato è un nuovo padre per York che riesce a trovare le risposte che cercava tanto nella Bibbia quanto nella riflessione personale e nel ritorno a casa.
E’ questo il cuore dell’America: la fattoria, la terra, la futura moglie. York legge la Bibbia sulla cima di un dirupo, ha di fronte a sé tutto il suo mondo ed ecco la risposta: dare a Dio ciò che è di Dio e dare a Cesare ciò che è di Cesare. Dalle pagine della Bibbia una illuminazione insperata, mentre la voce off della coscienza di York sottolinea il rovello del protagonista tormentato dal dualismo tra Dio e Patria. La giustizia di dio è proiettata verso l’aldilà, quella dell’uomo ha un suo percorso terreno ed è nelle mani dell’uomo (sappiamo quanto gli americani si sentano investiti di questa responsabilità terrena). York deve difendere i giusti principi e soprattutto la libertà, il bene terreno più prezioso: ecco la conciliazione delle due dimensioni che York andava cercando.
Dio è con gli americani, Dio è con York, dalla parte della giustizia. Il messaggio del film è chiarissimo: è dovere di ogni americano difendere la libertà di ciò che ha costruito con fatica. La ricompensa è già qua: gli ultimi 15 minuti del film, infatti, mostrano le celebrazioni dell’eroe, riconosciuto come tale dai commilitoni, dagli ufficiali, dai compatrioti, dai compaesani. York realizza se stesso come uomo pienamente spirituale e come uomo della forza e della giustizia, come soldato che uccide per un bene superiore. Quella di Hawks è una chiamata alle armi soprattutto per i suoi contemporanei, compresi quei puritani restii alla violenza per la violenza. Il nemico è sempre lo stesso, i tedeschi, la strada è già tracciata, la ricompensa sicura. La trasfigurazione del mito americano, il suo bisogno di eroi, la sua celebrazione e la sua riproposizione. Hawks è l’americano roosveltiano e non vuole nasconderlo.
Orizzonti
di gloria di Stanley Kubrick (1958)
Nel
1956 Kubrick e Jim Thompson presentarono alla United Artists una sceneggiatura
che trattava di un episodio della Prima Guerra Mondiale. Era un episodio che
coinvolse l’esercito francese la cui immagine poteva essere decisamente
scalfita. Fu per questo che la United rifiutò di finanziare il film che
sicuramente non avrebbe avuto il consenso alla proiezione in Francia. Inoltre
la sceneggiatura non prevedeva parti femminili ed aveva un finale tragico; “Non
è esattamente quello che sognano gli Studios come film di Natale” commentò
sarcasticamente il socio di Kubrick, Harris. Al progetto si mostrò interessato
Kirk Douglas, allora attore tra i più gettonati di Hollywood, che pretese la
parte di protagonista contribuendo alla organizzazione economica del film,
tanto che convinse la United a tornare sui suoi passi e finanziare la
pellicola. Un terzo dei costi erano per l’ingaggio di Douglas (350000 dollari
su un budget totale di 950000). Le riprese del film si svolsero in Germania, a
Monaco, in virtù del fatto che il sentimento antifrancese di cui era permeato
il film impediva di effettuare le riprese in Francia.
La
scena della corte marziale si svolge all’interno di un palazzo reale bavarese
caratterizzato dal pavimento a scacchiera. Proprio gli scacchi erano uno dei
giochi preferiti di Kubrick, quasi un’ossessione e i tre soldati, inquadrati
dall’alto, parevano proprio delle pedine (vittime di un gioco sadico) su una
scacchiera. La sequenza ha echi dell'analoga scena del processo ne La passione
di Giovanna d'Arco di Dreyer: i giudici diventano sagome scure dietro cui
sembra quasi nascondersi la macchina da presa e le loro ombre minacciose
coprono i corpi degli imputati. Il potere, nella sua fredda razionalità (la
scacchiera appunto) non potrebbe essere più oscuro e minaccioso.
Per
le scene di massa Kubrick utilizzò 300 poliziotti tedeschi che interpretarono
il ruolo dei soldati francesi. Erano ben preparati perché la polizia tedesca
prevedeva un addestramento militare di tre anni per i suoi allievi, ma quello
che dovevano mettere in scena era piuttosto lo scoraggiamento, la disillusione
e la fiacchezza di un esercito, quello francese del conflitto, rassegnato al
proprio destino. La disperazione morale che si doveva mostrare di quei soldati
era funzionale all’idea dell’inutilità della guerra che doveva emergere dal
film.
