Psyco
Titolo originale: Psycho
Regia: Alfred Hitchcock
Data di uscita: 8 set 1960 (Stati Uniti d'America)Regia: Alfred Hitchcock
Produzione: Paramount Pictures, Universal Studios
Sceneggiatura: Joseph Stefano tratta dall'omonimo romanzo di Robert Bloch
Cast: Anthony Perkins, Janet Leigh, Martin Balsam, Vera Miles, John Gavin
I titoli di testa di Saul Bass,
ispirati all'intuizione grafica di Tony Palladino (la scritta Psycho frantumata come la mente di Norman) sulla copertina del romanzo di Robert Bloch,
richiamano anche ad una componente estetico tematica che ritorna nel film di
Hitchcock: la relazione tra linee verticali ed orizzontali, tanto nella
scenografia, quanto nella composizione spaziale e nella simbologia legata alle
relazioni tra i personaggi (che poi approfondiremo).
Non solo, ma la
decomposizione dei nomi del cast richiama al taglio del coltello di Norman e
alla decomposizione psicologica dei personaggi principali del film, alla loro
vivisezione (che nel caso di Marion è fisica).
L’ultima a comparire nei titoli
è Janet Leigh, che pure per buona parte del film è la protagonista indiscussa.
La sua morte a metà della storia è un notevole colpo di scena, oseremmo dire un
vero e proprio colpo basso per lo spettatore abituato a vedere il protagonista
fino alla fine della storia (usando un neologismo hitchcockiano possiamo dire
che Marion è un macroscopico Mc Guffin della prima parte del racconto). La
presenza marginale di Janet Leigh già nei titoli è come un piccolo indizio che
Hitchcock lascia allo spettatore per mettere in dubbio le sue certezze sulla
visione. La musica di Bernard Herrmann sottolinea con enfasi il ritmo della
composizione delle linee e anticipa il motivo musicale principale del film.
La scena iniziale si svolge a
Phoenix di cui Hitch dà una vista d’insieme con una panoramica multipla in
dissolvenza che va a stringere sulla finestra socchiusa di un motel del centro.
E’ un alto palazzo dentro cui letteralmente “penetriamo” con un movimento di
macchina che ci porta nella semi oscurità di una sua stanza (il doppio senso
del movimento di macchina ci ricorda l’analoga metafora del treno che entra in
galleria nella scena finale di Intrigo Internazionale). Questo malizioso
movimento di macchina ci introduce nell’alcova di due amanti che hanno
consumato un rapporto sessuale clandestino.
Il dettaglio del cibo intatto sulla
comodina ci racconta che non hanno avuto il tempo nemmeno di consumare il pasto
e l’ora segnalata nei titoli ci conferma che siamo nel primo pomeriggio in una
pausa pranzo qualsiasi. Marion in intimo bianco appare in posizione sdraiata
sovrastata dalla sagoma scura di un uomo con i pantaloni tenuti insieme da una
minacciosa cintola. Il bianco candido della figura orizzontale di Marion in
contrasto con il nero minaccioso e verticale di Sam, le sbarre alle spalle
della ragazza, sembrano richiamarci ad una iniziale idea di purezza violata; lo
stesso Hitchcock sottolinea come quell’immagine dovesse evocare un sentimento
di disperazione e di solitudine che attanaglia i personaggi, ma soprattutto
Marion.
E’ però soltanto una sensazione
passeggera perché Marion, in realtà, sembra sapere perfettamente il fatto
proprio e non è per niente una innocente sprovveduta.
