Il sale della Terra
Titolo originale: The salt of the heart
Genere: Documentario Durata: 100 minuti
Produzione: Brasile, Francia, Italia 2014
Per definire i discepoli e la loro missione, nel vangelo Gesù
impiega una serie di immagini. Li indica anzitutto come il sale della
terra.
Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il
sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad
essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo;
non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende
una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia
luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti
agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro
Padre che è nei cieli. (Vangelo di Matteo 5, versetti 13-20)
Sebastiao Salgado è scambiato per
Cristo da uno degli uomini della comunità dei Saraguros in Ecuador. Ha i
capelli e la barba lunghi, è venuto sulla Terra per osservarli e giudicarli
secondo una credenza del loro popolo.
In questo passaggio del documentario di
Wenders sta nascosta una delle verità del film: Sebastiao è un moderno discepolo di Cristo che si muove tra i
derelitti, i perseguitati, gli afflitti e i poveri, che scende nell’inferno dei
conflitti, della barbarie umana a catturare la luce con la sua macchina
fotografica, per poi portare, da bravo discepolo, la luce stessa al Mondo per
rivelare gli orrori umani tenuti talvolta nascosti.
Il film si apre proprio sul
concetto di fotografia che unisce le idee di Foto (luce) e di grafia
(scrittura) e Sebastiao, proprio come i discepoli, si sente luce del mondo e
sul mondo fa egli stesso luce. Non si accende una lucerna per metterla sotto il
moggio, così le fotografie di Sebastiao diventano progetti da mostrare al mondo
perché questo si ravveda della crudeltà e della violenza che racchiude. Gli
uomini che Salgado fotografa (e che lui ama e rispetta, come si rende conto
Wenders) sono il sale della Terra, ma anche Salgado stesso è il sale della
Terra, prima osservatore e testimone quasi inerte, poi protagonista con la sua
fazenda brasiliana che rianima, a cui fa riprendere vita e che, nel suo piccolo
grande miracolo (la rinascita della foresta) dona nuova speranza al Mondo.
Ci
sono momenti quasi francescani e panteistici nel percorso del fotografo che,
nella sua ultima fase, l’abbandono della fotografia sociale per un’arte votata
alla contemplazione della Natura, lo vedono protagonista di una presa di
coscienza assoluta in cui egli si sente amico di una balena, entra in
confidenza con un gorilla, ammira la saggezza di una tartaruga. Deluso, forse,
dalla barbarie dell’umanità (l’uomo, per sua stessa definizione, è il più
feroce degli animali),
Salgado torna alla Genesi (significativo titolo del suo
ultimo progetto) del Mondo per cercare di ritrovare quell’armonia perduta con
il creato. Ecco allora che si inoltra in luoghi non antropizzati, non toccati
dall’uomo se non in maniera marginale (come nelle lande artiche con i Nemeth o
nella foresta amazzonica con una tribù semi primitiva) per ritrovare la
coscienza del suo essere natura dentro la Natura, del suo essere come gli
insetti e gli alberi pronto a concludere il ciclo della vita là dove era
iniziato (nella sua amata proprietà nella foresta brasiliana ribattezzata Instituto
Terra).
La Storia dell’uomo che si inserisce in quella vitale e ciclica della
Natura (alla faccia di Hegel che riteneva la Storia dell’Uomo degna di rispetto
inserita in un contesto dialettico negativo come quello dei processi naturali),
sembra proiettarci in una sorta di viaggio all’inferno (e i pozzi del Kuwait in
fiamme sono veramente l’immagine più viva di questo inferno) da cui tutti, come
Salgado (per quanto ammetta che quell’orribile spettacolo avesse una tremenda
attrazione su di lui), sentiamo ad un certo punto il bisogno di fuggire.
L’uomo
che ha confidenza con il Male (l’uomo il cui sale ha perso sapore) e che
l’obiettivo di Salgado ha fissato con disarmante lucidità in contrasto con
l’uomo, l’oggetto di ammirazione di Wenders, il cui sale non perde di sapore e
che è immagine vivente del Bene (Salgado è ripreso da Wenders immerso nella
Natura in posa contemplativa, oppure isolato dal mondo in un nero indefinito, o
ancora immerso nelle foto stesse che ha realizzato, con sovraimpressioni e
dissolvenze che lo rendono figura tra le figure, in mezzo a coloro che soffrono
e sono perseguitati).
Ecco chi è l’uomo che va cercando di scoprire Wenders e
che va esplorando lo stesso Juliano,
il figlio di Salgado. Questi è una sorta
di Telemaco che attende il suo padre Ulisse di ritorno da infiniti viaggi.
Nutrito delle sagge parole della madre (Lilia, un vero gigante sullo sfondo
della vicenda), Telemaco – Juliano, attende il padre e poi ne segue le tracce,
con l’ammirazione e la curiosità di chi non ha perso l’amore filiale ed ha
intenzione di scoprire la vera identità di colui che lo ha generato.
La madre
generatrice di vita (non solo la sua, ma anche quella di milioni di alberi che
lei stessa ha contribuito a piantare) è la Penelope che non tradisce mai Ulisse
e ne costruisce una immagine sacra e potente pur nell’assenza.
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