L’uso
della macchina a mano accentuò l’effetto di realismo, specie nelle sequenze di
battaglia, che Kubrick perseguiva con il suo solito maniacale perfezionismo. Il
campo di battaglia fu ricavato da un pascolo sul quale si lavorò per oltre tre
settimane, trasformandolo in una terra di nessuno arida e sterile, devastata e
ricoperta di oggetti bellici di ogni tipo (filo spinato che si contorceva in
forme macabre), compreso un velivolo che doveva bruciare per tutto il tempo
dell’attacco (la sagoma dell'aereo è il simbolo di un eroismo individuale impossibile,
la distruzione di ogni parvenza di onore; non a caso la sagoma compare nella
terra di nessuno in una sequenza notturna, come immagine fantasmatica quasi
onirica e poi scompare nell'attacco del giorno successivo).
La quantità di
esplosivo che venne accumulata costrinse la produzione a farsi dare un permesso
da una commissione governativa tedesca. Kubrick fece ripetere alcune sequenze
della battaglia fino a trenta volte. Il famoso carrello laterale che seguiva
Douglas nella sua corsa verso il reticolato nemico, si componeva in realtà
delle riprese di sei macchine da presa poste le une dietro alle altre e che
correvano parallele all’attacco. Il campo di battaglia era diviso in 5 zone di
morte: a ciascuna comparsa veniva assegnato un numero da uno a cinque e gli
veniva detto di morire nella zona corrispondente, se possibile, vicino a
un’esplosione. Kubrick manovrava personalmente una delle macchine.
Per
permettere le carrellate lungo le trincee francesi, Kubrick, avrebbe voluto
tradire le misure storiche di queste postazioni rendendole più larghe di quanto
fossero realmente; per rimediare fece sistemare delle passerelle di legno in
terra su cui far muovere le macchine da presa, ma questo dettaglio era coerente
con le condizioni delle trincee reali, nelle quali le passerelle avevano la
funzione di evitare ai soldati di camminare sul fango che veniva a formarsi.
Come
quartier generale venne scelto un castello medievale che doveva risultare in
stridente contrasto con il sottosuolo a cui venivano costretti i soldati
semplici (del resto votati allo sterminio per il possesso di un luogo
ribattezzato emblematicamente “Il formicaio”). Il film era anche un atto di
denuncia delle discriminazioni sociali e delle distinzioni di classe che in
guerra venivano ad essere amplificate. I soldati semplici erano destinati alla
morte, gli ufficiali vivevano nel lusso e nella sicurezza di lontani manieri.
Il
finale del film è un ulteriore contributo all’idea centrale della guerra come
assurda e crudele: decine di soldati, colpiti da psicosi traumatica, assistono
inebetiti allo spettacolo di una ragazza tedesca (interpretata da Susanne
Christian, futura terza moglie di Kubrick) che canta per loro; essi sono
l’espressione vivente di uomini logorati, provati e stanchi della guerra. La malinconia
del canto accentua la sensazione che quella platea di soldati somigli ad un
ritrovo di bambini spauriti ed angosciati che piangono di fronte ad una donna
mamma che sta loro cantando una sorta di ninna nanna. Addirittura Kubrick
utilizzò, per la scena finale, gli attori che in precedenza erano stati uccisi,
come personaggi, nella ronda fuori dalla trincea, quasi a sottolineare il
destino di morte che aleggiava su quelle anime pure.
La
reazione al film da parte dell’esercito francese fu immediata (quasi
provocatorio l’uso della Marsigliese con la sua enfasi nei titoli iniziali),
tanto che fu lanciata una campagna di boicottaggio del film in tutta Europa.