Intanto sa perfettamente come
funzionano le cose in questi alberghi “dove a nessuno interessa con chi entri,
ma soltanto a che ora vai via” (affermazione di Marion) dove rapporti
clandestini come il loro si consumano con quotidiana frequenza. Nel pieno del
clima del codice Hays, una sequenza del genere è già di per sé ardita ed
esplicita. Sam è sposato, in procinto di divorziare, Marion è libera e disinibita,
attraente e seducente, un corpo che emana erotismo e passionalità, ma che, come
molte eroine di Hitchcock, si ricompone poi dietro un aspetto di rispettabilità
e algida freddezza nel suo muoversi negli ambienti sociali (in realtà nel
cinema di Hitchcock il processo è solitamente inverso: la rispettabilità di
partenza viene lentamente a sbriciolarsi per poi far emergere la carica
pulsionale, sia essa eros o thanatos, insita nei personaggi femminili delle sue
storie). Anche Marion si riveste, si ricompone, chiede a Sam (senza crederci
molto) di chiudere lì questa loro relazione oppure di rivedersi
“rispettabilmente a casa sua, con il ritratto della madre (!!!) sul comodino”;
lo implora di sposarla, ma Sam vedrebbe in quella prospettiva la fine dell’idillio
e l’inizio di un inferno che egli ben conosce dal suo primo matrimonio;
Marion,
maliziosamente, sarebbe disposta a vivere nell’inferno del suo retrobottega (in
effetti, come alcuni critici hanno fatto notare, il negozio di Sam sembra
pervaso da un’aura sinistra con quegli strumenti in bella vista che paiono
strumenti di tortura che potrebbero evocare il senso infernale della vita
matrimoniale) e potrebbe anche “leccare i francobolli” per Sam; Marion, cacciata dal suo personale Eden
rientra quindi nel tessuto sociale dove ha un lavoro e un ruolo “rispettabili”.
La sequenza iniziale ci presenta
una situazione peccaminosa che carica i personaggi, specie Marion, di sensi di
colpa difficilmente rimuovibili. E’ una sorta di peccato originale che Marion
dovrà poi pagare a caro prezzo. Le linee orizzontali
delle avvolgibili fanno da sfondo al bacio tra i due amanti nel peccato.
Rientrata in ufficio, fuori del
quale staziona Hitchcock che lancia una furtiva occhiata a Marion,
la giovane
donna si ricompone e tra una chiacchiera e l’altra con la sua collega d’ufficio
si lascia andare ad una battuta illuminante: "le buone intenzioni si dimenticano appena il male è passato"
(traducendo nell’ottica della vicenda: dopo l’amplesso nel pieno dei sensi di
colpa, il Male, Marion chiede disperatamente di regolarizzare
la sua relazione con Sam, la buona
intenzione, ma basterà che passi poco tempo per ricercare con malizia altri
momenti di piacere clandestino, l’oblio
del peccato commesso).
"Tengo l’infelicità lontana con i
quattrini". Questo è ciò che dice Cassidy, un cliente del suo ufficio che ha
appena comprato casa per la figlia diciottenne che sta per sposarsi, a Marion
che pare sul momento non reagire. Questa sequenza chiarisce però un punto:
Marion è oggetto di sguardo desiderante da parte degli uomini, essa incarna
l’oggetto del desiderio; come le dice la collega (seccata per non essere stata
altrettanto corteggiata): "quell’uomo ha
flirtato con te". Marion lascia l’ufficio con l’incarico di depositare il
denaro di Cassidy e precisa alla collega che "non si fa sparire l’infelicità con le pillole" (ma con il denaro
probabilmente si…). Alle sue spalle due quadri: un deserto e un luogo naturale
incontaminato (il sogno di Marion). Essi preconizzano la fuga di Marion dalla civiltà e da Phoenix e
i luoghi, specie il deserto, che dovrà attraversare per andare incontro al
proprio destino.
In una sequenza apparentemente di
raccordo, come quella in cui Marion prepara la valigia per la fuga, Hitchcock
riempie la scena di elementi interessanti e carichi di significato. Marion
indossa biancheria intima nera, ha abbandonato il bianco del candore per
mostrare a pieno l’anima nera che la pervade.
I continui sguardi che Marion
lancia alla busta piena di soldi indicano i suoi sensi di colpa che a stento
vengono trattenuti. La stessa insistenza sul dettaglio della busta si rivela il
secondo grande Mc Guffin tesoci da Hitchcock (quei soldi spariranno nella
palude con Marion).
Alle spalle di Marion compare per la prima volta il tubo di
una doccia che prefigura il luogo della sua morte. Alle pareti intravediamo
foto di bambini e quella di un uomo e di una donna che sono presumibilmente i
suoi genitori. Marion abbandona il luogo dei suoi affetti, ormai poco più che
un ricordo di foto sbiadite, per lanciarsi nei meandri di un viaggio che la
condurrà alla definitiva perdizione e alla morte. C’è chi ha visto nel gesto,
piuttosto inspiegabile, del furto di denaro, una sorta di sussulto irrazionale
frutto del senso di colpa per la sua relazione clandestina (nel romanzo, più che nel film, il furto è associato, in Marion, al suo desiderio di costruirsi un futuro con Sam e il denaro dovrebbe servire a risolvere i problemi economici di quest'ultimo. Così è spiegata la fuga in direzione di Fairvale, luogo del negozio di Sam).
La voce fuori campo di Sam è
frutto dell’immaginazione di Marion che vuole credere di potersi ricongiungere
con il suo amato. L’incontro casuale con il suo capo ufficio, che attraversa la
strada di fronte a lei che se ne sta andando con la macchina, sembra però
rompere i piani di Marion. La sua uscita dalla società è l’ingresso nelle
tenebre, fuori dalla città si fa improvvisamente buio, mentre le sagome dei
pali della luce sembrano altrettante sinistre croci (una delle quali, per
effetto di una dissolvenza, pare entrare letteralmente nell’occhio di Marion).
Il sonno coglie Marion che è ora ferma nel mezzo di quel deserto evocato dal
quadro nel suo ufficio.
Il risveglio di Marion è brusco,
un poliziotto è di fronte alla sua macchina e la sta osservando mentre dorme,
(l’ennesimo sguardo maschile voyeuristico su Marion). Nel gioco del campo e
contro campo i raccordi di sguardo tra i ‘personaggi sono sbilanciati. Mentre
Marion guarda in direzione dello guardo del poliziotto, questi è visto in
soggettiva dalla donna e, di fatto, guarda verso lo spettatore accentuando il
senso di minaccia che incombe su Marion, collegato con il senso di colpa. Il
poliziotto suggerisce, beffardamente, di trovare rifugio in qualche motel per
essere più al sicuro. Incarnando il principio di realtà e di autorità
(maschile) il poliziotto non solo prefigura la punizione di Marion la
peccatrice, ma in qualche modo la indirizza (verso il motel).
Il cambio dell’auto di Marion
appare come un gesto incomprensibile ed irrazionale, ancor più forse del furto
stesso, ma contribuisce a sottolineare il disorientamento della donna sempre
più preda dei sensi di colpa. Prima di lasciare la concessionaria d’auto Marion
è fermata, i tre uomini che le sono alle spalle paiono altrettanti cacciatori
sulla preda in fuga. Marion pare circondata e sempre più braccata da torme di
uomini che la vogliono punire.
La corsa di Marion, sempre più
lontano dalla città e sempre più immersa nelle tenebre che incombono, viene
contrappuntata dal flusso di coscienza della donna che immagina le reazioni di
coloro che l’hanno incrociata. Ma se nel pensare al furto in sé ella rivela un
disagio e una sofferenza, nel pensare all’inganno perpetrato ai danni di
Cassidy si lascia andare ad un ghigno satanico che a stento nasconde una
piacevole sensazione. Marion prova piacere per aver ingannato un uomo viscido
ed odioso ed averlo irretito in una trama fatta di furbizia e seduzione
(“Faceva la graziosa con me…quella…” immagina Marion di sentir dire da
Cassidy). Il personaggio di Marion sembra delinearsi sempre meno come ingenuo
ed impulsivo ed invece sempre più consapevole di sé. La sua duplice
trasgressione è frutto di impulsi verso i quali sembra essere attratta in modo
irresistibile. Il piacere di dominare ed ingannare la realtà fanno parte della
complessa personalità di Marion.