L’idea che il comando francese avesse sacrificato delle vite umane innocenti
per la gloria nazionale irritò la comunità europea. Nel giugno 1958 Orizzonti di gloria fu proiettato a
Berlino e alla prima del film 50 francesi in abiti civili picchettarono
l’ingresso del cinema protestando a gran voce. I francesi minacciarono di
boicottare il festival di Berlino se Orizzonti
di gloria fosse stato incluso nel programma ed infatti il film fu escluso
dalla manifestazione. La proiezione del film fu permessa soltanto negli Stati
Uniti, nella Germania Ovest e nella parte britannica di Berlino dove pure
alcune proiezioni vennero disturbate da soldati francesi che gettarono bombe
puzzolenti in platea. Il film fu poi bandito dal circuito dei cinema
dell’esercito americano sparsi nel globo e dalla Svizzera. In Italia e in
Inghilterra si riconobbe invece l’alto valore culturale ed artistico della
pellicola. In Francia fu proiettato soltanto nel 1974. Il film, comunque, non
fruttò alcun profitto a Kubrick.
Stanley Kubrick, l’uomo dietro la leggenda
di Vincent LoBrutto
Il film
che rivede la Grande Guerra con un occhio retrospettivo molto meno indulgente e
trionfalistico dei precedenti. Messi da parte l’eroismo e l’onor di patria,
Monicelli dipinge il quadro di un’Italia i cui vizi e virtù ritroviamo
inalterati anche nello svolgersi tragico della guerra. Vedi scheda nel blog
Liberamente ispirato al romanzo di Emilio
Lussu Un anno sull'Altipiano, il film di Rosi si situa in un contesto di
fermento sociale ed è collocabile in quel cinema di opposizione ai valori
borghesi che è figlio del 68. La lotta di classe emerge con forza e Gian Maria
Volontè, volto icona del cinema “contro”, incarna l’ufficiale portatore di idee
rivoluzionarie e scomode. L’ottusità degli alti comandi è ribadita ad ogni
fotogramma. I soldati sono i giovani che si scontrano con padri che non hanno
pietà. Vedi articolo nel blog.
E
Johnny prese il fucile di Dalton Trumbo (1971)
Nel
1932 lo sceneggiatore americano Dalton Trumbo viene a conoscenza della vicenda
di un soldato inglese, rimasto senza gambe, braccia, cieco, sordo e muto a
seguito di un combattimento durante la Prima Guerra Mondiale e morto dopo 15
anni di sofferenze. Quella vicenda lo ispira e nel 1939 pubblica un romanzo dal
titolo Johnny got his gun. Siamo alla
vigilia dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e il romanzo di Trumbo ha
una grossa eco al punto che viene letto alla radio da James Cagney, in una
riduzione letteraria. Il protagonista del romanzo vive l’esperienza del soldato
inglese sopravvissuto come un troncone umano e tenuto in vita da medici più
preoccupati di sperimentare e studiare quel corpo piuttosto che accelerare una
morte che sarebbe stata una liberazione. Occorrono 30 anni perché Trumbo abbia
la possibilità di realizzare un film su quel canovaccio.
Nel 1971, prodotto da
una casa americana indipendente, esce Johnny
got his gun in versione cinematografica, diretto dallo stesso Trumbo. Siamo
nel pieno della contestazione contro la guerra del Vietnam e il film ne diventa
un manifesto con il suo messaggio pacifista che va oltre la condanna della sola
Prima Guerra Mondiale. Il film, ambientato quasi per intero nelle stanze
dell’ospedale dove viene ricoverato il soldato americano ferito, narra il
percorso mentale che porta alla presa di coscienza del soldato riguardo la
propria condizione, alternando i pensieri angosciosi del troncone umano,
relegato nel lettino d’ospedale, ai suoi sogni e ai suoi ricordi (le immagini
dell’ospedale sono in bianco e nero mentre quelle dei ricordi sono a colori, ribaltando
un cliché cinematografico ormai consolidato) che ci riportano alle motivazioni
che lo hanno portato ad arruolarsi e alla inconsapevolezza del destino a cui si
condannava.