L’arrivo al Bates motel avviene
nel mezzo di una tempesta, anche interiore, che non permette a Marion di vedere
la strada da percorrere e la costringe ad una sosta in un luogo senza
coordinate precise, fuori dalla strada principale, come dirà Norman il padrone
dell’albergo che la ospita nella stanza numero 1, una stanza che costui sceglie
con accuratezza perché è la stanza da cui può spiarla.
Marion è di nuovo
oggetto voyeuristico di uno sguardo maschile. Il motel si articola in una serie
di camere adiacenti lungo un edifico di un solo piano che si estende in orizzontale e fa da contrasto con la
casa di Norman che è una sorta di castello sulla collina che si erge in verticale. Ispirato a un quadro di
Hopper, la casa della madre è il luogo lugubre della sessualità negata mentre
il motel è il luogo del peccato (ricordiamo l’incipit del film).
Norman
vorrebbe condurre Marion in casa per offrirle da mangiare ma quel luogo non è
per "donne sporche di provincia" (così
la definisce la madre di Norman; nel romanzo i due consumano la cena nella cucina della casa violando lo spazio sacro della madre) e dunque Norman deve offrire il pasto dentro
al motel. Marion, maliziosamente, invita Norman dentro la sua camera a
“consumare il pasto” (di nuovo la donna che prende l’iniziativa e squadra la
timidezza di Norman con materna superiorità) ma il giovane sembra intimorito e
la invita nel suo ufficio, luogo nel quale sembra trovarsi maggiormente a suo
agio.
Il salotto nel retro dell’ufficio si rivelerà il luogo degli uccelli
impagliati (come la sessualità di Norman, incatenata ad un voyeurismo sintomo
di impotenza; un Norman che non è nemmeno in grado di nominare il bagno quando
lo mostra a Marion; il bagno che è il luogo dove si lava la sporcizia ma è
anche il luogo dell’intima nudità, dove, non casualmente, troverà la morte
punitiva Marion).
“Mangiate quanto un uccellino”
dice Norman a Marion che è proprio l’uccellino che verrà ucciso dal rapace.
Correndo lungo il sottile binario del doppio senso, Norman dirà di non
intendersi molto di uccelli che lui riesce solo ad impagliare. Norman, incalzato
da Marion sulla sua solitudine, dice che il migliore amico è la propria madre.
Marion, incalzata da Norman sulle sue intenzioni, dice che sta cercando la sua
isola del sogno (quella dei boschi del quadro del suo ufficio). "Ognuno di noi è
vittima di una trappola in cui si trova invischiato", dice Norman, a cui ribatte
Marion che "spesso la trappola ce la cerchiamo deliberatamente". Il decoupage del
dialogo cambia bruscamente quando i due iniziano a parlare della madre di
Norman. Questi è improvvisamente inquadrato dal basso e di lato, sovrastato,
sullo sfondo, dalle sagome dei suoi rapaci impagliati e da due quadri che
rappresentano altrettante donne nude insidiate da un uomo. La madre, insomma,
evoca l’impotenza di Norman e i suoi impulsi violenti, la componente del
tanathos che lo pervade ed emerge furiosamente. Lui diventa il rapace che
insidia la donna e la uccide. Il dialogo si fa sempre più serrato e Marion si
trova aggredita verbalmente quando prova ad ipotizzare per Norman il distacco
dalla madre. Una donna sta cercando di togliere la madre dall’orizzonte mentale
di Norman (come aveva osato pensare di poter mangiare qualcosa in casa sua e
dunque sostituire fisicamente la madre alla tavola della famiglia), deve essere
immediatamente punita. Se poi questa donna ha la coscienza sporca (Norman
scopre che il suo nome è falso)! Quel dialogo, se non altro, serve a chiarire a
Marion che è giusto tornare indietro e rimediare allo sbaglio commesso. Ma
ormai è troppo tardi.
Lo sguardo di Norman scruta e
spia Marion in intimo nero (alle cui spalle stanno due quadretti di altrettanti uccelli). Lo spioncino che gli permette di guardare Marion si
trova dietro un quadro che è la rappresentazione pittorica di un episodio
biblico, Susanna e i vecchioni, in cui una ragazza è aggredita da alcuni uomini
mentre è in procinto di fare un bagno!!! E’ l’ultimo sguardo del peccato, del
voyeur impotente; quella presenza scandalosa deve essere rimossa, la mano della
giustizia si abbatte sulla povera ragazza che sta provando a ripulirsi
(letteralmente) dalla sporcizia di cui si è macchiata.
La doccia è proprio la
purificazione ma diventa anche l’altare sacrificale. Il bagno, luogo sporco per
eccellenza, dove viene punita la sporca peccatrice, la donna oggetto, la donna
rapace e scaltra. L’universo maschile ha avuto la sua rivincita per mano di un
impotente, sadico e dissociato.
Hitchcock costruisce la sequenza dell’omicidio
senza mostrare in realtà alcun dettaglio né delle parti intime di Marion, né
delle ferite che le infligge l’assassino. I dettagli contribuiscono alla
costruzione del fatto, ma nessuno di essi è truce o pornografico. I famosi
passaggi del montaggio con le associazioni di immagini per analogia (lo scarico
e l’occhio che si sovrappongono), i dettagli della doccia, il sangue che scorre
via contribuiscono a raccontarci di questo rito di purificazione che si compie
(il delitto, come fa notare Truffaut, nella sua intervista a Hitchcock, ha però
anche i connotati di un vero e proprio stupro).
Il movimento di macchina finale
che va dal dettaglio degli occhi di Marion, ormai senza vita, al dettaglio del
giornale che contiene i soldi, sono un ulteriore e beffardo Mc Guffin di
Hitchcock che, ironicamente, inquadra il denaro abbandonato a se stesso prima
di chiudere sul campo lungo della casa sulla collina nella quale Norman è in
preda al suo violento attacco schizo frenico e alla sua dissociazione che lo ha
condotto all’omicidio di Marion.
Norman tremante accorre nel bagno del delitto
e un quadro di un uccello cade simbolicamente ai suoi piedi: è la sconfitta
definitiva della sua virilità impagliata. La macchina da presa continua a
rimanere ancorata al dettaglio del giornale che sembra offrirsi a Norman in
tutta la sua evidenza; il disinteresse di Norman per quell’oggetto è ancora più
evidente: i soldi stanno sotto i suoi occhi ma lui non li vede.
L’insistenza con cui Hitchcock ci
mostra la pulizia che Norman è costretto a fare nel bagno della stanza numero 1
è carica di significati: rimuovere il corpo del peccato, rimuovere lo sporco
che la stessa Marion rappresenta; rimuovere la morte dall’orizzonte e i sensi
di colpa che si accompagnano al delitto; ribadire l’ossessione borghese per la
pulizia, sia essa anche soltanto la pura apparenza che nasconde il marcio.
La
rimozione finale nella palude è l’occultamento definitivo di Marion, è la sua
scomparsa nella palude mentale di Norman (ma è anche un luogo sporco che
accoglie il corpo, sporco di Marion, corpo nudo per giunta e dunque ancora più
riprovevole nell’ottica dell’impotenza di Norman). Il film letteralmente
finisce su questa immagine, quello che inizia dopo è un altro film (entrano in
scena personaggi nuovi che diventano protagonisti) e non è un caso che anche
questo poi si chiuda sull’immagine della palude da cui viene estratta la
macchina. Lo shock della morte della protagonista a metà della storia (inusuale
espediente narrativo) viene rielaborato nella lunga sequenza della pulizia
della scena. I soldi, inquadrati per un’ultima volta tra le mani di Norman,
spariscono come altro elemento sporco da eliminare.