Diversi sono i temi che affronta il film: il contrasto tra la
retorica e la sostanza della guerra (che produce corpi mutilati, sofferenza e
morte); la questione etica di una medicina che non pratica l’eutanasia di
fronte ad una sistematica macchina di morte come può essere la guerra e può
fare dei feriti altrettanti oggetti di sperimentazione o delle macchine di
nuovo funzionanti per essere condotte nuovamente al macello (la pietà
dell’infermiera che prova a farsi portavoce delle intenzioni del ferito, si
scontra con il cinismo dei dottori); la persistenza di umanità di fronte ad una
mutilazione di parti del corpo (fino a che punto può dirsi umana un’esistenza
come quella del soldato divenuto troncone vivente; il generale Tillery che lo
visita, mutilato anch’esso, esclama beffardamente: “il cuore, la circolazione e
i centri respiratori continuano a funzionare, in breve egli vive”);
la
necessità di nascondere gli orrori della
guerra all’esterno (il soldato immagina di poter dare senso alla sua esistenza
diventando fenomeno da baraccone e testimonianza vivente delle barbarie del
conflitto, ma tutto ciò gli viene impedito). C’è chi sostiene che il film di
Trumbo, che ebbe diverse vicissitudini distributive (un primo rifiuto di
presentazione al festival di Cannes; la ritardata distribuzione in Italia), non
abbia avuto il coraggio di andare fino in fondo alle proprie premesse decidendo
di occultare l’orrore delle mutilazioni e del corpo straziato; certo è che la
claustrofobica costruzione degli spazi ospedalieri (spezzata soltanto dai
flashback e dai sogni), connessa all’uso della voce off che dà corpo
all’angoscia insopprimibile della vittima, risultano un pugno allo stomaco per
lo spettatore medio.
Il
film, nel suo complesso, restituisce il forte messaggio pacifista che emerge
dal romanzo; di questo offriamo alcuni passaggi, tratti dai monologhi interiori
della voce narrante che descrive i pensieri che passavano per la mente del
disgraziato protagonista (l’assenza di virgole non è un svista ma una scelta
stilistica dell’autore, la cui scrittura si avvicina al flusso di coscienza di
Joyce):
… E in ogni caso per quale tipo di libertà
stavamo combattendo?...E di chi era quell’idea di libertà? Combattevano per la
libertà di mangiare coni gelato gratis tutta la vita o per la libertà di
derubare chiunque volessero tutte le volte che volessero o cosa altro?...E
comunque cosa cavolo vuole dire libertà? E’ soltanto una parola come casa e
tavolo. Solo che è un tipo speciale di parola. Uno dice casa e può segnare con
il dito una casa per indicarla. Ma quando uno dice andiamo a combattere per la
libertà non ti può mostrare la libertà...Nossignore chiunque sia andato a
combattere nelle trincee del fronte in nome della libertà era un emerito
cretino e chi ce l’ha mandato un maledetto ipocrita...Perdio la gente ha sempre
combattuto per la libertà. Nel 1776 l’America ha combattuto una guerra in nome
della libertà. Tantissima gente ci morì. E alla fine l’America aveva forse più
libertà del Canada o dell’Australia che non avevano affatto combattuto?...Se si
guarda un uomo si può dire è un americano che ha combattuto per la sua libertà
ha un aspetto molto diverso da un canadese che non l’ha fatto?...La guerra si
faceva per salvare la democrazia nel mondo nei piccoli paesi in tutti gli
uomini. Se la guerra fosse finita in quel momento allora la democrazia sarebbe
stata salva. Ma lo era davvero? E quale tipo di democrazia? E quanta? E di
chi?...Tutti dicevano che l’America stava facendo una guerra per il trionfo
della dignità umana. Ma quell’idea di dignità di chi era? E per chi era? Ci
dica ci spieghi bene signore di che dignità si tratta. Ci dica come mai un
degno uomo morto si debba sentire molto meglio di un indegno uomo vivo...Cristo
fateci combattere per cose che possiamo vedere e sentire e toccare con mano e
capire. Basta con le parole altisonanti che non significano niente come
patria...Se ti fai ammazzare combattendo per la madre patria è come entrare in
un negozio a comprare qualcosa con gli occhi bendati. Paghi per qualcosa che
non avrai mai...Ma i morti cosa dicono? Ne è mai tornato indietro uno uno solo
dei milioni che sono stati uccisi ne è mai tornato indietro uno a dire perdio
sono contento di esser morto perché la morte è sempre meglio del disonore?