Si riparte dal negozio di Sam nel
cui retrobottega l’uomo sta scrivendo una lettera (forse a qualche creditore).
Il negozio presenta strumenti che paiono minacciosi (coltelli, rastrelli…) e
sappiamo che quello è il luogo simbolico della famiglia che Marion avrebbe
dovuto costruire con Sam, un luogo che appare davvero poco rassicurante e in
cui è venduto anche veleno per uccidere animali (come ci ricorda una cliente
che ragiona sul fatto che anche gli insetti hanno diritto ad una morte non
dolorosa). Dentro questo spazio entrano due nuovi personaggi: Leila, la sorella
di Marion e Arbogast, il detective la cui prima comparsa, con quel primo piano
insistito, evoca una certa inquietudine. Se la prima parte del film si apriva
nello spazio del peccato (il motel), la seconda si apre in quella della composta
(ma, evidentemente, apparente) rispettabilità borghese.
Arbogast è il principio della
ragione che si impone: "Una donna che ruba
40000 dollari va sempre da qualche parte", dice con fermezza ai suoi due
interlocutori. L’intrusione di Arbogast nel regno
prima di Samuel è l’intrusione di un elemento razionale che viene
immediatamente espulso dal racconto. La morte di Arbogast è quasi immediata e
dovuta alla sua profanazione del luogo sacro della madre. L’omicidio di
Arbogast si connota come un’abile costruzione scenica di Hitchcock che aveva
incaricato Saul Bass di girarla ma che, insoddisfatto della prima
realizzazione, aveva sostituito con una sequenza alternativa di grande presa
spettacolare. Ecco come Hitchcock spiega le ragioni delle inquadrature con cui
ha realizzato la sequenza della salita delle scale di Arbogast:
"…Quindi mi sono servito di una sola ripresa di Arbogast che sale la
scala e, quando sta per arrivare all’ultimo scalino, ho deliberatamente messo
la macchina da presa in alto per due ragioni: la prima per poter filmare la
madre verticalmente perché, se l’avessi mostrata di spalle, poteva sembrare che
non avessi voluto apposta far vedere il suo volto e il pubblico non si sarebbe
fidato. Dall’angolo in cui mi ero messo non davo l’impressione di voler evitare
di far vedere la madre. La seconda e più importante ragione per salire così in
alto con la macchina da presa era di ottenere un forte contrasto tra il campo
totale della scala e il primo piano del volto del detective quando il coltello
si abbatte su di lui. Era proprio della musica, vede, la macchina da presa in
alto con i violini e, improvvisamente, la grossa testa con gli ottoni.
Nell’inquadratura dall’alto, avevo la madre che arrivava e il coltello che
veniva giù. Interrompevo questo movimento del coltello e passavo al primo piano
di Arbogast…"
Nelle parole di Hitchcock
ritroviamo l’abile costruzione della messa in scena del regista che gioca
deliberatamente con lo spettatore e le sue aspettative.
Leila può entrare nello spazio
familiare di Sam perché non è la donna oggetto di sguardo, seduttiva,
peccaminosa e fatale che era Marion. Lei è asessuata, priva di impulsi, è la
donna rispettabile, seppur anche su di lei incombano strumenti minacciosi non
troppo dissimili dagli uccelli impagliati di Norman (Leila è circondata dalle
ombre di oggetti come rastrelli e falci nella penombra del negozio di Sam).
Leila è la donna di famiglia che attende il marito a casa, costretta in spazi
claustrofobici che evidenziano l’idea oppressiva che Hitchcock associa al
matrimonio (in fondo la schizofrenia di Norman nasce in un contesto familiare
malato; la casa della madre è il luogo dell’inferno per eccellenza). Lo spazio
oscuro del negozio di Sam non è meno inquietante della stanza del motel Bates.
Leila che aspetta Sam è la realizzazione figurata del sogno di Marion (e del
resto Marion stessa firmandosi Mary Samuels al motel, aveva evocato la
possibile realizzazione del suo sogno di rispettabilità attraverso il
matrimonio: Mary nome casto, Samuels ricorda come un patronimico il nome del
desiderato marito Sam, non dimenticando, però, che Mary Samuels era il nome della protagonista uccisa nel romanzo di Bloch). Leila come ombra e sagoma scura sembra dunque un doppio
della sorella.
Leila e Sam, instradati dallo
sceriffo di Fairvale che rivela loro che la madre di Norman è morta da tempo,
si presentano al motel Bates come una coppia di coniugi. Leila può essere
“moglie” di Sam con estrema naturalezza, cosa vietata alla sorella peccatrice.
Alla reception del motel si presentano vestiti elegantemente e Norman offre
loro la camera numero 10 perché la camera numero 1, quella dello spioncino, non
serve con una donna come Leila. La stanza in cui alloggiano i due “sposini” ha
un arredamento anonimo come i quadri alle pareti che non hanno allusioni agli
uccelli come nella camera numero 1. Sam dà le spalle a Leila senza alcun
accenno di attrazione tra i due. L’atmosfera morbosa che permeava l’arrivo di
Marion al motel è completamente scomparsa.
L’ascesa di Leila verso la casa
della madre è simile a quella di Arbogast, è una sorta di lento avvicinarsi
verso un altare sacrificale. E’ un lento penetrare nella mente (la casa
appunto) dello psicopatico Norman Bates. E in questa mente due sono le stanze
fondamentali: quella della madre, che pare l’alcova di una casa ottocentesca
con quel letto che ha i segni di una presenza invisibile, quelle mani che si
intrecciano e la presenza di specchi che disorientano Leila al punto che crede
di essere avvicinata da un’altra persona.
La stanza di Norman è quella di un
bambino mai cresciuto, con tanto di bambole e un orsacchiotto che tiene sul suo
letto con sé. Un giradischi su cui è posta l’Eroica di Beethoven e alcuni libri
(di cui non conosciamo il titolo) completano l’arredamento di questa stanza
spoglia e squallida, certo non curata come quella della madre (la stanza di
Norman pare una cella, quella della madre è una stanza padronale, ad indicare
il gioco di relazioni psicologiche in atto nella mente di Norman con una madre
ancora tiranneggiante su un bambino ostaggio). La discesa nella profondità
della psiche di Norman è la discesa nella cantina della casa dove è contenuto
il cadavere della madre, cioè è contenuta la verità rimossa da Norman.
La psicanalizzazione finale di
Norman nell’ufficio dello sceriffo nulla aggiunge alla definizione del
personaggio dello psicopatico Bates che non riesce a liberarsi dell’ingombrante
presenza del fantasma della madre che compare in sovraimpressione sul suo volto
nell’inquadratura finale. Egli, accecato dalla gelosia ha ucciso la madre e
l’amante di lei e sconvolto dai sensi di colpa l’ha mantenuta in vita curandosi
del cadavere imbalsamato della stessa; ha poi trasferito sulla madre la gelosia
che lo attanagliava così che è stata “lei” ad uccidere le donne che lo hanno
insidiato. E Norman si travestiva quando il desiderio o eventi esterni mettevano
a repentaglio questo suo mondo immaginario. Marion aveva messo in discussione
le sue fantasie malate e la madre che era in lui è tornata prepotentemente alla
ribalta.
La battaglia interiore combattuta
da Norman è finita, la madre ha vinto. Ciò che è rimasto nel fondo della mente
di Norman è stato finalmente svelato e tirato fuori come l’automobile dalla
palude.
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