Hanno detto sono contento di essere morto per salvare la democrazia nel
mondo?...Solo i morti sanno se vale la pena o no di morire per tutte quelle
cose di cui parla la gente...La vita è terribilmente importante perciò se l’hai
data via per qualcosa negli ultimi minuti che ti restano penserai con tutte le
tue forze alla cosa per la quale l’hai tradita. Dunque tutti quei ragazzi
sarebbero morti pensando alla democrazia e alla liberazione e alla libertà e
all’onore e alla sicurezza del focolare domestico e alle strisce e alle stelle
della bandiera americana? Hai proprio ragione tu non l’hanno fatto. Sono morti
piangendo dentro di sé come neonati...Lui (Johnny) era un uomo morto con una
mente che sapeva ancora pensare. Lui sapeva tutte le risposte che sapevano i morti ma loro non potevano più
pensarle...Lui poteva dire caro signore non c’è niente per cui valga la pena
morire io lo so perché io sono morto...Non c’è niente di nobile nel morire...Se
vi dicono che siete dei vigliacchi non fateci caso perché il vostro mestiere è
quello di vivere e non di morire...Non c’è niente di più importante della
vita...(E Johnny prese il fucile,
Libro I, capitolo X)
The trench di William Boyd (1999)
Questo
film di produzione inglese, passato da noi soltanto in edizione homevideo, è
interamente ambientato all’interno di una trincea inglese alla viglia della
battaglia della Somme, la più sanguinosa che la storia dell’esercito inglese
ricordi. Il film narra la (apparente) normalità della vita dei soldati
rintanati tra i cunicoli della trincea in cui la tensione è palpabile essendo
in quella condizione di vicinanza alla morte che sembra abbattersi da un
momento all’altro su di loro. Le foto pornografiche che vengono mostrate a
pagamento tra commilitoni, le visite degli ufficiali, i banali gesti quotidiani
che diventano potenzialmente gli ultimi dell’esistenza dei soldati (piccoli furti,
scommesse, sfide).
Con una messa in scena essenziale (girato quasi interamente
in studio) il film descrive con un certo realismo la quotidianità dei soldati
pronti al macello. Una certa lentezza, lo stile televisivo nuocciono
all’insieme ma una sequenza, più di altre, pare interessante: un operatore
scende in quei meandri per riprendere momenti di vita dei soldati al fronte. Un
ufficiale guida la coreografia; la macchina da presa è un marchingegno
delicato, i soldati dei manichini che devono parere sorridenti e sereni. La
messa in scena della guerra per la propaganda deve restituire una immagine
falsa e artefatta che influenza gli spettatori lontani dal teatro del
conflitto. Questa è l’immagine che ci restituiscono i documentari, questa è la
guerra che per un certo tempo vedono e conoscono (mediata) i cittadini europei.
Il primo esempio di cinema come macchina di propaganda e che anticipa le
modalità simili che adotteranno i regimi totalitari, usando la settima arte
come strumento privilegiato.
La
chambres des officiers di francois Dupeyron (2001)
In
Francia nel 2001, Francois Dupeyron, estrae dal romanzo di Marc Dugain, La chambre des officiers, un film che
ripercorre analoghe vicende a quelle narrate da Trumbo. In quest’opera la
vittima è un ufficiale che rimane terribilmente dilaniato nel volto a seguito
di una esplosione di una bomba in una missione di guerra. Trasportato in un
ospedale militare viene ricoverato in una apposita stanza per ufficiale dove
non esistono specchi ed è dunque possibile tenere coloro che hanno orribili
mutilazioni facciali. Il regista francese opta per una scelta a metà tra
l’occultamento di Trumbo e la visione quasi splatter delle mutilazioni,
decidendo di mostrare tali ferite in modo sfumato, filtrato, sostenibile.
Se in
Trumbo la chiusa del film lascia poco spazio alla speranza in Dupeyron vi è una
apertura ad una speranza futura per il malcapitato che diventa un freak della
società, un freak che può mostrare i segni del proprio destino senza doversi
forzatamente sentire un mostro; nel finale (che ci riporta al tema del
Frankenstein shellyano del rapporto tra il mostro e la società con tanto di incontro con una bambina dallo sguardo puro) una ragazza si imbatte nel giovane appena
dimesso dall’ospedale che si vergogna del proprio aspetto, ma la ragazza
esclama: "No, lei non è un mostro".
Una
lunga domenica di passioni di Jean Pierre Jeunet (2004)
Questo
film francese del visionario Jeunet è ambientato nell’immediato dopoguerra ma
ha una lunga serie di sequenze, specie nei primi 15 minuti, che riproduce con
una certa dovizia di particolari piuttosto realistici, il terribile contesto
delle trincee lungo il fronte occidentale. Quello che raccontano i primi minuti
(partendo da un carrello a scendere che ci mostra un crocifisso semi distrutto che
si erge in mezzo al filo spinato delle trincee, richiamando l’analogo
crocifisso distrutto all’interno della chiesa ospedale in Westfront)
è il tentativo di alcuni personaggi di evadere dall’inferno
della guerra con la piuttosto diffusa pratica dell’automutilazione di cui
vediamo una variegata vetrina di esempi. Con il tono a metà tra il favolistico
e il grottesco, con una fotografia dai colori saturi e caricati, Jeunet ci
porta dentro le trincee con le sue immagini deformate dal grandangolo, tra il
fango, l’umidità, i topi e la sporcizia anche morale che le attraversa. Questa
galleria di codardi e di ribelli, destinati alla logica punizione, entra di
diritto nell’immaginario cinematografico della Prima Guerra Mondiale.
War Horse di Steven Spielberg (2011)
Anche
Spielberg ha ambientato uno dei suoi film nella Prima Guerra Mondiale
conducendoci, come molti altri registi, all’interno delle trincee e della terra
di nessuno. A condurci in questo ennesimo viaggio nell’inferno della Grande
Guerra è però, questa volta, un cavallo, il cui passaggio di padrone in padrone
è l’occasione per raccontare la guerra da molteplici punti di vista (dalla
parte tedesca, a quella inglese fino al punto di vista dei contadini francesi).
Tratto da un romanzo per ragazzi di Michael Malpurgo in cui il cavallo Joe è
protagonista al punto da essere voce narrante in prima “persona”, il film si
muove rimanendo a metà tra la favola e il dramma bellico dipanandosi tra scene
spettacolari e pause bucoliche (la prima parte nella fattoria inglese e la
parte centrale in quella francese). Proprio la pace agreste viene spazzata via
dalla violenza della guerra che viola gli spazi sacri degli agricoltori
prendendo possesso delle terre e dei frutti che esse producono. Così alla
colorata campagna della pace fa da contrasto l’infernale territorio devastato
dalla guerra in cui scompare ogni barlume di vita vegetale e animale.
In questo
senso il cavallo che corre libero nella terra di nessuno e che si ribella alla logica
di morte delle trincee (in una delle sequenze più belle del film) rappresenta
proprio il barlume di vitalità naturale che sopravvive a dispetto delle
devastazioni umane. Il cavallo del miracolo, come viene definito, è quasi una
immagine allegorica della vita che non vuole farsi sconfiggere dal thanatos e
dalle pulsioni di morte che deflagrano in guerra.
Avvolto nel filo spinato come
un Cristo animale, Joe induce i combattenti alla sospensione del conflitto,
alla tregua perché la sua salvezza diventa il simbolo della salvezza
dell’intera umanità (come piace a Spielberg, egli sovente apre l’orizzonte
metafisico dei suoi film). Il soldato tedesco e quello inglese collaborano alla
liberazione dell'animale, se lo contendono con una moneta e poi si conciliano
riponendosi i rispettivi elmetti sulla testa. Dopo la miracolosa sospensione
della lotta, i due personaggi tornano alle rispettive trincee con sulla testa
il simbolo, vacuo, della loro (apparente) diversità.
In una sequenza precedente, poi, Spielberg mette in scena una anacronistica carica di cavalleria che è la rappresentazione più vivida di una Guerra che i contemporanei faticarono ad interpretare nella sua epocale novità. I cavalieri all'assalto contro le mitragliatrici furono l'ultima assurda permanenza di una guerra e di un mondo che non esistevano più. La Prima Guerra, in questo senso è uno spartiacque fondamentale, una vera terra di nessuno che chiude l'Ottocento e apre il Novecento. L'eroe della Prima Guerra Mondiale è ignoto, il milite senza nome e senza volto, letteralmente spazzato via da una tecnologia bellica disumana.
Il Barone Rosso di Roger Corman (1971)
Il Barone Rosso di Nikolai Mullerschoen (2008)
Lo spazio per l'eroismo sembra permanere soltanto nei duelli aerei e non è un caso che si ricordino aviatori come il Barone Rosso o Francesco Baracca quali veri, ultimi cavalieri di un'epoca che fu. E su di essi il cinema ha raccontato per immagini. Si segnalano, a questo proposito, due film sul Barone Rosso, dal titolo identico; la versione di Roger Corman del 1971 e l'ultimo, in ordine di tempo, del 2008 (produzione inglese ma regia del tedesco Nikolai Mullerschoen) la cui sequenza iniziale allude proprio al tema dell'aviatore come cavaliere e come eroe ancora legato ad un codice etico e militare che verrà drammaticamente dimenticato.
Russell
Crowe ci riporta là dove Peter Weir aveva ambientato il suo Gallipoli, nel
cuore di quella parte di conflitto della Grande Guerra che rimane ai margini
della memorialistica occidentale. Il fronte orientale nel sud, sulle coste
della penisola anatolica fu teatro di scontri altrettanto sanguinosi di quelli
degli altri fronti. A scontrarsi furono i turchi contro truppe di soldati
provenienti dai luoghi più disparati, compresi alcuni battaglioni di
australiani. Crowe torna a disseppellire le tombe dei morti per ritrovare i
figli e donare loro una degna sepoltura, ma in questo modo si trova, suo
malgrado, invischiato in un conflitto che non pare sopirsi. La forza del film
di Crowe, al di là di alcuni aspetti da action americano, sta proprio
nell’offrirci uno spunto di riflessione su ciò che la guerra lascia di irrisolto e di incompiuto.
La Turchia del dopo conflitto era una polveriera tutt’altro
che sopita e il film mostra i nazionalisti in corteo e i seguaci di Mustafa
Kemal (che diverrà il mitico Ataturk) che si riuniscono per organizzare la
rivoluzione. Ma ci sono anche i greci che si sono presi una fetta di Turchia e
poi gli inglesi ospiti indesiderati ma forti della loro posizione di vincitori.
Nel mezzo questo australiano a cui un ufficiale turco chiede argutamente: Ma voi dall’Australia siate venuti fin qua
senza reclamare alcun bottino? Possibile che abbiate combattuto senza avere
niente in cambio? Due brevi osservazioni che aggiungono una riflessione più
ampia all’insieme dei fatti narrati. La guerra non ha risolto tutto, anzi
talvolta ha aperto nuove crepe, ha allargato crateri ma soprattutto ha lasciato
cicatrici difficili da rimarginare (e così Crowe viene per disseppellire i propri morti e si ritrova nel mezzo di un altro conflitto, quello tra greci e turchi).
L’happy end hollywoodiano non deve far
passare in secondo piano il forte impegno civile del film che guarda alla
guerra anche nei suoi aspetti pratici e alle conseguenze. E’ valsa la pena
perdere due figli per un pezzo di terra ora desolata, per una libertà che non è
ancora libertà, per un vantaggio che non pare visibile e tangibile, per principi che faticano ad emergere? I padri
hanno mandato i figli alla guerra convinti di risolvere i problemi del mondo e
Crowe, nel suo personaggio, ne incarna il modello dolente e sconfitto. Non si dovrebbe fare la guerra in una terra
che non si conosce, è il monito del solito ufficiale turco al padre
australiano, monito forte e preciso.
The testament of youth di James Kent (2014)
Il
film è ispirato alla vicenda di Vera Brittain, la scrittrice inglese che nel
suo romanzo autobiografico, Generazione perduta racconta le drammatiche
vicissitudini che ha vissuto durante la Prima Guerra Mondiale. E' una storia
paradigmatica di un'epoca abbagliata da falsi ideali che hanno soffocato le
energie più vitali di una intera generazione che si è letteralmente persa. Lo
sguardo femminile del romanzo e del film rappresentano una rarità nella
complesso biblio-filmografia sulla Grande Guerra. Quello che è particolarmente
interessante è innanzitutto la sincerità di questa visione che pone la
scrittrice tra le fautrici ingenue e consapevoli dell'entusiasmo per la guerra
sulla spinta di principi di difesa della democrazia in cui credeva fortemente.
Le personali sofferenze sono un corollario alle convinzioni di Vera che riceve
una altrettanto dolorosa delusione nel momento che, finita la guerra, vede
accendersi di nuovo i focolai di odio e intolleranza che l'avevano nutrita. In
quel frangente la protagonista capisce che la guerra non è fondamentalmente
servita a niente e che, anzi, si pone come pericolosa premessa per nuovi
conflitti. La sequenza del pre-finale in cui vediamo Vera partecipare ad un
dibattito pubblico sulla necessità o meno di punire severamente il nemico
tedesco (il dilemma della scelta tra la vendetta e il perdono di Stato, ma anche
individuale affinché dalle sofferenze presenti non ne nascano di future),
risulta la chiusa politica più forte del film che sceglie poi l'epilogo poetico
esistenziale nella sequenza successiva del ritorno di Vera alle acque del fiume
in cui si divertiva con fratelli e amici e dunque alle acque della sua ingenua
giovinezza, persa per sempre.
La Prima Guerra Mondiale è vista come un evento
di iniziazione alla vita adulta per una intera generazione di giovani che
invece troveranno molto meno prosaicamente la morte (nel discorso alle reclute
del college in partenza per il fronte, il direttore ricorda beffardamente: noi
mandiamo i nostri giovani incontro alla vita).
Nel caso specifico non sono
però soltanto i padri ad indurre i figli al sacrificio (come in All'ovest
niente di nuovo o in Water diviner; anzi nella vicenda di Vera il padre
è decisamente contrario alla partenza del figlio maschio, prima e poi della
stessa Vera, dopo) ma i coetanei, le stesse donne anche quelle di buona volontà
e di sensibilità intellettuale come Vera (destinata agli studi ad Oxford)
abbacinate da un contagioso ed ingenuo entusiasmo collettivo ed ingannate dalla
propaganda e dalla romantica idea di una guerra riparatrice ed eroica.
Bella
anche la parte del racconto che descrive l'incursione di Vera nell'inferno
(inviata al fronte come infermiera) dove, quasi come in un contrappasso
dantesco, deve occuparsi di curare i soldati tedeschi conoscendone il dolore e
la stessa ingenua volontà di vivere, che avevano toccato i suoi coetanei inglesi, e distrutta poi da un conflitto disumano e fondamentalmente ingiusto.
Soldato semplice di Paolo Cevoli (2015)
Il cinema italiano ha ripreso a ricordare la Grande Guerra in questi ultimi anni, sulla spinta probabilmente delle celebrazioni e degli anniversari. Due film segnaliamo a questo proposito dallo spirito e dalla fattura assai diversi per quanto di ambientazione simile (fra le montagne teatro del nostro fronte). Il primo è Torneranno i prati di Ermanno Olmi (2014) e l'altro è Soldato semplice di Paolo Cevoli (2015).
Il primo è una rivisitazione in chiave spirituale e notturna di un evento sentito come un dramma che si svolge, per assurdo, all'interno di luoghi che rappresentano la pace e il distacco interiore, ovvero le montagne (tanto care a Olmi). La guerra non soltanto provoca ferite carnali ma profana la sacralità di una natura muta testimone della follia umana (e dopo Il mestiere delle armi, Olmi ritorna al motivo della guerra come scontro tra uomo e tecnica, tra carne e metallo).
Il secondo, dal tono leggero e aneddotico, si lascia vedere per alcuni passaggi riusciti anche se un po' didascalici (la lezione del maestro elementare, Cevoli, sui falsi valori deamicisiani che ricalca e ricorda quella analoga di Roberto Benigni sui valori della razza ariana ne La vita è bella; lo scambio di messaggi con l'eliografo, strumento di comunicazione utilizzato tra le alture del fronte italiano, che invoca il Sursum Corda, ovvero la latina elevazione del "In alto i cuori", fisica ma soprattutto spirituale). Il protagonista della storia, un maestro elementare, mammone eterno Peter Pan, che deve arruolarsi per non vedersi radiare dall'insegnamento (a causa delle sue idee piuttosto audaci), ricalca la tradizione monicelliana dei pavidi e degli opportunisti che si ritrovano, loro malgrado, a dover vivere esperienze più grandi di loro.
Prezioso
riferimento bibliografico: Le ceneri del passato di Giuseppe Chigi edito da
Rubettino, 2014
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